Di MARCO BASCETTA.

Le catastrofi non trasformano i falchi in colombe, né i lupi in agnelli. Salvo rare conversioni annoverate tra le parabole edificanti. La pandemia che ci sta travolgendo non fa eccezione a questa regola. E l’Unione europea la mette in luce nella maniera più vivida. Come nel Condominio di Ballard gli inquilini dei piani alti non si lasciano commuovere dal destino di chi vive nei “bassi”. Poiché non è la fine del mondo (come tutti sperano) non ci sarà remissione dei debiti, né dei peccati.

La crisi che ha bloccato, devastato, disconnesso l’economia reale distrugge vite, beni, valori d’uso, relazioni e condivisioni. Ma negli attici del condominio europeo la preoccupazione dominante è un’altra. E cioè che una crisi inimmaginabile (e dunque non governata) dell’economia reale minacci il primato, lo strapotere, potremmo dire la sacralità di quella finanziaria. La rendita ragiona sulla certezza delle regole e sulla garanzia di continuità. Ciò che più teme è che una sua interruzione, una deviazione dal corso normale dei dispositivi di accumulazione ne riveli i caratteri parassitari e l’insostenibilità.

Così, nell’alta finanza, nei consigli di amministrazione, così come in categorie retribuite oltre ogni ragionevole misura, assistiamo all’irritante spettacolo di manager e calciatori che si tagliano “temporaneamente” le stratosferiche retribuzioni nella speranza di passare attraverso la cruna dell’ago e tornare rapidamente a guadagnare come prima. Tutta la partita che si gioca nell’Unione europea intorno al Mes, agli Eurobond e ad altre misure straordinarie per fronteggiare le conseguenze della pandemia ruota intorno alla strenua difesa della rendita da parte dei grandi e piccoli creditori del nord.

È chiaro che questo fronte senza la forza della Germania avrebbe ben poche possibilità di imporsi. E la Germania si trova nel consueto dilemma di dover conciliare la rendita finanziaria e la posizione ampiamente dominante della sua economia con la vocazione egemonica in Europa che non può certo essere esercitata garrotando un buon numero di partner dell’Unione e seppellendo senza onori l’asse franco-tedesco. Le circostanze rendono tuttavia assai improbabile il mantenimento dell’“equilibrio” fin qui imposto da Berlino. Ossia la continuazione dell’Unione così come si è malamente trascinata negli ultimi anni e una precaria tenuta del rapporto con Parigi.

Inoltre La Repubblica federale deve fare i conti con un problema interno. Di fronte all’imponente intervento pubblico a sostegno delle imprese e all’ingresso diretto dello stato in alcune di queste non si è fatta attendere la levata di scudi da parte di quegli economisti che sorvegliano i confini invalicabili della dottrina liberista. Pretendono infatti che gli interventi dello stato debbano essere esaminati e approvati da una commissione di “esperti” (loro e i loro committenti) che detti tempi, limiti e condizioni del sostegno pubblico.

In caso contrario, affermano, si produrrebbe l’orribile scenario in cui la politica potrebbe sottrarsi al controllo dei poteri economici e spingersi oltre le funzioni ordinatrici del mercato che questi le richiedono. Insomma, da quella parte la conseguenza più temuta della pandemia è che la minaccia generale finisca col riconfigurare i rapporti tra politica ed economia a vantaggio della prima.

Cosicché un’inclinazione politica eccessivamente solidaristica da parte di Berlino in Europa risulterebbe ancora meno digeribile ai guardiani dell’ortodossia e inasprirebbe la frattura interna. Del resto la voce dell’Unione, oltre la retorica, resta flebile e reticente.

Lo si vede una volta di più con la vicenda dell’Ungheria dove Victor Orban ha approfittato dell’emergenza sanitaria per proclamare le sue “leggi fascistissime” e completare la smaccata uscita del paese dallo stato di diritto e dalla democrazia. Avviata del resto da tempo senza incontrare reazioni decise da parte del “mondo libero”. È il primo caso di uso diretto e spregiudicato della crisi epidemica per piegare un sistema politico verso la dittatura “a tempo indeterminato”.

In un contesto di misure straordinarie adottate in tutti i paesi europei la “variante di Orban” ha buone probabilità di passare in cavalleria. E la molle reazione della Commissione lo conferma. Sarà il compimento di quella politica europea che può tollerare al suo interno l’esistenza di dittature più o meno conclamate, ma non il riequilibrio economico tra i suoi membri e la messa in discussione della disciplina economica e della rendita finanziaria che se ne nutre. In questo caso l’emergenza non è riconosciuta come una motivazione sufficiente. Come sappiamo i costi sociali della crisi del 2008 e anni seguenti non comportarono nessun radicale ripensamento.

E se questa volta il danno si annuncia enormemente più grave, le circostanze presenti rendono impossibile quella mobilitazione sociale che reagì a suo tempo al diktat della Troika nelle strade di Atene e non solo. Tuttavia quando la minaccia diretta del contagio sarà attutita o smorzata, lo spazio del disastro si rivelerà ben più vasto e profondo della martoriata Grecia. Ben più difficile da tenere sotto controllo, in Europa e nei singoli stati. E’ allora che lo scontro con i nazionalismi e le soluzioni autoritarie si farà rovente.

Questo articolo è stato pubblicato su il manifesto il 2 aprile 2020.

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