di FANT TiBiCino.
I – Protocolli di moda
“Se c’è qualcosa di moda adesso, ci puoi giurare sono i protocolli, anche il migrante con protocollo prendo e la laguna al turista vendo” (paracit.).
1. Con atto del MIUR protocollato al n. 39 del 3.10.16, fra il consiglio nazionale forense e il MIUR è formalizzato un “protocollo” volto alla promozione e alla realizzazione di progetti di Alternanza Scuola Lavoro anche per il tramite degli ordini distrettuali e circondariali, volti ad implementare «la cultura della legalità attraverso percorsi formativi che combinino lo studio teorico d’aula con forme di apprendimento pratico svolte nel contesto professionale forense» [⇒ qui il protocollo, ⇒ qui la réclame del MIUR (p. 2)].
Per la realizzazione di tali progetti le parti individueranno «le direttrici entro le quali si debbano realizzare, nell’ambito della progettazione curriculare, extracurriculare, educativa ed organizzativa, incontri informativi ad hoc sui temi della educazione alla cittadinanza e alla legalità […] tenuto conto delle effettive peculiarità ed esigenze degli istituti scolastici di ogni ordine e grado e avuto riguardo anche alla dislocazione territoriale e ad ulteriori specificità [c.n.]»
Come dire: se sei povero ricorda che (anche) la cultura resta una catena che ti lega al territorio e alla classe cui appartieni, dalla quale non puoi divincolarti salvo strozzarti, perché sei un cane. A proposito, già che sei cane impara da subito ad abbaiare per difendere il padrone, il gregge indistinto che potrebbe scompaginarsi (perché di ribellione non è neanche il caso di parlarne), la tua lingua sarà la “legalità”, favoloso esperanto del comando capitalistico mediato dalla scuola bolognese (di Merola) o fiorentina (di Nardella).
2. Il giorno 15.12.16 vede la luce il “Protocollo d’intesa tra la Corte di cassazione, il Consiglio Nazionale Forense e l’Avvocatura Generale dello Stato sull’applicazione del nuovo rito civile (d.l. n. 168/2016, conv. nella l. n. 197/2016)” [⇒ qui].
Il “nuovo rito civile” innanzi la Suprema Corte, consegna agli operatori del diritto queste novità:
a) «il procedimento ordinario diviene quello camerale, restando riservata, la trattazione in pubblica udienza, ai casi di particolare rilevanza della questione di diritto e a quelli nei quali la sesta sezione, all’esito della camera di consiglio, non abbia definito il giudizio (art. 375, u.c., c.p.c.)»;
b) «il procedimento dinanzi alla sesta sezione è stato riscritto, essenzialmente con l’eliminazione della relazione e la previsione che, su proposta del relatore, il presidente fissi l’adunanza in camera di consiglio “indicando se è stata ravvisata un’ipotesi di inammissibilità, di manifesta infondatezza o di manifesta fondatezza del ricorso” (art. 380-bis, c. 1)»;
c) «è stata eliminata la possibilità di partecipazione delle parti all’adunanza in camera di consiglio, sia nel procedimento dinanzi alla sesta sezione (art. 380-bis), sia nel procedimento dinanzi alla sezione semplice (art. 380-bis. 1), sia nel procedimento per regolamento di giurisdizione (art. 380-ter)».
«Attesa l’immediata applicabilità della novella il Consiglio Nazionale Forense ha allora rappresentato al Primo Presidente della Corte di cassazione l’esigenza di un’attuazione del nuovo art. 380-bis che facesse salve le esigenze di adeguato esercizio del diritto di difesa».
Per amor di carità, segnalo soltanto il primo punto che riguarda il regime transitorio e muove dal rilievo che «l’intimato non controricorrente, che secondo il regime previgente aveva la possibilità di partecipare all’udienza di discussione, si trova, alla luce della novella, privato di tale facoltà nei procedimenti relativi a ricorsi già depositati alla data del 30 ottobre 2016 nei quali venga successivamente fissata l’adunanza camerale.
Onde porre rimedio all’inconveniente, che appariva integrare una rilevante violazione del diritto di difesa, è stato convenuto di consentirgli comunque la presentazione di memoria negli stessi termini nei quali può farlo il controricorrente, prevedendosi che della possibilità di valersi di tale facoltà venga data notizia alle parti destinatarie dell’avviso di fissazione dell’adunanza».
Merita di essere segnalato anche il sesto punto che concerne «la lunghezza delle memorie da depositarsi in vista della trattazione camerale; si è convenuto, anche in sintonia con il protocollo del dicembre del 2015, che esse non superino, di regola, le quindici pagine» [su questa forfetaria insulsaggine vedi meglio sub 3].
Di fronte al trionfante processo “come gioco”, prospettazione astratta di due figure ridicole e deprivate di ogni connotato specifico come “l’attore” e “il convenuto”, l’azione resta diritto costituzionalmente iscritto tra le foto ricordo, un po’ come quella di Leone sopra la testa del commissario Betti. Il ricorso al giudice di legittimità come corsa ad ostacoli, dove la parte è volpe inseguita dai cani del padrone che sparano colpi di inammissibilità, l’irrilevanza della partecipazione del difensore è affermata poiché ostacolo al veloce esaurirsi della controversia, laddove anche la durata del processo è sintomatologia della “giustezza” dello stesso, con Beep Beep eretto a nuova CEDU del povero Wile Coyote, che escluso dalle aule della Pretura dove il diritto (bene o male) si viveva (e si moriva, ma se è per questo si moriva anche in Questura) latita nella stesura di tanto poderosi quanto inutili scritti difensivi (irrisi come meglio di seguito).
3. Il 17.12.16, tra la Corte di Cassazione e il CNF (“organi” evidentemente sovreccitati dal poter disporre della vita dei poveri, uno strano connubio tra Azzeccagarbugli e Mengele) si sottoscriveva un ulteriore “protocollo d’intesa” che faceva della «constatazione dell’esistenze di un sempre maggior numero di ricorsi caratterizzati da un sovraddimensionamento dell’esposizione dei motivi di impugnazione e delle argomentazioni a sopporto e dalla riflessione sull’importanza della sinteticità e chiarezza».
I risultati cui pervengono le toghe riunite sono stupefacenti:
(i) utilizzare fogli A4;
(ii) margine orizzontale sinistro 3,5 cm;
(iii) margine orizzontale destro almeno 2,5 cm;
(iv) margini verticali 2, 5 cm;
(v) carattere preferibilmente Verdana.
Il processo come incubo di un sistema che vede nel traguardo (la conclusione, quale che sia) unica ragione; come la fabbrica (che resta simulacro a giustificazione di una inesistente produttività) l’aula del Tribunale diviene tetro luogo di incontro di pochi togati che discutono “in diritto”, neppure la farsa del contraddittorio regge sotto i colpi della necessità di finire (come ammoniva Malgioglio, l’importante è finire).
Nella terza sessione del recente congresso nazionale di Magistratura Indipendente, tenutosi a Torino il 4.02.17, la problematica del divieto di reformatio in peius nel processo penale è contenuta entro un’alternativa del seguente tenore: è necessario comprendere se la riduzione del contenzioso che l’abolizione del divieto potrebbe determinare debba essere considerata – e in caso positivo in quali termini – un’inaccettabile compressione del diritto di difesa costituzionalmente garantito o una «semplice ed auspicabile rimodulazione dell’ergonomia procedimentale» [riconosco che la parola “ergonomico” ho imparato a conoscerla in una pubblicità della Honda CR 500 del 1989, dove il mezzo era appunto dotato di notevole ergonomicità, oltretutto non so l’inglese e quindi potrei anche avere capito male].
4. È stato sottoscritto l’altro giorno (23.03.2018), presso la sede del Consiglio Nazionale Forense, il protocollo d’intesa tra il Cnf e Amnesty International, che li impegna a «sviluppare una costante collaborazione al fine di concordare iniziative comuni per individuare ed eliminare gli abusi sui diritti umani». Le parti, infatti, «intendono promuovere la cultura della legalità» [ancora: prima o poi dovranno spiegarci se si tratta di rispetto della legge, in quanto tale ovvero principio di giustizia] e, «in sinergia, la realizzazione di progetti d’informazione e formazione, anche a livello locale per tramite degli Ordini distrettuali e circondariali». Il protocollo, ha spiegato il presidente del Cnf Andrea Mascherin, «impegna il Cnf in un ulteriore sforzo di interpretare socialmente il nostro ruolo di avvocati, con compagni di viaggio qualificati, con cui lavorare in sinergia per valorizzare le rispettive competenze».
Uno dei punti caratterizzanti, inoltre, sarà il «coinvolgimento della rete degli Ordini», in modo da «ancorare sul territorio una partnership che punta a promuovere lo sviluppo e la difesa dei diritti umani». In rappresentanza di Amnesty International Italia, è intervenuto il direttore Giovanni Ruffini, il quale ha chiarito il senso di incrociare il percorso dell’Ong con l’avvocatura: «In Italia il percorso per la piena tutela dei diritti umani non si è mai davvero concluso, fermandosi spesso sulla soglia della sottoscrizione di protocolli di intenzioni, con pochi riflessi nella legislazione e nel costume del Paese». Per questo, «Amnesty e l’avvocatura sono alleati naturali, per contrastare il tentativo di comprimere e limitare i diritti dei cittadini» e con questo obiettivo «è necessario che tutti i soggetti che hanno a cuore la giustizia, la tutela dei diritti costituzionalmente garantiti e quelli sanciti dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo uniscano gli sforzi».
Quanto al metodo di lavoro, Ruffini ha sottolineato come «noi di Amnesty International italia vogliamo imparare dall’avvocatura e siamo qui perché anche voi possiate conoscere meglio il nostro lavoro». Perché, come recita il protocollo, «si generi uno scambio culturale» attraverso «attività comuni», che promuovano la cultura della tutela dei diritti umani [chissà se il protocollo in commento si ascrive a tale promozione].
II – Corsi senza ricorsi
Non sarebbe forse il caso di considerare la Commissione Territoriale un giudice ultimo e vietare i ricorsi? (da ilgiornale.it, 25.09.15).
Ed è in questo clima collaborativo (a metà fra Amici miei e Vichy) che si iscrive il “Protocollo della sezione immigrazione” [⇒ qui] del Tribunale di Venezia, in base al quale (i) si stabiliscono onnicomprensivi minimi; (ii) vengono «create apposite e separate liste di avvocati volontari» (iii) si pone uno schema di ricorso; (iv) si richiede agli avvocati puntualità; (v) si avvisa che, attesa «la natura urgente dei procedimenti», non verranno concessi rinvii; (vi) si prevede che «l’audizione del ricorrente verrà condotta… senza l’intervento dei difensori»; (vii) gli avvocati dovranno avvisare se i propri clienti sono affetti da malattie infettive.
Il protocollo – che ha fatto insorgere avvocati democratici, magistrati pasoliniani, operatori voltairiani, giuristi flaianici – letto in “combinato disposto” (come dicono quelli che hanno letto un libro) con i provvedimenti di cui sub I) non pare scabroso, collocandosi – anzi – in continuità con una modalità operativa che dura da almeno 15 anni e che sotto altri profili pare corretta.
Vediamo:
Quanto a i): i minimi tanto minimi non sono, una importante finanziaria paga € 200 ad istanza di fallimento, per un’ingiunzione € 300, e comunque il lavoro della gran parte degli avvocati oggi sta tra il sottopagato e il gratuito. Del resto anche il lavoro “autonomo” di prima generazione è diventato precario: il protocollo evidentemente sa con chi ha a che fare e s’adegua.
Quanto a ii) la specializzazione è stata ripetutamente invocata, e poi se sono “volontari” saranno un po’ cazzi loro. E se poi proprio vogliono difendere migranti saranno trattati come oramai è abitudine trattarli agli sbarchi, presso le questure, persino ai momenti di distribuzione e di compilazione dei moduli per la richiesta d’asilo: come “solidali” con il “nemico migrante”, e quindi nemici di complemento: una lista aggiungerà soltanto un po’ più di metodo alla faccenda.
Quanto a iii) i “requisiti” non mi paiono stravaganti, ma riproduttivi – ad es. – dell’art. 125 c.p.c.; magari denotano una certa sfiducia nel ceto avvocatino, ma se il Tribunale chiede una “copia leggibile” del provvedimento di rigetto ha ragione, perché deve leggere il provvedimento impugnato per conoscerlo, i “giuristi” (ancorché democratici) dovrebbero saperlo. Che poi qui da noi si leggano solo documenti in italiano non stupirà più di tanto, “prima gli italiani” (e primo e solo l’italiano), è la Grundnorm sottintesa della procedura: il protocollo lo mette giusto per iscritto, e del resto la condizione delle traduzioni in tribunale è sempre stata in linea con la “colonialità” che caratterizza tutto il rito.
Quanto a iv) la puntualità dovrebbe essere la norma, cosiccome (cfr. v) il procedere spedito di un procedimento “d’urgenza”;
Quanto a vi) effettivamente la figura del magistrato che “se la canta e se la suona” induce a cautela, ma anni e anni di Montalbano dovrebbero averci insegnato qualcosa e poi, quanto sopra riferito a proposito del novissimo processo di cassazione la dice lunga sul vento che tira. In ogni caso Minniti ce l’ha già spiegato: tutti questi ricorsi e soprattutto tutti questi ricorsi accolti non sono una bella cosa, vediamo di chiarire che “giurisdizione” sì, ma fino a un certo punto, sei sempre tu, da solo, che te la devi giocare davanti al Giudice, e magari è meglio se ti disponi a raccontarti come “vittima” che se ti presenti come vero e proprio “ricorrente”, magari con tanto di avvocato parlante.
Quanto a vii) perché i magistrati (ma anche gli avvocati, i cancellieri…) dovrebbero prendersi delle malattie infettive?
Ho scritto queste ovvietà, apparentemente offensive del lavoro che tanti operatori del diritto svolgono ogni giorno in modo encomiabile e talvolta con vero sacrificio, non perché il “protocollo” non sia orrido risultato teso più a soddisfare la gente esasperata che le esigenze di un complicato problema processuale, ma proprio perché nessuno lo dice, contrappuntando misture a base di diritti civili, libertà personali e altre minchiate (come se uno che è sottoposto alla tortura dell’acqua come a Guantanamo, si lamentasse che “non è ferrarelle“), mentre è il culto del protocollo che va combattuto, la pretesa di imporre attraverso misure formalistiche (ed ovvie, come ovvio è il formalismo) il rispetto di una legalità che è ossequio pigro e violento alla legge, dove legge non è il documento, ma il rimbombo pauroso del preteso ragionamento della succitata “gente esasperata“. E comunque, se Ordini e giudici dichiarano oramai la guerra agli avvocati che assistono i migranti – del resto in perfetta linea con quello che dovunque, sui confini esterni come su quelli interni, sta accadendo con le crociate in nome del “reato di solidarietà” – bisognerà convincersi che non ci sono più ruoli o difese tecniche che tengano: anche gli avvocati nella guerra ai migranti sono un obiettivo politico, il nemico lo sa, gli avvocati ne stanno cominciando a tirare le conseguenze politiche. Forse anche per questo gli Ordini corrono a firmare protocolli coi giudici nel segno del rappel à l’ordre.
E in questa direzione, il protocollo che l’aquila a due teste della giustizia ci serve evidenzia più di un aspetto emblematico.
È testo attuale, che prende in considerazione problemi veri, oggettivi direbbe qualcuno. L’amministrazione della giustizia è oggi marmellata di burocrazia, frattaglie avvocatesche, pignoleria, enorme dispendio di energie, giudici talvolta assenti o distratti, cancellieri da film anni 50, farraginosità delle procedure, schemi processuali costruiti sulla sabbia dell’emergenza e dell’esasperazione dei cittadino. È testo attuale anche nella risoluzione del problema, dove il negro in fuga indica il cielo, il giudice guarda il dito e l’avvocato il portafoglio…
III – Giudici, giudizi e rivoluzioni
“Popolo, Francia intera, nel linguaggio giuridico non sono che il pubblico dei rostri, non sono che la parte. È cosi, è necessario che sia così perché se il giudizio dovesse essere reso da un terzo la rivoluzione sarebbe finita e la parte sederebbe sul banco degli imputati. Ma il giudizio reso dalla parte non è, per il giurista un giudizio” (Satta, Colloqui e soliloqui di un giurista, il mistero del processo, p. 17)
Ho parlato di “rivoluzione veneziana” perché i giudici e i magistrati incarnano la rivoluzione (permanente e) tranquilla posta del comando capitalistico che si attua nel rafforzamento di una costituzione materiale post(il)liberale.
I protocolli che ho riportato sono una lotta formalistica e parziale, ma pur sempre cruenta, contro il degrado, la sciatteria (“sciatti”: così la Cassazione ha definito alcuni ricorsi; e infatti, io i ricorsi li faccio ispirandomi a Pierre Balmain e li spruzzo di Eau Savage, mica voglio sembrare il solito sfigato provinciale).
Imporre limiti di lunghezza, le dimensioni della pagina, il rispetto dell’orario, con una tolleranza dettata da chi non conosce la lentezza dei motoscafi, soprattutto ora che il Tribunale nuovo è lontano dal Gritti (dove notoriamente soggiornano i negri in attesa di giudizio), non è un vezzo formale. È violenza di classe, imposizione di un rigore nel gesto, nella libertà di espressione che trascende la costituzione e si impone sulla vita, direttamente, tanto del difensore che della parte (che poi è vero, gli avvocati potrebbero arrivare in orario, ma per questo anche i Giudici, tutti abbiamo (avuto) bambini piccoli o dobbiamo passare alla coop per fare la spesa).
L’eliminazione dell’appello, la restrizione delle possibilità di ricorso in cassazione, la partecipazione del difensore resa sempre meno incisiva, in generale il fastidio con cui si gestiscono le controversie e le problematiche – anche pratiche – che l’amministrazione della “giustizia” impone, quasi l’azione fosse “privilegio” accordato alla parte da esercitarsi con parsimonia, la riduzione del giudizio a un involucro con cui soffocare le istanze materiali che sottostanno (e informano) all’azione, ecco quello che vogliono dire i “protocolli”.
Preciso, per evitare fraintendimenti: l’accusa che muovo non è di dirigismo o desiderio totalitario, trovo che i protocolli siano sì una risposta a un problema, ma risposta sciatta a una vera sciatteria (che è lo stato della giustizia nostrana), come quando, da piccoli, si andava in discoteca e una con cui c’avevi provato non ti cagava, si diceva agli amici: “tanto non mi piaceva” (e viceversa).
È la resa del processo, la morte del diritto, la risposta fuori dal diritto a un problema, magari, reale. E allora il giudice si fa parte; “parteggia” per il processo in quanto tale, lontano dallo schema di Bulgaro. È una rivoluzione come quella del 3 brumaio dell’anno II che soppresse l’avvocato. È negazione del processo che affoga nell’amministrazione; amministrazione, peraltro, astratta e non del concreto; si negano tanto Kelsen che Pasukanis rinchiusi nel cancello della legalità “in quanto tale”, visionaria premonizione del paradiso dell’impresa in crisi.
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