di COLLETTIVO CRITICO*. A lungo, in Europa, il termine populismo è rimasto estraneo al discorso pubblico, e «populista» è stato percepito per lo più come uno stigma degradante: per questo, salvo circoscritte eccezioni (e non di sinistra), raramente gli attori hanno avuto il coraggio di definirsi esplicitamente così. Oggi però assistiamo a un tumultuoso cambiamento; lo stigma persiste ma al contempo si moltiplicano i segni espliciti di una sua rivendicazione del tutto disinibita (anche a sinistra): in questo modo, si produce un’inflazione del termine che ne confonde ancora la denotazione ma al contempo ne decreta la diffusione e il successo come chiave interpretativa.

L’elezione di Donald Trump, lo scorso 9 novembre, si inserisce in questo processo e insieme lo accelera. Percepiamo bene l’impatto degli eventi americani sui prossimi appuntamenti elettorali europei, in Francia, in Germania, in Olanda, e il rischio di uno drastico spostamento a destra dei governi di questi paesi. Ma il 9 novembre incide più in generale sul dibattito pubblico: e precisamente sulla tendenza sempre più chiara a configurare il campo politico come diviso tra ‘populisti’ e ‘antipopulisti’. Vedremo se e come questa tendenza si rafforzerà. In ogni caso è del tutto evidente l’urgenza di fare chiarezza su ciò che oggi ‘populismo’ può significare.

Va detto innanzitutto, infatti, che l’esplicitarsi del discorso populista (o l’accresciuta disponibilità a una denominazione di questo tipo) non scioglie per nulla il carattere primario del termine, ossia la sua costitutiva indeterminazione e l’estrema eterogeneità dei suoi referenti. Non c’è dubbio cioè che attorno a “populismo/populista” continui ad addensarsi una retorica che confonde posizioni politiche diverse riducendo le loro specificità a un presunto denominatore comune.

Perché allora il termine populismo/populista gode di tanta fortuna nel dibattito pubblico? Quali fenomeni si nascondono sotto questa pervasività? Oggi prevalgono tre significati diversi del termine «populismo». C’è un populismo teorico che dice: «la politica è populista»; un populismo militante (di coloro che si autodefiniscono populisti) che proclama: «un’opposizione efficace all’ordine neoliberale non può che essere populista»; un populismo denigratorio (di coloro che si autodefiniscono anti-populisti) che afferma: «ogni forma di critica dell’ordine neoliberale è populista».

Ora, è impossibile individuare un uso coerente del termine e sono da rigettare le ipotesi teoriche che assegnano al populismo un carattere definitorio della politica contemporanea in generale (specie di quella di sinistra). Rigetteremo inoltre l’uso prescrittivo del termine, come fa chi lo rivendica esplicitamente. E rifiuteremo infine l’atteggiamento di chi accomuna sotto l’insegna populista ogni istanza critica dell’ordine economico e politico vigente. Cercheremo invece di scomporre la nozione individuando alcuni tratti le vengono attribuiti in maniera spesso confusa e strumentale tentando di verificarne l’utilità analitica.

E’ evidente che il discorso populista presupponga la scomposizione della formazione sociale per classi così come essa si è configurata tra Otto e Novecento. Detto in breve, si tratta dell’indebolimento della capacità politica dei lavoratori, del drastico ridimensionamento delle tutele collettive assicurate dallo stato sociale, dell’impoverimento di una «classe media» che si era decisamente allargata verso i margini inferiori della società negli anni di massima espansione del sistema di protezione pubblico. Queste dinamiche generano nuovi sentimenti collettivi: il diffuso senso di insicurezza degli individui e la loro percezione di inadeguatezza rispetto alle richieste sempre più pressanti di performatività e competitività avanzate dallo human resources management neoliberale. Si tratta dunque dell’emergenza di un panorama sociale sempre più atomizzato e disperso, con effetti crescenti di solitudine e isolamento. Date queste trasformazioni profonde, i modi della politica, e le forme della rappresentanza, tipiche del mondo caratterizzato dal compromesso fordista-keynesiano fra capitale e lavoro, a loro volta perdono di efficacia, lasciando via via libero uno spazio nel quale nuovi attori, e nuove retoriche, si trovano invece a loro agio.

Nel discorso pubblico corrente, la categoria di “populismo” allude dunque proprio alla raccolta e all’amplificazione selettiva di domande sociali eterogenee originate dalla crisi del «mondo di ieri». Tali operazioni si presentano sotto varie forme (da qui l’indeterminazione costitutiva del populismo); in comune possiedono alcuni elementi, il più rilevante dei quali è probabilmente la funzione demiurgica del capo, senza il quale la posizione populista non pare potersi consolidare. Tale funzione demiurgica consiste non solo nella selezione delle domande, espresse e inespresse, che salgono dalla società ma anche nella loro articolazione all’interno di un campo obbligatoriamente dicotomico che separa drammaticamente «popolo» e «élites». Questo universo, nella cui costruzione sono essenziali le condizioni create dai mezzi di comunicazione di massa (la televisione in un primo momento e poi soprattutto le reti sociali), viene espresso primariamente dal discorso del leader. Ideologicamente allergica a qualunque verifica critica, la costruzione populista del mondo è intimamente autoritaria, e spesso accoglie una evidente istanza irrazionalistica e anti-intellettualistica. Se, a partire dalla crisi economica del 2007 (non prima), l’insofferenza anti-intellettuale si è rivolta anche contro un certo tipo di razionalità, quella neoliberale, e contro una certa élite intellettuale che se ne è fatta alfiere e garante (indice del fatto che, sia pure in modi confusi, la non-neutralità dei saperi neoliberali è ormai sempre più avvertita), oggi una grande varietà di forze politiche tende a rigettare in blocco ogni tipo di razionalità critica e ogni forma di azione intellettuale. Pour cause: nel loro universo, il popolo-tutto, serbatoio di energie vitali e di istanze democratiche elementari (prive cioè di mediazioni/formalizzazioni intellettuali, ideologiche, istituzionali), è un’istanza inappellabile. È evidente peraltro la paradossale coincidenza di questa immagine indifferenziata e irriflessiva del popolo dei “populisti” con la retorica elitista sul popolo, quella alimentata da una lunga tradizione aristocratica e anti-democratica che va da Aristotele alle scritture della ragion di Stato, dalla fobia tardo-ottocentesca per le masse all’ordoliberismo tedesco e al neoliberismo americano.

Tanto il vocabolario populista quanto la retorica antipopulista quanto ancora i fenomeni che intendiamo toccare sono particolarmente evidenti nella storia recente italiana. L’Italia ha costituito infatti, fin dalla crisi del suo sistema politico, consumatasi tra il 1992 e il 1994, uno straordinario laboratorio populista, forse il più importante in Europa. È allora che prende avvio il lungo “momento populista” che stiamo vivendo. In effetti, tutte o quasi le principali posizioni politiche affermatesi in Italia tra il 1994 e oggi, non importa se di «destra» o di «sinistra», sono caratterizzate proprio dalla relazione tra una dinamica leaderistica e la costruzione di una scena politica dicotomica. In realtà questa storia ha una premessa fondamentale nel periodo a cavallo tra gli anni ’70 e 80, a partire dal consolidamento della leadership di Bettino Craxi nel Partito Socialista Italiano e dalla nascita, in Veneto e Lombardia, del fenomeno della Lega. Poi, agli inizi degli anni ’90, alcuni eventi tra loro connessi spingono verso la rottura: l’inchiesta giudiziaria «Mani pulite» che ingenera una più acuta sensibilità per il fenomeno della corruzione della classe politica, una riforma istituzionale di tipo maggioritario che costringe le forze politiche (e l’opinione pubblica) a polarizzarsi in due fronti contrapposti, e l’improvvisa e imprevista affermazione di Silvio Berlusconi (non a caso molto vicino a Craxi e da subito alleato del leader della Lega, Umberto Bossi). Diventa così irreversibile la formazione di una scena politica nella quale due schieramenti si contendono il governo del paese, apparendo però sempre più debolmente alternativi sul piano delle politiche economiche, fino alla piena omologazione odierna.

Berlusconi inaugura dunque la serie delle posizioni populiste nel segno di una doppia contrapposizione destinata a marcare tutto il tempo successivo: da un lato quella tra vecchio e nuovo, e dall’altra quella tra società civile e politica professionale. La Lega di Bossi, e adesso quella di Salvini, rimane fedele alla contrapposizione dentro/fuori, prima declinata nel senso della distinzione nord/sud, ora in quella, più consueta, fra italiani e stranieri (o immigrati), fra autonomia nazionale e governo europeo. Più recentemente, Renzi ha fondato la sua proposta sulla separazione fra conservatori e innovatori, come pure fra vecchi e giovani (o fra passato e futuro), mentre Grillo su quella fra casta corrotta e cittadini onesti, fra legalità e illegalità (ereditando una posizione rappresentata per alcuni anni dall’«Italia dei valori» di Antonio Di Pietro).

Tutti questi idiomi dicotomici dialogano fra loro, condividendo la logica di costruzione dello spazio politico, ed è facile verificare come essa sia stata definita e resa efficace per primo da Berlusconi, per poi essere introiettata tanto dai suoi eredi quanto dai suoi avversari. Per tutti, un campo «popolare», interno e omogeneo, che i leader populisti si sforzano di rappresentare (nella doppia accezione del termine), si contrappone radicalmente a un campo «esterno». Nell’originaria accezione berlusconiana (e anche leghista), il primo coincide con una società civile di individui intenta a liberarsi della maglia di vincoli e regole costruita nel corso degli anni dalla «politica», ossia dell’edificio istituzionale, dispendioso, dispotico e corrotto, realizzato nel secondo dopoguerra dai partiti dell’«arco costituzionale». Questa rappresentazione è divenuta in breve tempo egemonica costringendo tutti gli attori politici principali a muoversi dentro i suoi confini. In particolare la parabola del Partito Democratico, fin dal suo processo fondativo, si decifra solo se integrata in questo processo, apparendone anzi il risultato più progredito.

La conseguenza maggiore di tale egemonia è stata probabilmente l’espunzione del conflitto dall’interno del campo sociale, che i leader populisti si sforzano di costituire e simbolizzare come pacificato e uniforme. La società civile e nazionale che rompe il monopolio del potere da parte della casta corrotta, assuefatta all’illegalità e in parte anche collusa con le criminalità organizzate, costituisce un fronte unitario impegnato nella sfida decisiva della modernizzazione liberista. Un fronte di cittadini, mai di lavoratori, che non può, per questo, essere né segmentato né altrimenti determinato. Da qui, da questa istanza di unificazione, la rimozione della contraddizione fra capitale e lavoro (qualunque cosa siano oggi concretamente «capitale» e «lavoro»), e l’invisibilità di un accesso sempre più differenziato (per genere, per classi d’età, per luogo di nascita) alle risorse. Da qui, anche, l’espunzione di tutte le rivendicazioni democratiche non compatibili con la logica dicotomica primaria (spesso consistenti in tentativi di sottrazione al mercato di risorse e spazi comuni).

L’unico conflitto possibile è riportato all’«esterno» di un’identità immaginata e artificialmente interclassista. Un «esterno» estremamente variegato: politici professionisti e sindacalisti; professori «parrucconi» e tecnocrati europeisti; stranieri e immigrati; e ancora tutti coloro che per ragioni inconfessabili o per pigrizia difendono il regime della «prima repubblica» e resistono al corso della «modernizzazione».

La rimozione del conflitto sociale mostra in pieno il carattere mistificante del discorso populista; tuttavia è proprio ragionando intorno all’idea dell’antagonismo tra parti sociali che può muovere una riflessione circa il possibile superamento del momento populista. Non si tratta di nutrire nostalgie per le forme tradizionali della politica novecentesca (e per il partito di classe, nello specifico), ma di discriminare con cautela fra le attuali esperienze e proposte politiche, tutte, in diversa gradazione, segnate da tratti di tipo populista, eppure non tutte omologabili quanto ai contenuti.

Se è vero infatti che, per le ragioni sopra ricordate, la forma populista della comunicazione politica è oggi forse quella più efficace, e che dunque il ruolo carismatico del leader, di regola maschio e televisivo, sembra indispensabile, è vero anche che non tutte le posizioni sviluppate dentro questa forma obbediscono al principio di neutralizzazione del conflitto sociale, il che per altro rende ancora più evidente l’indeterminatezza della categoria di populismo. Il caso di Podemos ha mostrato, ad esempio, un processo comunicativo e organizzativo che è possibile definire di tipo populista assieme a contenuti antiliberisti e a una concreta sensibilità verso la mobilitazione dei militanti. In Italia il caso del sindaco di Napoli Luigi De Magistris rappresenta una variante dello stesso tipo di processo politico, sia pure su scala locale: da un lato, il superamento definitivo della forma-partito e la concentrazione piena della rappresentanza in capo al sindaco-leader; dall’altro, e nello stesso tempo, il tentativo di affrontare il disagio sociale e di attivare processi partecipativi diffusi.

I fenomeni di tipo populista, in conclusione, sorgono dalla crisi dei soggetti collettivi novecenteschi, e si alimentano di questo vuoto. L’ordine neoliberale li rafforza, ma nello stesso tempo la concreta fenomenologia dei discorsi populisti può assumere in determinate circostanze contenuti esplicitamente critici di questo stesso ordine. Laddove questo è avvenuto negli ultimi anni, come dimostrano il caso greco e quello spagnolo, la forma populista dell’azione politica ha saputo accogliere cioè istanze contrarie al senso comune neoliberale.

Tuttavia, proprio questa forma, mentre consente la momentanea traduzione pubblica di tali istanze , fa da grave ostacolo alla costruzione di soggettività capaci di pensare un orizzonte diverso da quello definito dall’ordine neoliberale, poiché spinge a cercare l’avversario fuori del «popolo», opacizzando la reale conformazione di quest’ultimo, ipostatizzando la linea di separazione tra popolo e non-popolo, alimentando un immaginario interclassista e repubblicano e rendendo impercettibili i dispositivi dell’accumulazione, dello sfruttamento e della stessa ideologia neoliberale.

*Sulla pagina web di collectif critique la versione francese del documento.

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