di Matteo Pasquinelli.

La vita fende la materia, elabora e contrae la materia, dando vita alle virtualità contenute nel materiale in direzioni sconosciute. La vita emerge come divenire-concetto, divenire-pensiero o, nel caso della coscienza, come divenire-cervello. — Elisabeth Grosz[1]

Il dibattito filosofico-politico degli ultimi anni, almeno alle latitudini del pensiero francese e italiano, è stato caratterizzato da una oscillazione concettuale che ha focalizzato di volta in volta il lavoro immateriale o il lavoro affettivo, l’economia della conoscenza o l’economia del desiderio, il cognitivo o il biopolitico. Nessuna agenda di ricerca o politica è stata immune a questa oscillazione, talvolta recitando in modo polemico un polo contro l’altro. Dopo un periodo al lavoro sull’economia della conoscenza, per esempio, una maggiore attenzione veniva data al lavoro affettivo (tornando a riscoprire quello che il femminismo aveva già tentato di politicizzare negli anni ’70), mentre le biotecnologie occupavano il palco centrale del dibattito sulle nuove forme di potere. Spesso è capitato di sentire lamentele contro un paradigma cognitivo che si dimenticava della materialità biologica e genetica del corpo, della sua libido, dei suoi affetti, ecc. Da alcuni come Lazzarato la noopolitica fu allora proposta come estensione dello spazio del biopotere per arrivare a coprire anche le nuove forme dell’immaginario collettivo e delle tecnologie della conoscenza.[2] Ma solo recentemente si è cominciato propriamente a capire l’importanza delle neuroscienze nelle ricerche dell’operaismo e del post-strutturalismo.[3]

Nel mio intervento cercherò di fermare questa oscillazione e di ritornare ad un paradigma monistico, in cui questa opposizione tra corpo e mente, tra bios e noos, possa finalmente svanire — come sempre abbiamo visto questa opposizione svanire nelle opere di Spinoza, Merleau-Ponty, Canguilhem, Foucault, Deleuze e Guattari. Cercherò, in particolare, di decostruire la genealogia del concetto di biopolitica scavando nella Lebensphilosophie tedesca, dove ‘il vivente’ non si dà quasi mai separato dalle dimensioni di conoscenza e astrazione. Tenterò di mostrare in particolare come all’origine dell’intuizione foucaultiana di biopotere si trovi la ricerca del neurologo ebreo-tedesco Kurt Goldstein e le sue idee di comportamento astratto e potenza normativa dell’organismo (si veda il primo libro di Foucault del 1954, Maladie mentale et personnalité).[4]

Il paradigma cognitivo verrà così ribaltato: è per comprendere e afferrare le radici del corpo che ricominciamo da una ontologia della mente. E’ al cuore stesso della struttura del bios (e di tutta la materia) che andiamo di ritrovare il noos. Il cognitivo verrà così compreso non come qualcosa che viene semplicemente dopo l’evoluzione della nuda vita (e magari solo ad opprimerla), ma come qualcosa che innerva queste ‘sacre bistecche’ fin dalla loro costituzione (come ci ricorda Elizabeth Grosz nella citazione iniziale). Così infine il cervello si può davvero illustrare come primo modello e terreno del biopotere… e andando più a fondo in questa genealogia… la potenza di astrazione può essere davvero illuminata come nucleo originale di ciò ha ispirato il paradigma del biopotere. Rivelare le radici neurologiche della nozione di biopolitica aiuterà a chiarire le opposizione binarie sopra menzionate e soprattutto a descrivere in modo diverso le cosiddette psicopatologie del capitalismo cognitivo. Si badi: questo non è un ritorno al logocentrismo. No, al contrario, è l’invito ad entrare definitivamente nell’era del neurone (non meno pericolosa di quella dell’atomo).

Il mio contributo si divide in cinque parti: nelle prime tre parti metterò a fuoco il concetto di astrazione in relazione a neurologia, economia politica e ontologia: ovvero le nozioni di comportamento astratto in Goldstein, lavoro astratto in Marx e macchina astratta in Deleuze e Guattari. L’astrazione è qui intesa come capacità del tutto immanente di creare collegamenti tra piani differenti e di annullarli, come capacità di territorializzare e di deterritorializzare, come capacità di proiettare le nostre identità oltre il recinto dell’io, contro l’ambiente che ci circonda e via verso il cosmo infinito. Nel senso di Deleuze e Guattari: astrazione = schizofrenia. La potenza di astrazione è da intendersi anche come la capacità di differenziazione della materia neurale, ovvero come produzione di biforcazioni ulteriori dei flussi di percezione, conoscenza e memoria (come nella differenziazione della percezione già descritta da Merleau-Ponty).[5] Nella quarta parte mostrerò come una recente scoperta della neurologia — i neuroni specchio — abbia implicazioni anche per la filosofia politica e come questi risultati siano discussi da Virno, e come la nozione di astrazione possa a sua volta illuminarli in modo diverso. In conclusione, contro un certo tono fatalista corrente, proporrò di invertire l’approccio al problema delle psicopatologie del capitalismo cognitivo ripartendo dalla neuropedagogia proposta da Thomas Metzinger.

1. Goldstein e il potere di astrazione dell’organismo. 

Vorrei cominciare con un breve profilo per portare l’esempio di un punto nodale della storia del pensiero in cui bios e noos erano ancora legati insieme. Per fare questo voglio tracciare una genealogia eterodossa della nozione di biopotere e in particolare della nozione di normatività biopolitica (genealogia eterodossa, ma a mio parere più precisa, per esempio, di quella difesa da Agamben in Che cos’è un dispositivo?). L’idea di normatività biopolitica è introdotta da Foucault nel suo corso del 1975 Gli Anormali: in questo corso Foucault propone di studiare il potere non più come disciplina del corpo, ma come dispositivo di normalizzazione, come invenzione di nuove norme sociali.[6] La normalizzazione della società francese di cui Foucault vuole occuparsi prendendo spunto da Canguilhem è l’atto creativo di un potere che inventa e plasma nuove norme nei settori dell’industria, della pubblica amministrazione, dell’istruzione e della sanità pubblica. La Norma e il Normale sono state le parole chiave di questo consolidamento istituzionale: è esattamente in quegli anni, per esempio, che l’École Normale viene istituita. Anche la prima definizione di dispositivo biopolitico (data da Foucault proprio in questo corso) si riferisce a questa genealogia: Foucault descrive questa nuova forma di potere come un “dispositivo di normalizzazione”. L’idea di normatività biopolitica di Foucault fu più precisamente ispirata dall’idea di normatività socio-biologica discussa dal suo maestro Canguilhem ne Il Normale e il Patologico: opera sulle definizione di salute e malattia nella storia della medicina e delle scienze della vita.[7] Il fatto curioso è che tutta la ricerca di Canguilhem sulla normatività si ispira all’idea di normatività biologica del neurologo del primo novecento Kurt Goldstein.

Goldstein è forse oggi dimenticato, ma non è una stato una figura esoterica nella storia del pensiero. Cugino di Ernst Cassirer, era a capo del reparto di neurologia presso l’ospedale di Berlino Moabit, quando fu arrestato dalla Gestapo ed espulso dalla Germania. Il suo libro più importante Der Aufbau des Organismus (La struttura dell’organismo) fu dettato in esilio ad Amsterdam nel 1934 in sole cinque settimane appena prima di salpare per New York.[8] Il lavoro di Goldstein è stato una delle ispirazioni fondamentali per Merleau-Ponty, che lo cita un centinaio di volte già ne La struttura del comportamento (1942, pure nel titolo) e in Fenomenologia della percezione (1945). Foucault stesso apre il suo primo libro Maladie mentale et personnalité (1954), con una puntuale critica alle definizioni di Goldstein di malattia mentale e medicina organica (criticando in particolare le nozioni di astrazione, anormalità, ambiente). In una bizzarra coincidenza, l’ultimo testo pubblico e autorizzato da Foucault è la nuova versione dell’introduzione all’edizione inglese de Il Normale e il Patologico di Canguilhem, in cui Foucault ancora sulla traccia di Goldstein afferma: “La vita è ciò che è capace di errore”.[9]

In Goldstein la potenza normativa è la capacità di ogni organismo (e specificamente del cervello umano) di inventare e modificare le proprie norme, gli abiti interni ed esterni, le regole e i comportamenti, per meglio adattarsi all’ambiente circostante, in particolare nei casi di malattia ed eventi traumatici, in quelle condizioni che mettono in pericolo l’unità dell’organismo. L’originalità di Goldstein è concepire la malattia e tutto ciò che è considerato socialmente ‘psicopatologico’ e ‘anormale’ come manifestazioni di un processo normativo positivo. Così, davvero ‘malato’ è l’organismo che non mostra capacità di invenzione e sperimentazione di nuove norme: l’organismo, paradossalmente, che non è in grado di fare errori. In Goldstein le psicopatologie rivelano il potere normativo dell’organismo, ma questo potere positivo è riconosciuto da Goldstein, con chiari echi spinoziani, nella capacità di astrazione del cervello. Le psicopatologie sono solo il tentativo del nostro corpo di inventare nuove norme, di reagire alle sollecitazioni dell’ambiente, di proteggere il nostro corpo spingendosi al di là dei propri limiti, oltre le abitudini consolidate. La potenza di astrazione in Goldstein è una viscerale estensione dell’organismo, così come lo sono le sue psicopatologie.

2. Marx e il potere di astrazione del capitalismo. 

Come collegare questa definizione di astrazione che troviamo nelle neuroscienze con le nozioni di astrazione e lavoro cognitivo che troviamo nella teoria del capitalismo cognitivo? Si potrebbe citare Marx quando scriveva in modo un po’ teleologico ma decisamente anti-naturalista che è l’anatomia dell’uomo a contenere la chiave dell’anatomia della scimmia, e non viceversa… Di sicuro non è questa la sede per ripetere le analisi ampiamente conosciute sul general intellect, sulla conoscenza e il linguaggio come forze produttive. Cambiando punto di osservazione e scala dimensionale, vorrei semplicemente suggerire di guardare all’astrazione sia come movimento generale del capitalismo che come movimento generale della resistenza ad esso. Riguardo al potere di astrazione in Marx, Hardt e Negri scrivono in un passaggio molto chiaro di Commonwealth:

L’astrazione è essenziale sia al il funzionamento del capitale sia alla critica di esso. Il punto di partenza di Marx ne Il Capitale, infatti, è la sua analisi del lavoro astratto come il fondamento determinante del valore di scambio delle merci. Il lavoro nella società capitalistica, spiega Marx, deve essere astratto dai lavori concreti del sarto, dell’idraulico, del macchinista per poter essere considerato come lavoro in generale, senza riguardo alla sua specifica applicazione. Questo lavoro astratto, una volta condensato nelle merci è la sostanza comune che tutte esse condividono, che consente ai loro valori di essere universalmente commensurabili, e che in definitiva permette al denaro di funzionare come equivalente generale. […] L’astrazione, tuttavia, è vista da Marx con ambivalenza. Sì, il lavoro astratto e il sistema di scambio sono meccanismi per l’estrazione di plusvalore e per mantenere il controllo capitalista, ma il concetto di lavoro astratto […] è ciò che rende possibile pensare la classe operaia. Senza lavoro astratto non c’è classe operaia! [10]

Questo divenire astratto del capitalismo è un processo invero tutto materiale: vorrei fornire un altro esempio per spiegare perché il capitalismo cognitivo non è un semplice dominio della conoscenza, ma come Vercellone spiega una nuova divisione del lavoro, biforcazione ulteriore dei flussi di energia e informazione, lavoro vivo e sapere vivo. La storia del capitalismo è letta ad esempio da Vercellone lungo tre fasi: sussunzione formale (capitalismo manifatturiero), sussunzione reale (capitalismo industriale), general intellect (capitalismo cognitivo).[11] La produzione capitalistica appare così seguire movimenti di deterritorializzazione e riterritorializzazione: la rivoluzione industriale riterritorializza la divisione del lavoro nella produzione all’interno della fabbrica, mentre il capitalismo cognitivo deterritorializza ancora una volta la divisione del lavoro nell’intera società. La catena logica descritta da Vercellone tra antagonismo, divisione del lavoro, macchine e general intellect descrive una sorta di macchina generale astratta. La divisione del lavoro è proprio questo processo di astrazione. Quello che vorrei suggerire qui, en passant, è che il potere di astrazione non è qualcosa che appartiene solo al capitalismo, come una sorta di entità malvagia al di sopra di noi, ma al contrario dovrebbe essere concepito come facoltà che appartiene a tutti noi. Non c’è alcuno stato di natura pre-astrazione a cui ritornare. Come Goldstein e parte del pensiero tedesco hanno mostrato, se qualcosa come ‘la natura’ esiste, non si tratta altro che di una tensione verso l’astratto. In modo molto simile, Hardt e Negri sottolineano che senza astrazione non si ha classe operaia e che senza astrazione non si produce comune.

3. L’ontologia dell’astrazione in Deleuze e Guattari.

Il problema dell’astrazione è centrale anche per Deleuze e Guattari, nonostante l’enfasi data negli ultimi anni al lato ‘desiderante’ della loro ontologia. Nel loro sforzo di delineare una nuova logica materialista Deleuze e Guattari hanno assorbito e trasformato i problemi della metafisica tradizionale all’interno del concetto di macchina astratta. Come noto il termine ‘macchina’ serve ad indicare qui un processo perfettamente immanente di astrazione, ovvero il collegamento e accoppiamento di piani ontologicamente differenti, anche radicalmente e lontanamente differenti. La macchina astratta è nella loro ontologia un concetto universale, appunto introdotto per attraversare e risolvere ‘mille piani’ di problemi. Scrivono Deleuze e Guattari:

Il piano di consistenza della Natura è come un’immensa macchina astratta, tuttavia reale e individuale, i cui pezzi sono i concatenamenti o gli individui, ciascuno dei quali raggruppa un’infinità di particelle sotto un’infinità di rapporti più o meno composti.[12]

La macchina astratta introduce una rottura definitiva all’interno della tradizione olistica dell’astrazione come ereditata dall’idealismo tedesco. La nozione di macchina astratta può essere utile oggi per spiegare il concetto di astrazione sia nel paradigma del capitalismo cognitivo che nel paradigma della biopolitica. La macchina astratta indica la potenza produttiva dell’astrazione non come qualcosa di banalmente ‘immateriale’, ma come invenzione in grado di as-trarre dai propri substrati. In questo si riconosce anche la natura del pensiero: la capacità di produrre nuovi concatenamenti, e poi la possibilità di negare i concatenamenti prodotti, di reciderli, o di ripeterli all’infinito.

La macchina astratta di per sé è destratificata, de territorializzata; non ha forma propria (molto meno sostanza) e non fa alcuna distinzione in sé tra contenuto ed espressione, anche se fuori di sé presiede tale distinzione e la distribuisce in strati, domini e territori. Una macchina astratta in sé non è fisica né corporea, non più di quanto sia semiotica; è diagrammatica (non conosce neppure la distinzione tra l’artificiale e il naturale).[13]

La nozione di macchina astratta in Deleuze e Guattari può tornare utile quindi per mediare tra economia politica e scienze cognitive: intendendo però la macchina astratta come la capacità di sfuggire ai limiti imposti dal cervello e dall’organismo, come espansione verso una memoria esterna che va a comprendere tutto il cosmo come estensione della mente.

È noto come la filosofia di Deleuze e Guattari sia ancora spesso recepita come una banale celebrazione di flussi infiniti di desiderio: si tratta chiaramente di un elemento cruciale — l’infinita sostanza universale — ma senza macchine astratte nella loro ontologia non si da costruzione di alcun sistema né tantomeno azione innovativa. Il rapporto tra organismo e astrazione, l’organico e l’astratto, attraversa anche la questione estetica e ed è ancora una volta un testo del dibattito tedesco ad essere al centro della loro attenzione. Si veda in questo caso il loro commento al libro di Worringer Astrazione e Empatia, dove l’arte primitiva, la prima arte del genere umano, l’arte che dovrebbe essere più vicina ad un supposto stato di natura, nasce appunto come linea astratta.[14]

4. La corteccia ‘socialista’ e i neuroni specchio

Questa panoramica non registra una mera risonanza concettuale tra autori diversi. Esiste una genealogia più profonda comune alle scienze cognitive e alla filosofia politica che qui non si ha lo spazio di esporre. Charles Wolfe ha scritto a proposito un importante saggio dedicato all’affascinante storia della cosiddetta ‘corteccia socialista’, ovvero l’idea di mente collettiva e di cervello collettivo lungo quella tradizione che va da Spinoza a Marx fino a Vygotski all’inizio del ventesimo secolo e arriva fino a Negri e Virno ai giorni nostri.[15] Qui vorrei solo citare un altro esempio di questo incontro tra scienze cognitive e filosofia politica, ovvero il modo in cui Virno ha commentato la ricerca sui neuroni specchio.

I neuroni specchio sono stati scoperti negli anni ‘90 da un team composto da Giacomo Rizzolatti, Vittorio Gallese ed altri ricercatori dell’università di Parma. L’esperimento consisteva nell’impiantare elettrodi nella corteccia premotoria ventrale del cervello di alcune scimmie (area F5) e iniziare a registrare le attività dei neuroni di quella determinata area mentre queste scimmie erano impegnate in azioni ben specifiche. Il team di ricercatori scoprì che un particolare circuito di neuroni, attivati durante l’esecuzione di azioni manuali finalizzate, come ad esempio afferrare una banana o manipolare oggetti, si attivava anche quando la scimmia osservava le stesse azioni manuali eseguite da un altro individuo. Questi neuroni, ovvero, si attivano allo stesso modo sia eseguendo un’azione sia vedendo la stessa azione eseguita da un’altra scimmia (o essere umano). Altri studi hanno in seguito dimostrato l’attività dei neuroni specchio anche negli uomini. L’importanza di questa scoperta è ancora tutta da esplorare: non a torto Ramachandran ha affermato che i neuroni specchio stanno alla psicologia come la scoperta del DNA alla biologia.

In un saggio del 2004 Virno commenta l’applicazione di Gallese della scoperta dei neuroni specchio alla comprensione del comportamento sociale e dell’empatia umana.[16] Virno assume la descrizione di Gallese dei neuroni specchio come prova di una base naturalistica comune a tutta la natura umana, come prova di una sfera di inter-soggettività pre-individuale che si suppone venga prima della costituzione di ogni linguaggio e dell’identità culturale degli animali umani.[17] In questa prospettiva si descrive un’empatia comune agli individui della stessa specie prima dello sviluppo della facoltà linguistica. Semplificando si potrebbe dire che per Virno l’empatia a base neurologica identificata nei neuroni specchio viene prima della capacità di pensiero e astrazione. I neuroni specchio sono utili a Virno per delineare una teoria dell’azione politica basata sull’intersoggettività collettiva che viene attraversata e tagliata solo successivamente dall’ambivalenza del linguaggio e dalla violenza della negazione logica (l’esempio che porta Virno è quello di capire come il nazista possa dire all’ebreo, allo zingaro, al comunista: “tu non sei un essere umano”). Virno pone quindi il comune come una struttura già data nella natura umana, in maniera quasi da voler dimostrare neurologicamente la nozione di pre-individuale studiata con Simondon. Ma, come Gallese ricorda, siamo ancora in un territorio speculativo: potrebbe capitare che si scoprano neuroni che si attivano in modi e contesti completamente diversi, quindi forse meglio non ‘naturalizzare’ troppo in fretta ipotesi politiche intorno a dati di laboratorio. In effetti i risultati stessi degli esperimenti sui neuroni specchio possono essere spiegati in modo totalmente diverso.

Primatologi e antropologi concordano sul fatto che i neuroni specchio sono il risultato dell’evoluzione: non molti animali sono capaci di imitazione allo stesso grado delle scimmie antropomorfe. I neuroni specchio sono una facoltà che il nostro organismo di animale umano ha  sviluppato gradualmente. Ma in che modo? Per molto tempo, di sicuro, le scimmie antropomorfe avevano neuroni che si attivavano in modo indipendente o sonnacchioso quando un’azione era eseguita e quando la stessa azione veniva vista eseguire da un’altra scimmia (si pensi a quelle scimmie che impiegano anni ad imitare ed imparare a ripetere un’azione scoperta da un membro del loro stesso gruppo). Poi un giorno, un collegamento diretto, un concatenamento di neuroni venne con più certezza e fermezza stabilito. Attraverso i neuroni specchio un bel giorno riuscimmo a collegare due circuiti neurologici molto diversi l’uno dall’altro. Ma in questo modo l’empatia tra esseri umani, per esempio, deve essere descritta come il risultato della potenza di astrazione del mio organismo che è in grado di associare a qualcun altro ciò che in precedenza era possibile considerare e ‘sentire’ solo come mio. Se Virno riscontra un comune pre-individuale, qui l’evoluzione sembra suggerire un comune post-individuale, tensione e proiezione della nostra potenza di astrazione. L’animale umano è ben malvagio ma anche l’unico animale ad aver inventato il Welfare State. In questa rilettura del saggio di Virno, per farla breve, sostengo il potere di astrazione come unica via al comune, e non viceversa, ovvero il comune come base della nostra capacità di agire e pensare. Il comune, anche nella neurologia in cui Virno ha cercato basi materialistiche, appare sempre come invenzione, come una proiezione e concatenazione del conatus, è mai come qualcosa di già dato. Questa cruciale ambivalenza ci aiuta a leggere anche le cosiddette psicopatologie del capitalismo cognitivo.

5. Neuropedagogia vs. Psicopatologia. 

Se propongo qui la nozione di astrazione in un nuovo dialogo tra neuroscienze e filosofia politica è per tentare di invertire una percezione diffusa delle psicopatologie e per inquadrarle dal punto di vista della potenza di astrazione, e non più dal punto di vista di un soggetto nudo, ovvero dal punto di vista di una mera retorica dell’alienazione. Il capitalismo cognitivo dovrebbe forse essere definito come sfruttamento della nostra potenza di astrazione, intesa come potenza cognitiva del nostro organismo, forza viva che inventa quotidianamente nuove norme e pratiche, forza viva che ci serve quotidianamente per proiettare la nostra misera identità oltre noi stessi, forza viva che è capace di costruire empatia e comune, e che ovviamente è in grado di manipolare merci, strumenti, macchine e informazioni. Sviluppiamo le tipiche psicopatologie del capitalismo cognitivo (disturbi dell’attenzione, crisi nervose, panico, paranoia, egomania, rivalità, razzismo) quando perdiamo il nostro potere di astrazione, ovvero il potere di reinventare continuamente e gioiosamente il nostro bios, e non al contrario quando “usiamo troppo il cervello a discapito del corpo” come vorrebbe una vulgata comune.

In Goldstein il fallimento della potenza di astrazione è ciò che produce un comportamento catastrofico, ovvero un collasso nervoso molto simile a quello che Bifo e Marazzi usano per descrivere la reazioni di panico al bombardamento mediatico del semio-capitalismo. Ma in Goldstein, quasi come nei romanzi di Ballard, le psicopatologie sono sempre un sintomo ‘positivo’, sono sempre un indice di una forza positiva dell’organismo nel suo continuo antagonismo con l’ambiente. Quindi la vera questione è come difendere o espandere la potenza di astrazione della nostra mente, e non pensare che il nostro corpo soffra perché dimenticato nei suo affetti, come quando affermiamo con Bifo che la malattia sociale corrente è quella di “un general intellect alla ricerca del proprio corpo”. Lo stesso concetto di “psicopatologie del capitalismo cognitivo” rischia di diventare l’alibi con il quale aiutiamo il capitale ad espropriare l’unità mente/corpo, l’alibi con il quale abdichiamo alla colonizzazione della nostra mente da parte dei mezzi di produzione, finendo per preoccuparci come novelli schiavi solo della muscolatura del nostro corpo, del nostro appetito, della nostra libido, ecc. Come schiavi appunto, perché lasciamo l’attività di astrazione al capitale e andiamo a preoccuparci dei bisogni primari secondo un perfetto schema disciplinare. La libertà del corpo, come persino la più piccola e infinitesimale forma di percezione, non esiste senza una potenza di astrazione e differenziazione (come ben descritto da Merleau-Ponty).

Quindi la riposta alle psicopatologie del capitalismo cognitivo non sta nel rivendicare più corpo, più affetto, più libido, più desiderio e così via, ma più astrazione, più potenza di organizzare, differenziare, biforcare, percepire in dettaglio, percepire in dettaglio infinitesimo i nostri stessi sentimenti. Contro questo avvitamento fatalista e vittimista sulla questione delle neuropatologie preferisco mostrare un esempio di segno contrario, ovvero il modello di neuropedagogia proposta recentemente da Thomas Metzinger. Il suo libro Ego Tunnel spiega in modo molto chiaro come le scoperte della neuroscienza vadano a comprovare e modificare nuove ed antiche intuizioni sulla dissoluzione dell’io. L’io non è altro che l’effetto di una sovrapposizione e stratificazione di campi diversi di percezione e pensiero: Metzinger mostra come possiamo diventare coscienti e interrompere tale stratificazione multipla delle nostre percezioni con semplici esperimenti neurologici, sedute di meditazione o uso di sostanze nootropiche. Allo stesso modo ovviamente anche l’ipertrofia del panorama mediatico contemporaneo produce mutazioni della struttura dell’io. Leggiamo come Metzinger inquadra le psicopatologie contemporanee:

Internet è già diventato parte del nostro modello-del-Sé. Lo usiamo come memoria esterna, come protesi cognitiva e per l’autoregolazione emotiva. […] Chiaramente, l’integrazione di centinaia di milioni di cervelli umani […] in nuovi ambienti mediali ha già iniziato a modificare la struttura stessa dell’esperienza cosciente. […] Oggi, le industrie della pubblicità e dell’intrattenimento stanno attaccando i veri fondamenti della nostra capacità di esperienza, trascinandoci dentro una vasta e confusa giungla mediatica. Possiamo notarne i prevedibili risultati nell’epidemia di Attention Deficit Disorder nei bambini e nei giovani, nelle crisi nervose di mezza età, nell’aumento dei livelli di ansia in gran parte della popolazione. […] I nuovi ambienti mediali sembrano creare una nuova forma di veglia cosciente che assomiglia a stati soggettivi indeboliti – un misto di sogno, demenza, intossicazione e infantilizzazione.

Che cos’è allora la neuropedagogia che Metzinger propone?

La mia proposta per contrastare questo attacco alle nostre riserve di attenzione è l’introduzione di classi di meditazione nelle nostre scuole superiori. I giovani dovrebbero diventare consapevoli della natura limitata della loro capacità di attenzione e dovrebbero imparare le tecniche per migliorare la loro consapevolezza e massimizzare la loro capacità di mantenerla – tecniche che saranno di aiuto nella lotta contro i ladri commerciali della nostra attenzione […]. Queste lezioni di meditazione dovrebbero naturalmente essere prive di qualsiasi sfumatura religiosa – niente candele, niente incenso, né campane. Potrebbero far parte delle ore di ginnastica; il cervello pure è una parte del corpo, una parte che può essere allenata e che deve essere seguita con attenzione con cura.[18]

Metzinger riserva lo stesso approccio alla dimensione chimica della neuropedagogia: una parte importante della riflessione sulle psicopatologie del capitalismo cognitivo che non possiamo qui sviluppare. In particolare Metzinger discute l’uso popolare e ricreativo di sostanze come 2CB, mescalina, 2CT7, ketamina, Ritalin e MDMA alludendo ironicamente al concetto (in realtà serissimo) di ‘psicofarmacologia cosmetica’.

Queste note molto rapide sulla neuropedagogia dovrebbero essere espanse e ulteriormente commentate. Qui possiamo solo alludere alla neuropedagogia come esempio di una reazione militante del lavoro vivo alle psicopatologie del capitalismo cognitivo. Di Metzinger dovremmo apprezzare la mancanza di fatalismo e vittimismo: si tratta ancora una volta di reclamare, difendere ed espandere quella potenza di astrazione che è stata colonizzata ed espropriato dal capitalismo. Nel programma politico di Deleuze e Guattari questo si potrebbe tradurre con l’idea di essere più schizofrenici del capitalismo, di pensare concatenamenti rivoluzionari dove ancora non sono ancora stati pensati, di immaginare nuovi corpi e incarnare nuovi generi anche con l’aiuto delle molecole della psicofarmacologia. Alla fine si tratta di essere più cognitivi del capitalismo cognitivo, non meno.

Testo presentato alla conferenza ‘Psychopathologies of Cognitive Capitalism’, Berlino 7-9 marzo 2013. Il testo originale è qui.

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