Di ALBERTO MANCONI e MIRIAM TOLA.

Il dilagare della pandemia COVID-19 in Italia ha trasformato la vita quotidiana in distopia. In Italia, le aree più colpite, come Bergamo e Brescia, sono ancora avvolte nelle spire del contagio, della morte e del trauma collettivo, in buona parte frutti avvelenati di una continuità produttiva dall’inaudita ferocia. Il tempo distopico si dilata, il contenimento a colpi di decreto è stringente ma la sua efficacia rimane incerta. Tra scenari di recessione globale, si tessono reti di solidarietà e materiale resistenza alla precarietà senza reddito. I corpi isolati sono ancora, ostinatamente, in relazione. Per restare in relazione, per costruirne di nuove, proviamo a mettere a fuoco alcune tecnologie ed ecologie della pandemia per poi guardare alla cura come terreno di lotta e sperimentazione. Perché cercare parole in comune, anche quando ci si è appena incontrati, è un modo per respirare insieme.

TECNOLOGIE DELLA DISTANZA

Nel tempo sospeso della pandemia abitiamo schermi che portano dentro mondi. Là fuori ci sono le persone più esposte. Non siamo tutte uguali davanti al virus. La pandemia non crea uguaglianza di specie. E questa specie, già come Linneo la definì nel Systema naturae del 1758 che divideva l’Homo sapiens in quattro razze, non è mai stata di eguali. Le reti dell’attivismo e del pensiero critico lo affermano da settimane: la pandemia va guardata dalle prospettive di chi si fa carico dei suoi effetti disastrosi. Il personale ospedaliero ma anche le lavoratrici della cura non retribuita o sottopagata, i rider, chi lavora nelle fabbriche e nei magazzini di Amazon, le detenute e i migranti. L’emergenza sanitaria approfondisce le ineguaglianze preesistenti e ne crea di nuove. Negli Stati Uniti, Trump, il presidente del negazionismo climatico, ha prima minimizzato la portata del COVID-19. Poi ha tentato di comprare dalla Germania l’esclusiva sul vaccino e ha dichiarato lo stato di emergenza. Molti americani hanno reagito facendo scorta di armi e munizioni. Homo homini lupus.

La crudele antropologia hobbesiana, innervata di paura ed isolamento, non si esprime solo nelle parole dei politici più reazionari. Al contrario, trova supporto nelle piattaforme digitali come un’immagine di guerra civile che tenta di divenire realtà. In Italia, ad esempio, prolifera attraverso il web quel meccanismo micro-fascista che spinge a segnalare chi “viola” la quarantena, che sia per andare a lavorare, correre o fare spesa. Così l’attenzione si sposta dalle responsabilità di chi ha distrutto il welfare state e le infrastrutture della cura, a quelle di individui isolati. Again.

Mentre la paura del contagio produce inquietudine verso il corpo dell’altro, fonte di insidie invisibili, chi resta a casa é iper-connesso ma disgiunto. In relazione, ma senza possibilità di toccarsi. Le piattaforme che dominano il capitalismo dei dati, registrano una ulteriore, inimmaginabile, espansione. Dallo smart-work, alla didattica, all’attivismo: tutto, o quasi, accade online. Disegnate per estrarre valore dal sociale, le piattaforme captano informazioni, registrano ogni istante, ogni dettaglio di ciò che facciamo. Sfugge però il dato più ricercato: quanti hanno contratto l’infezione? Se le fluttuazioni statistiche nel pieno di una crisi epidemica non devono sorprendere, colpisce un aspetto emerso nelle ultime settimane: i dati sulla reale diffusione del virus rimangono inaffidabili. Accade soprattutto a causa della carenza di test, denunciata anche dall’Organizzazione Mondiale della Sanità. La difficoltà a tracciare i movimenti del virus, uno dei principali ostacoli alla formulazione di strategie sanitarie in grado di affrontare la crisi in atto, emerge in modo paradossale nell’era dei Big Data.

ECOLOGIE POLITICHE

Parte di una vasta virosfera ancora in gran misura sconosciuta, il SARS-CoV-2 ha fatto irruzione nelle nostre vite. Ha trovato terreno fertile in un sistema sanitario ridotto all’osso da decenni di neoliberismo e nei troppi luoghi di lavoro rimasti aperti per il diktat delle imprese. L’intrusione del virus, con i suoi effetti dirompenti, mostra che gli esseri umani non sono gli unici agenti della storia. Spesso a fare e disfare la storia sono attori imprevisti come oceani, pipistrelli e batteri. Il loro agire si dispiega attraverso relazioni del tutto asimmetriche con altri attori e altri corpi.

Il virus è passato da corpi animali, serpenti o pipistrelli, a quelli umani per poi viaggiare nei flussi dell’economia globale. I salti di specie (spillover) sono correlati a deforestazione selvaggia, riduzione della biodiversità e alla crisi climatica, fenomeni in cui la tecnoscienza, mai innocente, gioca un ruolo chiave. Tornano alla mente eventi recenti: gli incendi e i disboscamenti in Amazzonia che hanno devastato interi ecosistemi per fare spazio all’industria agro-alimentare, con il sostegno attivo del governo Bolsonaro. O i mega-incendi in Australia, dove nei mesi scorsi è andata a fuoco un’area equivalente all’estensione della Danimarca. Le fiamme hanno fatto strage di animali, costretto al dislocamento di gruppi umani e non-umani, inclusi gruppi indigeni ancora una volta sradicati dalla loro terra.

Non sappiamo se gli eventi in Brasile e Australia abbiano aperto la strada all’emergere di nuove malattie zoonotiche. Gli ecosistemi seguono logiche non lineari, sfuggono ai modelli tecnoscientifici . Eppure, sembra probabile la correlazione tra diffusione del COVID-19 e l’inquinamento dell’aria in Pianura Padana. L’alta concentrazione di particolato atmosferico, sostiene uno studio recente, potrebbe sia veicolare il virus e dunque favorirne la diffusione, quanto stimolare la virulenza dell’infezione. Questo contribuirebbe a spiegare perché nelle province con i più importanti distretti produttivi, i più alti tassi di occupazione ma anche di inquinamento si muore con un’incidenza incredibile. Il nesso tra circolazione di agenti patogeni e inquinamento industriale permette di spostare lo sguardo dal pericolo del contatto con corpi altri, potenzialmente infetti, a quello di un modello produttivo che combina lo sfruttamento dei corpi con la devastazione dei territori.

La distruzione di habitat e i picchi di emissione, frutto del progetto capitalista di trasformare il mondo intero in circuito di creazione e circolazione di valore, introduce ulteriori elementi di turbolenza in sistemi di per sé non lineari. Amplificano eventi di fronte a cui, lo vediamo, i governi brancolano nel buio. Dai salti di specie all’inquinamento, questa pandemia è un contro-effetto dell’insostenibile pressione del capitalismo sul pianeta. Così come lo sono state, e lo saranno, altre epidemie ed altri eventi climatici estremi. Se la distanza tra i corpi è necessità contingente, la presa di distanza da un modello produttivo che rende vulnerabili i viventi e altera processi di portata planetaria è terreno di lotta per creare futuro.

REINVENTARE LA CURA

La pandemia porta all’estremo il rischio, la volatilità e l’incertezza, elementi che che il neoliberismo ha trasformato in strumenti di governo delle popolazioni, facendo della precarietà una condizione inaggirabile di cui ogni individuo è chiamato a farsi carico. L’enormità della crisi sanitaria mostra la dimensione mortifera del mantra neoliberista della responsabilità individuale.  Nell’immediato ha messo a nudo i limiti prospettici e organizzativi – dunque tecnologici – dell’approccio individualizzato alla cura. Come ha rilevato un gruppo di medici di Bergamo, «in una pandemia la cura centrata sul paziente è inadeguata e deve essere rimpiazzata dalla cura centrata sulla comunità»[1]. Ma la crisi della cura, messa a tema dalle reti femministe da Non Una di Meno in Italia al Care Collective inglese, è ben più ampia. È crisi generalizzata della riproduzione sociale che si manifesta nell’ansia generata dalla precarietà, nella fragilità della sanità e della scuola, allo stremo dopo decenni di privatizzazioni, e nella violenza di diseguaglianze che, ora più di prima, stratificano la specie lungo le linee della classe, del genere e del colore.

La crisi in corso richiede trasversalità delle lotte, sperimentazioni e pratiche per reinventare forme di cura che dai corpi singoli si estendano alle tecnologie ed ecologie sociali che permettono loro di persistere. Perché l’intrusione del SARS-CoV-2 pone il problema di vivere altrimenti su un pianeta che non ci appartiene.

Articolo pubblicato insieme a DinamoPress.

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