di GISO AMENDOLA.
La relazione tra vita e politica ha costituito, almeno dalla fine degli anni Ottanta in poi, il tema centrale del dibattito teorico-politico, e in particolare di quello italiano. Non a caso, la biopolitica è stata individuata come una sorta di marchio di fabbrica della cosiddetta Italian Theory. Proprio in Italia, però, si è spesso corso il rischio che la genericità di un termine come vita finisse per affogare in una pericolosa indistinzione l’intera questione della biopolitica. Si può dire, anzi, che la “vita” sia spesso servita, nel nostro dibattito teorico, per neutralizzare differenze e scelte politicamente impegnative: un bel richiamo a un genericissimo vivente, specie in una cultura come quella italiana nella quale vitalismi e idealismi si sono intrecciati con malfamati esiti politici, può in fondo sempre servire a scacciare dalla riflessione politica soggetti e conflitti reali, e a rimettere in circolo con il vestito nuovo metafisiche tradizionalissime. Ciò non toglie, però, che attraverso la biopolitica sono state nominate questioni serissime, e mal si reagirebbe agli abusi e alle genericità archiviando sia il termine che la questione.
Molto utile, allora, disporre di questo Ripoliticizzare il mondo. Studi antropologici sulla vita, il corpo e la morale (ombre corte, pp. 177, € 18, cura e traduzione di Chiara Pilotto) dell’antropologo francese Didier Fassin, già ben noto in Italia per le sue ricerche su sicurezza e polizia (di recente è stata tradotta, da La Linea, La forza dell’ordine. Antropologia della polizia nelle periferie urbane). Il libro è appunto un intenso corpo a corpo con il problema della biopolitica, intesa, con Foucault, come nesso tra politica, corpo e verità. Oltre la crisi degli alfabeti tradizionali della politica moderna, sostiene Fassin, una ripoliticizzazione, la ricostruzione di un senso complessivo dell’azione politica, è ancora possibile, ma deve calarsi nel vivo delle soggettività, dei corpi e degli affetti.
Tecniche di governo
La biopolitica resta quindi un passaggio obbligato e cruciale. Per Fassin, però, il discorso foucaultiano è insufficiente: Foucault enuncia come determinante il tema della politica della vita, ma, in fondo, lo lascia cadere quasi subito. In Foucault, scrive Fassin, dopo i riferimenti a una biopolitica in senso stretto contenuti alla fine del corso del 1977, Bisogna difendere la società, o in La volontà di sapere, l’attenzione finisce per concentrarsi piuttosto sulle tecniche di governo delle condotte (il tema della governamentalità) che sul senso e sul valore delle concrete poste in gioco oggetto di quelle tecniche. I riferimenti al potere della vita in quanto tale sparirebbero, e il Foucault governamentale produrrebbe infine una “biopolitica senza vita”: più precisamente, una politica sulla vita piuttosto che una politica della vita.
Probabilmente, queste obiezioni risentono di un certo clima interpretativo, simile a quello che ricordavamo con riferimento al dibattito italiano: letture che riducono il tema della governamentalità ad una sorta di analitica delle tecnologie di governo, in verità, non mancano. L’impressione è che, quando Fassin in sostanza obietta che l’analisi del potere marcerebbe astrattamente separata da quella del nesso soggetto/verità, colpisca effettivamente un punto critico di molte interpretazioni, ma lasci fuori invece letture più intrecciate e stimolanti del percorso foucaultiano, quelle appunto che hanno rifiutato di separare soggettività e governamentalità, soggettivazione e potere, etica e politica. Del resto lo stesso Fassin ricorda come eccedano ogni presunta “biopolitica senza vita” sia l’impegno personale di Foucault nelle lotte dei movimenti sociali, sia “il suo orientamento teorico più tardo, rivolto alla dimensione etica del governo di sé e degli altri”: il che conferma l’idea che la scelta come obiettivo critico di un Foucault che ridurrebbe la biopolitica a tecnica di governo sia debitrice a una lettura un po’ troppo compartimentata del percorso foucaultiano.
La scomparsa dei soggetti
Ma lasciamo pure agli studiosi foucaultiani queste, comunque rilevanti, questioni interpretative, e veniamo a cosa Fassin intenda poi, dal canto suo, per politica della vita. Qui lo sguardo antropologico offre molti materiali per un approccio alla biopolitica che superi decisamente ogni ambigua genericità dei riferimenti alla vita e al vivente. Non per nulla, Fassin critica con decisione un altro dispositivo attraverso il quale i discorsi sulla vita rischiano di vedersi neutralizzata la loro precisa portata politica: quello che separa di netto vita biologica e vita storicamente qualificata, il fatto di sopravvivere, la vita in sé e la “vita che si vive attraverso un corpo e come società”. È alle modalità di implicazione reciproca e complessa delle diverse dimensioni che invece bisognerebbe guardare: in altri termini, ogni vita è sempre una forma di vita storicamente prodotta, contro ogni taglio tra forma di vita ed elemento biologico, quale può emergere per esempio nell’approccio di Arendt, almeno quando separa di netto lo spazio politico da quello della vita naturale (e riduce a quest’ultima dimensione tutto lo spazio dell’economico-sociale) o in quello di Agamben, in cui l’insistenza sulla nuda vita rischia di produrre “indifferenziazione del politico” e, soprattutto, “la scomparsa dei soggetti”.
Niente nuda vita e niente vita in sé, quindi, non bìos contro zoè, ma vite storicamente qualificate e corpi sui quali poteri storicamente e politicamente precisabili incidono la propria azione.
Politica della vita significa, per Fassin, che il fatto di vivere, nel senso di conservare la vita, di sopravvivere, si impone come criterio di legittimità ultima dell’azione politica. Se i dominati, durante il capitalismo industriale, usavano il proprio corpo essenzialmente come fonte di forza lavoro, ora il corpo, la sua stessa esistenza in vita, si trova ad essere giocato direttamente come fonte di diritti. L’economia politica classica dello sfruttamento del lavoro si intreccia così profondamente con un’economia morale, in cui si viene chiamati ad esporre il proprio corpo, a raccontarlo, a certificarne continuamente il disagio e le sofferenze come titolo legittimo per reclamare diritti o almeno assistenza. Le indagini sul campo presentate da Fassin illustrano con straordinaria concretezza l’affermarsi di questa nuova biolegittimità e delle nuove disuguaglianze, delle nuove gerarchie che attraverso questa nuova “cittadinanza biologica” si producono.
La biolegittimità è, per esempio, l’anima profonda della ragione umanitaria (tema cui Fassin ha dedicato uno dei suoi libri più noti) che si è imposta nelle politiche migratorie. Quanto più il senso politico del diritto d’asilo viene neutralizzato dalle politiche securitarie, tanto più avanza la logica umanitaria: non a caso, il sistema dei permessi di soggiorno temporanei per l’accesso a cure mediche indispensabili viene a sostituire progressivamente la possibilità, sempre più ardua, di ottenere asilo politico. La procedura amministrativa costringe ad un’esposizione sempre più individualizzata della propria storia: investe la soggettività, richiedendo il supplemento d’anima di una narrazione il più possibile patetica e persuasiva; allo stesso tempo, obbliga all’oggettività del documento, all’esibizione continua di certificati. Sul versante della precarietà economica ed esistenziale, le cose non vanno diversamente: la piega compassionevole e caritatevole assunta da sistemi di welfare sempre più condizionati costringe a raccontare e a documentare la propria difficoltà estrema, per riuscire a sfruttare le residue elargizioni di un’amministrazione sempre più discrezionale, che mescola continuamente giustizia e pietà nelle proprie griglie di valutazione.
Nel gioco continuo di “costruzione di sé e di sottomissione allo Stato”, nel “doppio processo di soggettivazione e assoggettamento”, la vita diventa così il terreno sul quale si gioca la legittimità morale e politica della propria presenza. Una giovane donna haitiana può raccontare l’uccisione del padre militante politico, il rapimento della madre, lo stupro collettivo che ha subito: ma tutto questo non le varrà, nella strozzatura generale del diritto d’asilo, quanto la decisiva certificazione della propria sieropositività. I corpi sono così afferrati in un gioco di violenza politica esplicita, in cui lo Stato costringe ad esibirsi continuamente come vittima, e di violenza strutturale implicita, attraverso “l’incorporazione di un passato e di un presente violenti”.
Una tragica lettura
La politica della vita, letta in questo senso, segna evidentemente un ulteriore avanzamento della forza dei processi di precarizzazione, insieme morale e politica, delle esistenze, sottomesse continuamente all’obbligo di esporre la propria estrema fragilità per mostrare la propria legittimità. E finché l’analisi si incentra sui giochi di potere incentrati sul corpo, una visione ultradisciplinare della biopolitica non può che prevalere. Del resto, lo stesso Fassin non lo nasconde: la sua lettura della biopolitica resta una lettura segnata dal tragico. Ma i testi di Fassin offrono chiavi di lettura che vanno oltre un’analisi dell’intensificazione biopolitica delle forme dell’assoggettamento.
Per comprendere la politica della vita e le contraddizioni di fondo della ragione umanitaria e compassionevole, è fondamentale l’uso, ricorda Fassin, del concetto di economia morale: quel tessuto di norme ed obblighi, di valori e di affetti, che definisce ciò che si può tollerare e ciò che intollerabile, ciò che si può fare e ciò che non si può fare, e che è indispensabile per cogliere lo spessore etico, irriducibile alle spiegazioni meccanicistiche ed economicistiche, della storia di classe. L’attenzione alle economie morali nasce appunto dentro la storia sociale delle rivolte contadine prima e operaie poi: Edward Palmer Thompson, lo storico sociale che esplicitò questa idea, la utilizzava proprio per valorizzare, all’interno della formazione della classe operaia inglese, un mondo di passioni e di usi, di simboli e linguaggi, che nessuna lettura deterministica sarebbe stata in grado di cogliere.
Esistenze coatte
In questo senso, l’attenzione alle economie morali può rompere la maledetta circolarità del “doppio processo” di assoggettamento e di soggettivazione, e permetterci di scoprire, anche nelle zone della dei subalterni e dei marginali, le mille strategie della produzione di soggettività. E proprio in queste strategie, precarie ma costanti, spesso di sottrazione e di sussistenza, ma anche di rifiuto e di rivolta, le politiche della vita incontrano continuamente la possibilità di una rottura.
Così, anche la ragione umanitaria si mostra continuamente attraversata da storie collettive che la modificano continuamente; resistenze che possono forzarla dall’interno e trasformarla radicalmente, ricalandola nel fuoco dei conflitti poltici, proprio facendo leva su quel sentimento dell’intollerabile che lo stesso umanitarismo mobilita continuamente. Proprio perché la vita non è mai nuda, ma sempre storicamente qualificata, i campi dell’umanitario, del welfare caritatevole, della produzione di marginalità, sono più che mai campi decisivi di intervento politico: l’affermarsi sempre più intenso delle politiche della vita, in fondo, significa anche una sempre possibile intensificazione, direttamente politica, delle microstrategie di sussistenza e di resistenza che attraversano continuamente i luoghi dell’assistenza e del servizio sociale.
L’umanitarismo può gestire le vite, gerarchizzarle e precarizzarle nei modi più penetranti, ma lo studio delle “economie morali” ci ha sempre messo davanti momenti decisivi in cui il sentimento etico dell’intollerabile si fa motore di resistenza politica, di soggettivazione, e le strategie di sopravvivenza e di sottrazione agli obblighi e ai condizionamenti si rivelano, al fondo, forme della lotta di classe e della possibilità di “ripoliticizzare il mondo”.
Questo articolo è stato pubblicato sul manifesto il 21 novembre 2014