di ALBERTO DE NICOLA e BIAGIO QUATTROCCHI.
Riprendiamo qui l’articolo di Alberto de Nicola e Biagio Quattrocchi sulla manovra finanziaria del governo giallo-verde, pubblicato per Dinamo Press.
La manovra del governo sembra aver riportato in Italia la politica di redistribuzione della ricchezza. Eppure, nonostante l’enfasi comunicativa e la radicalizzazione dei suoi contenuti, la legge di Bilancio si pone in continuità con quella stessa logica che ha definito il ciclo neoliberale. Quello che manca è una politica di redistribuzione che modifichi i rapporti di potere nella società.
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Gran parte dei commenti critici sulla manovra si sono concentrati (non senza ragione) sull’assenza di politiche per la crescita, mettendo in luce che il ricorso al deficit di bilancio non è di per sé la garanzia della fine dell’austerità. Non è mancato chi ha messo in luce che questa manovra contiene elementi regressivi sul piano della redistribuzione. Altri invece, si sono maggiormente soffermati sull’incomponibilità di misure apparentemente contrastanti: come la flat-tax e il cosiddetto “reddito di cittadinanza”. Oscillando, a giorni alterni, tra il tifo per il governo e le barricate per il ritorno del fascismo. Forse varrebbe la pena, al contrario, concentrare di più l’attenzione sui nessi tra le diverse misure contenute nella manovra, che è capace di condensare un inasprimento del modello redistributivo ereditato dal neoliberismo.
LA COMMISSIONE, I MERCATI E IL “POTERE DELLE PAROLE”
Dopo la pesante e irrituale bocciatura della Nota di aggiustamento del Def della Commissione europea, il governo ha presentato da circa una settimana alle Camere la bozza di Legge di Bilancio confermando gran parte delle misure annunciate e la volontà di sforare alcuni dei parametri del Patto di Stabilità, come conseguenza del ricorso a un deficit pari al 2,4% del Pil.
Il braccio di ferro tra il governo giallo-verde e le istituzioni europee resta teso. La Commissione attende entro il 13 novembre una risposta da parte del governo ai rilievi contenuti nella lettera recapitata all’Italia, allo stesso tempo sembra non possa escludersi che la minaccia della procedura di infrazione per debito eccessivo si trasformi in un atto concreto, aprendo una nuova fase dello scontro tra i conservatori della dottrina neoliberale dell’austerità e i governi nazionalisti e reazionari.
Dalle colonne del “Financial Times” e da quelle del giornale di Confindustria, in questi ultimi giorni è stato evidenziato come il giudizio politico della Commissione sembra essere più severo di quello dei mercati finanziari. Dopo la fase di instabilità delle scorse settimane, quando i tassi di interesse dei Btp a 10 anni sono cresciuti consistentemente, negli ultimi giorni si assiste a una nuova riduzione degli spread con i bund tedeschi. Anche se il quadro resta assolutamente aperto a molteplici sviluppi, l’insistenza di questi analisti, pur provenendo da istanze e interessi interni alla ragione neoliberale, sembra voler segnalare la possibilità di una maggiore disarticolazione tra il comando politico dell’establishment che ha governato l’UE fino a poc’anzi e il ruolo degli operatori finanziari.
Le critiche alla violazione dei parametri, mosse tanto dalla Commissione quanto dalle altre istituzioni europee, sono state accompagnate da parole di forte preoccupazione per l’instabilità finanziaria, relativamente al giudizio dei mercati sui contenuti della manovra e le scelte del governo italiano. Dal canto nostro abbiamo imparato, almeno a partire dagli anni Novanta, quanto sia stata decisiva la “dimensione linguistica” nella politica monetaria e più in generale nella politica economica. Descrivere uno scenario sui mercati finanziari, dal punto di vista delle istituzioni, significa provare a crearlo, agendo sul potere performativo delle parole, sui cosiddetti speech acts, a cui ad esempio Christian Marazzi talvolta ha fatto riferimento in questi anni. Per cui alludere ad alcuni rischi finanziari dell’Italia legati alla collocazione dei propri titoli sul mercato, significa di fatto creare con il “potere delle parole” le premesse stesse per la speculazione finanziaria.
Alla luce di questo aspetto, l’ipotesi della disarticolazione a cui si è fatto riferimento, diventa un’espressione della crisi di egemonia da parte del vecchio establishment europeo sul “potere delle parole” e il suo riflesso sulle dinamiche finanziarie.
Nella fase attuale la performatività degli speech acts sui mercati finanziari appare piuttosto come un potere conteso tanto dai conservatori quanto dai reazionari. Questa circostanza, oltre a ricordarci che gli operatori finanziari non giudicano solo il contenuto delle politiche economiche ma semmai sfruttano a loro vantaggio la congiuntura economica e politica al fine di massimizzare la rendita, ci dice anche un’altra cosa: che l’«internazionale sovranista» piuttosto che essere un’alternativa al dominio del capitalismo finanziarizzato è semmai l’espressione della volontà di un nuovo comando della finanza.
IL REDDITO A CITTADINANZA LIMITATA
Nel commentare la manovra, i giornali si sono insistentemente concentrati sullo slittamento delle due misure più “pesanti” dal punto di vista del bilancio e più rappresentative dell’accordo gialloverde, il “reddito di cittadinanza” e la riforma delle pensioni (la cosiddetta “quota 100”). Seppure lo slittamento risponde evidentemente a una tattica di natura contabile, il loro differimento nel tempo ha anche un significato propriamente politico: il posticipo della presentazione dei testi di legge con esposti i dettagli delle misure è il segno inconfutabile che l’accordo sul merito di quei provvedimenti è tutt’altro che chiuso tra i colleghi di governo.
In particolare sulla definizione del sussidio di povertà, le dichiarazioni prima di Giorgetti e poi di Siri (Lega) lasciano intendere che tanto la natura quanto il funzionamento della misura simbolo dei Cinque Stelle saranno un campo di battaglia nei prossimi mesi. Eppure, le continue dichiarazioni degli esponenti del Movimento avevano già abbondantemente chiarito che il sussidio sarà pienamente inserito all’interno del frame delle politiche di attivazione della forza lavoro. In realtà così era fin dalla proposta iniziale, ma nonostante questo la volontà di rassicurare a tutti i costi i partner di governo, la stampa e le imprese, di non voler varare una misura assistenzialista, ha trasformato quel vizio originario in una vera e propria perversione. Il risultato di questa dialettica fatta di dichiarazioni e controdichiarazioni, di allarmi e rassicurazioni, mostra i contorni di una proposta di legge che non ha neanche più i lineamenti di un intervento di «protezione sociale».
La condizione all’accettazione delle proposte di lavoro fornite dai Centri per l’Impiego e l’obbligatorietà a prestare lavoro di utilità sociale presso i Comuni definiscono per l’essenziale una proposta che ha come logica implicita quella di ridurre le cause della povertà all’assenza di lavoro e all’incapacità (o alla scarsa volontà) degli individui di procurarselo.
L’estrema complessità che caratterizza le situazioni di deprivazione materiale viene cancellata ponendo le politiche del lavoro come unica opzione di trattamento della condizione dei poveri e i Centro per l’Impiego come unica istituzione chiamata a sanare la situazione di povertà: tanto vale, come insiste il sottosegretario alle infrastrutture Armando Siri (e lo stesso Di Maio ha annunciato di accogliere parzialmente l’idea), convertire direttamente il sussidio in un finanziamento alle imprese.
Questo spostamento sempre più accentuato di una proposta di legge originariamente finalizzata al contrasto di situazioni di difficoltà economica in una politica attiva del lavoro più o meno mascherata, non elimina però completamente le componenti più propriamente di sostegno a favore della povertà reddituale. La sottosegretaria all’Economia Castelli in una recente intervista a Repubblica ha confermato le intenzioni di erogare il sussidio attraverso una specifica card, il cui contenuto è destinato esclusivamente ai beni di prima necessità e senza poter essere cumulato nel tempo. La figura che si staglia in controluce è quella del povero incapace di autoregolamentarsi: con l’ossessione di scongiurare la dipendenza degli individui dal welfare, li si rende dipendenti da un sistema preordinato di scelte delimitate, con la conseguenza (piuttosto odiosa) di identificare negli spazi pubblici gli individui come appartenenti alla categoria dei poveri assistiti, titolari di una cittadinanza limitata e di un consumo prestabilito.
Oltre a essere ben al di sotto di quella che la stessa Castelli definisce “soglia di dignità”, molto poco si è ancora discusso di quanto questo sistema di condizionalità al lavoro, di limitazione delle scelte di consumo e di stigmatizzazione, non trasformi la condizione di coloro che sono “solo” economicamente deprivati in un attributo di minorità.
È in questo scarto, e seguendo questa strada già tracciata dai Cinque Stelle, che le ulteriori pressioni della Lega e delle imprese per accentuare ancora di più gli elementi coercitivi e workfaristici troveranno terreno fertile.
CONTINUITÀ LATENTI
Pur riconoscendo che questo “reddito di cittadinanza” costituisca una forma assai parziale di redistribuzione verso i poveri, in ogni caso non si può leggere questa misura indipendentemente dalla continuità della logica redistributiva che informa complessivamente la manovra. D’altro canto, la rottura dei parametri europei attraverso politiche fiscali espansive, non è di per sé, neppure nelle visioni più volgari, moderate e ingenue del keynesismo, la precondizione sufficiente a modificare i rapporti di potere né tra le classi né tra gli strati sociali che le compongono.
È oramai noto che negli ultimi trenta anni in Italia (come altrove) le diseguaglianze nel reddito disponibile sono esplose (l’indice di Gini è aumentato di 3-4 punti percentuali). L’insieme dei trasferimenti pubblici e le imposte sono riusciti solo parzialmente a modificare la distribuzione primaria del reddito: per effetto della precarietà e della contrazione salariale, ma anche perché, dagli anni Novanta in avanti, la logica redistributiva dello Stato in tutta Europa è profondamente cambiata. Sono gli anni delle terze vie blairiane, dell’estremismo di centro, più in generale dell’abbandono di sistemi di progressività fiscale. L’uguaglianza universale nelle condizioni di partenza da conseguire anche mediante programmi di welfare è stata sostituita progressivamente dalla logica pelosa dell’equità. Indistintamente tutte le coalizioni politiche che si sono susseguite al governo in Italia sono andate alla ricerca dei prelievi e dei trasferimenti “non distorsivi”: perché redistribuire limitatamente sì, ma guai a modificare la trama di potere che sua santità il mercato “spontaneamente” definisce.
Presa per intero questa manovra potrà avere solo complessivamente l’effetto di accentuare con ancora più forza i tratti fondamentali dello Stato-equitativo ereditato dal neoliberismo, ma imprimendogli, questa volta, un carattere assai più autoritario.
La flat-tax, seppure applicata solo alle partite iva, è l’espressione più eloquente del principio secondo cui solo le forze del mercato possono autonomamente distribuire il reddito prodotto. Si avvantaggeranno soprattutto le partite iva affluenti. Non è neppure difficile attendersi che il limitato “effetto ricchezza” che ricadrà sui “working poor autonomi” finirà principalmente per tradursi in un allargamento di questo segmento del mercato, da sempre senza alcun diritto e sistemi di welfare, bilanciando la possibile contrazione dei tempi determinati per effetto del Decreto Dignità, ma lasciando inalterata la condizione di precarietà generale. All’istruzione e alla ricerca arriveranno altri tagli come in generale si conferma il cronico sotto-finanziamento delle istituzioni del Welfare. Aggiungiamo poi che ai capitoli degli investimenti pubblici, oltre alla complessiva scarsità delle risorse tale da rendere risibili le stime di crescita prospettate, e al di là dalla retorica a buon mercato, non è stato riservato nessuno sforzo strategico al “cambiamento tecnologico” in corso.
Per cui anche questa manovra non farà altro che accentuare un modello di sviluppo in cui prevarrà una domanda di lavoro squalificata e a bassi salari, mentre anche la maggiore redistribuzione di quote di reddito verso i ceti meno abbienti sarà orientata dall’intoccabile principio secondo cui spetta sempre e solo all’offerta (cioè alla forza lavoro) modificare le proprie condizioni di occupabilità.
UN’ALTRA REDISTRIBUZIONE
Nel suo celebre saggio La grande trasformazione, Karl Polanyi, prendendo a riferimento le esperienze del suo tempo del New Deal statunitense e quelle del fascismo e del nazismo, aveva affermato che il ritorno di politiche redistributive nel campo dell’economia non necessariamente corrisponde ad un’espansione e a un rafforzamento della democrazia. Perché questo avvenga, la redistribuzione deve puntare a modificare le asimmetrie attraverso cui è distribuita la ricchezza, “socializzare l’economia” aumentando allo stesso tempo il grado di autonomia e di libertà dei soggetti: in altre parole, mutare i rapporti di potere presenti nella società.
Del resto, è attorno a questa differente idea di redistribuzione che si stanno accumulando esperimenti e proposte politiche a livello globale: l’attacco degli esponenti corbyniani nel Labour britannico e della sinistra sandersiana del Partito Democratico statunitense contro la concentrazione della ricchezza da parte dei grandi monopoli privati e le proposte di finanziamento per la riorganizzazione della produzione su basi cooperativistiche; l’accordo sul bilancio tra PSOE e Podemos in Spagna che vede come punti cardini l’innalzamento del salario minimo per i lavoratori e l’aumento della tassa patrimoniale.
Questi sono solo alcuni degli esempi di una crescente attenzione nei confronti di un genere di politiche redistributive che puntano a diminuire le asimmetrie che definiscono i rapporti sociali. Eppure, anche questo non basta: perché una politica redistributiva possa iscriversi dentro una traiettoria radicalmente democratica questa deve porre la questione della direzione della spesa pubblica verso quei settori capaci, non solo di soddisfare i bisogni sociali, ma anche di implementare le forme della cooperazione che si collocano a monte e a valle della produzione: il finanziamento dei servizi collettivi del Welfare (come salute, educazione, ricerca) unito all’istituzione di una reddito incondizionato compongono un quadro capace di incidere, contemporaneamente, sulla qualità della domanda di lavoro (maggiore qualificazione e orientamento in senso ecologico della produzione) e sull’aumento dei gradi di libertà ed autodeterminazione della forza lavoro.
A partire da queste basi, le politiche redistributive potrebbero non solo superare una concezione paternalistica del Welfare verso un ampliamento della stessa idea di cittadinanza sociale, ma alimentare le forme di autorganizzazione mutualistica della società, oltre i confini sempre più ristretti delle leggi ferree del mercato e dell’autoritarismo crescente dello stato.
Mentre la manovra del governo giallo-verde “usa” la redistribuzione per produrre politicamente un assemblaggio di ceti, costruendo un inedito modello di corporativismo, dove gli interessi dei poveri e quelli dei ricchi evasori si compongono irenicamente nell’articolata base del consenso elettorale, un’altra redistribuzione deve essere capace di modificare i rapporti di potere nella società, attribuendo più autonomia ai soggetti e ponendosi allo stesso tempo come condizione per lo sviluppo di nuove lotte.
Questo articolo è stato pubblicato su Dinamo Press il 9 novembre 2018.