di SIMONE PIERANNI.
Il recente vertice Apec (Asia-Pacific Economic Cooperation) ospitato in Nuova Guinea, per la prima volta nella sua storia (iniziata nel 1989) si è concluso senza una dichiarazione congiunta, a causa dei dissapori tra Cina e Usa.
QUESTA TENSIONE, maturata durante gli ultimi mesi anche a causa dello scontro commerciale in atto tra i due giganti economici, si è palesata all’Apec intorno al progetto cinese della Nuova via della Seta, lanciata dal numero uno di Pechino Xi Jinping con l’intento di unire la Cina a nuovi mercati attraverso tre vie, terrestre, marittima e polare. La Nuova via della Seta ha finito, negli ultimi mesi, per concretizzarsi attorno a progetti infrastrutturali finanziati dalla Cina e dall’Aiib (Asian Infrastructure Investment Bank), la banca di investimenti creata ad hoc.
Se Xi Jinping in Nuova Guinea ha specificato che la nuova via della Seta «non è concepita per essere al servizio di un’agenda geopolitica nascosta, non è diretta contro nessuno e non esclude nessuno né è una trappola come qualcuno l’ha etichettata», diverso il ragionamento del vice presidente Usa Mike Pence, che ha criticato il progetto, definendola una «cintura costrittiva» e una «strada a senso unico».
Pence ha poi invitato i paesi più piccoli, decisamente attratti dagli investimenti cinesi, a non lasciarsi ingabbiare dai prestiti di Pechino, capaci di dare vita a «debiti sbalorditivi». Pence – dimenticandosi forse del ruolo del Fmi a guida Usa – ha invitato a scegliere quindi gli Usa perché «non affogano i loro partner in un mare di debiti» e non «costringono, corrompono o compromettono» la loro indipendenza.
La Cina di Xi Jinping ha posto sulla realizzazione della Nuova via della Seta gran parte delle proprie energie e della propria credibilità internazionale. Analizzare i piani cinesi in questo senso significa indagare la concezione di globalizzazione ordita da Pechino.
Una globalizzazione e dunque una potenziale «influenza» cinese sul resto del mondo al centro di notevoli dibattiti. Ci sono due piani che finiscono per incontrarsi nell’ambito di una valutazione complessiva: da un lato ci sono i recenti intoppi che il progetto ha riscontrato per lo più in Asia, dall’altro c’è l’interrogativo su come la Cina gestirà il progetto in termini egemonici da qui al 2049, il «centenario» della Repubblica popolare, nonché tappa di un primo bilancio del mastodontico progetto elaborato da Xi Jinping.
Questi due piani si incontrano e finiscono per specchiarsi nella potenziale soluzione: le problematiche che la Cina sta incrociando sul suo cammino potrebbero rendere più chiara la sua strategia, obbligata a intervenire con la sua consueta capacità di mediazione in gineprai politici sullo scacchiere tanto asiatico quanto mondiale.
Del resto, come vedremo, tutte le recenti problematiche legate al progetto «Obor» (l’acronimo della Nuova via della Seta) nascono da una volontà di rinegoziare gli accordi, più che gettarli alle ortiche. In questo senso la diplomazia della Cina sarà in grado di mostrare, o meno, la vera differenza della sua «guida» rispetto a quella americana.
IL PRIMO ASPETTO è puramente tattico, ma nel risolverlo la Cina sembra riportare d’attualità un concetto assai discusso nella storia politica e filosofica cinese, ovvero quello di tianxia. Alcuni paesi sui quali la Cina ha investito parecchio in attenzione e investimenti, negli ultimi tempi, hanno visto scossoni politici in grado di determinare posture diverse da parte dei governi nazionali nei confronti dei piani cinesi.
In Malaysia la vittoria dell’anziano leader Mahathir ha rimesso in discussione alcuni importanti progetti che Pechino aveva stabilito con Kuala Lumpur. Analogamente è accadute nelle Maldive, dove si è assistito a una sorta di scontro politico per procura tra Cina e India, e di recente nello Sri Lanka, dove la crisi politica sta tracimando, mettendo a rischio le posizioni di vantaggio acquisite dalla Cina negli ultimi tempi. Ugualmente problemi sono sorti in Myanmar e Pakistan.
L’ANALISTA Raffaello Pantucci in un recente articolo dal titolo China’s Belt and Road hits problems but is still popular sul Financial Times ha analizzato questi problemi, concludendo però che tutte le recenti resistenze dei paesi alla nuova via della Seta sono da considerare come richieste di rinegoziazione, più che di rifiuto: «Tre casi importanti sono in Pakistan, Malesia e Myanmar. Ma ognuno di questi casi deriva in parte da una spinta dei governi locali a rinegoziare alcuni progetti con la Cina. In Pakistan e Malaysia un’elezione sembra aver accelerato il cambiamento. L’elezione di Mahathir in Malesia ha portato a cambiamenti radicali all’interno del paese, tra cui la necessità di rivedere alcuni degli accordi che erano stati firmati sotto l’ex governo con la Cina».
Mahathir pubblicamente ha più volte espresso preoccupazione per la Cina, «ma ha anche ripetutamente sottolineato l’importanza degli investimenti cinesi in Malesia». Il caso è simile con il Pakistan, dove la vittoria di Imran Khan «ha portato a un cambiamento a Islamabad. Nello specifico, ha contribuito a cristallizzare una serie di lamentele sul corridoio economico Cina-Pakistan che si era diffuso nel governo pakistano».
LA NUOVA VIA DELLA SETA è senza dubbio il piano con il quale la Cina mira a estendere una supremazia economica su molti paesi, benché intenda farlo alla «cinese». Per questo, in Cina, sta tornando d’attualità la riflessione intorno al concetto di tianxia, ovvero «tutto quello che sta sotto il cielo», architrave teorico dell’imperialismo cinese, concepito non tanto come un’egemonia da imporsi con la forza, quanto con la potenza della civiltà cinese.
Tianxia, spesso, è stato utilizzato come termine «cinese» per sostituire quello più occidentale di «impero», ma si tratta di una semplificazione.
Sostanzialmente gli imperatori cinesi ritenevano che la propria potenza si estendesse al di là di confini territoriali, anche per questo il concetto di stato-nazione ha portato il bagaglio intellettuale cinese a confrontarsi, ancora una volta, con un elemento teorico occidentale. E questo dominio «imperiale» avveniva attraverso un sistema di tributi con il quale un territorio riconosceva, semplicemente, la superiorità cinese.
Il termine è tornato d’attualità da tempo nel pensiero politico cinese e lo stesso Xi Jinping lo ha utilizzato nell’agosto scorso, con riferimento proprio alla Nuova via della Seta. In pratica, semplificando, potremmo sostenere che il concetto di tianxia, sia il cardine della globalizzazione con caratteristiche cinese: una comunità – tutti i paesi toccati dal progetto – «dai comuni destini»; una comunità unita sotto al «cielo cinese», cui viene dimostrata superiorità non più attraverso tributi, come in epoca imperiale, bensì attraverso progetto comuni.
UNA VISIONE EDULCORATA ma che i recenti problemi metteranno alla prova: Pechino dovrà dimostrare di saper gestire queste problematiche nel suo senso «cinese»: senza forzare, bensì ammorbidendo ogni fattore di rottura.
Si tratta di un’egemonia di stampo paternalista, ma all’interno della quale proprio il concetto di tianxia dovrebbe operare affinché la Cina non ripeta gli errori statunitensi, ovvero armare di bombe e guerre la propria «estensione» egemonica. Come scrive Ban Wang nell’introduzione al fondamentale volume Chinese vision of world order, tianxia, culture and world politics (Duke University, 2017) il concetto di tianxia si riferisce a «un sistema di governance tenuto insieme da elementi culturali e valoriali che trascende i confini etnici e geografici».
Secondo Benjamin Schwartz, in The Chinese Perception of World Order, il concetto di tianxia presenta «una nozione di regalità universale legata a un senso di partecipazione ampiamente condiviso nei confronti di una cultura superiore».
La concezione imperiale, ne discende, non sarebbe dunque puramente territoriale, geografica: «il termine tianxia come una delle principali categorie del pensiero cinese appare nei discorsi politici relativamente tardi nell’antichità, non figurando in modo prominente fino all’emergere dello Zuo zhuan e, in misura minore, del Lun yu.
Sebbene entrambi i testi si siano evoluti nel tempo e nessuno dei due possa essere datato con precisione, ciò suggerirebbe che il concetto non era prominente prima del periodo dei primi Stati Combattenti».
Questo articolo è stato pubblicato su il manifesto il 20 novembre 2018.