Dopo l’intervista ad Amitav Ghosh, pubblichiamo un secondo contributo proveniente da quell’area di commistione fra India (Bengala occidentale, per l’esattezza) e Occidente attraversata dalla riflessione critica del pensiero post-coloniale. Come Ghosh, Chakrabarty è intervenuto più volte (in appendice una bibliografia) in questi mesi sul nesso fra cambiamento climatico, crisi pandemica e crisi migratoria. L’intervista è stata pubblicata, con qualche taglio, sul manifesto del 25 luglio: qui pubblichiamo la versione integrale.

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di DIPESH CHAKRABARTY (intervista a cura di Girolamo De Michele)

1. Sembra che la crisi pandemica e la crisi climatica, come pure la crisi migratoria globale, affondino le proprie radici in cause comuni: per lei è così?

Sì, nella misura in cui tutte e tre hanno a che fare con un’espansione incontrollata di attività economiche estrattive in tutto il mondo e con una crescente diseguaglianza nella distribuzione della ricchezza negli ultimi settant’anni, dove il numero totale di esseri umani, in particolare quelli appartenenti alle classi consumatrici, è aumentato anch’esso. I virologi affermano che la maggior parte delle nuove malattie infettive umane – circa il 60% dagli anni Sessanta e il 75% negli ultimi vent’anni – ha avuto origine zoonosica: è accaduta perchè alcuni virus o batteri hanno fatto il salto di specie dal corpo di un animale selvatico a quello di un essere umano. Questo ha a che fare a sua volta con la distruzione dell’habitat della fauna selvatica, causata dall’estrazione mineraria, dal disboscamento, dalla creazione di terreni coltivabili, dall’estensione delle abitazioni umane, dalla costruzione di strade e opere infrastrutturali e dal commercio illegale di fauna selvatica. Si aggiunga anche la domanda di carne esotica e l’aumento del numero dei wet market in alcuni paesi asiatici nei quali gli animali, selvatici e non, vengono condotti al mercato in condizioni estreme di stress che li portano a trasudare patogeni. Tutto ciò ha aumentato l’interfacciamento fra esseri umani e animali selvatici: questi non vanno in cerca degli umani, siamo noi a spingerli fuori dai loro habitat, e più vicini a noi. Gli esseri umani sono stati un agente amplificatore per il nuovo Coronavirus, che ha risieduto per milioni di anni nelle viscere di qualche animale selvatico – probabilmente pipistrelli – a causa delle condizioni che contraddistinguono la nostra globalizzazione: siamo presenti in grande quantità, ci affolliamo nelle città e siamo estremamente mobili (i privilegiati alla ricerca della bella vita, i non privilegiati per guadagnarsi da vivere). Dirò più avanti sulla questione della migrazione.

2. Dalla tua prospettiva di nativo di Kolcata [Calcutta, capitale del Bengala occidentale indiano] che insegna a Chicago, come giudichi le politiche di contrasto alla pandemia, in particolare in India e negli USA?

A lungo gli USA non hanno attuato alcuna politica per affrontare la pandemia: il presidente Trump ha perso tempo facendo battute sul fatto che il Nuovo Coronavirus fosse un virus cinese e poi sul fatto che colpisse esclusivamente europei e iraniani. Il lockdown è arrivato molto tardi, e ora Trump fa pressione su tutte le istituzioni per riaprire tutto, pandemia o meno, quando i suoi stessi consulenti medici predicono che presto negli Stati Uniti ci saranno100,000 nuovi infetti al giorno. In alcuni Stati, dei ragazzi si divertono ai “COVID-19 Parties” senza mascherine o altra protezione per dimostrare a sé stessi che la pandemia è una bufala. Che dire? A volte l’idiota libertarismo americano lascia senza parole. Anche in India c’è stata una enorme inettitudine governativa e insensibilità nei confronti dei poveri. Hanno annunciato il primo lockdown in maniera drammatica, con un preavviso di quattro ore e senza dedicare un solo pensiero al fatto che il 90% della forza lavoro del paese è nel settore informale, e la maggior parte è costituita da poveri e migranti. Questi hanno perso lavori e alloggi in locazione da un giorno all’altro e non erano, all’inizio, autorizzati a lasciare le città in cui lavoravano. È stata una tragedia e ha prodotto un’enorme crisi morale e sanitaria nel paese, assieme a morti crudeli e non necessarie. In aggiunta, i casi effettivi di Covid-19 sono stati sottovalutati e sottotestati; il sistema sanitario del paese – che non è mai stato molto forte nel settore pubblico – sta venendo sopraffatto. Sia l’India che gli USA, sotto pressione per la riapertura delle loro economie, sono di fronte a una crescente catastrofe. Mi limito a pregare che non accada.

3. Vent’anni dopo Provincializzare l’Europa, come considera i suoi lavori sulla critica postcoloniale, e in che rapporti è quella riflessione con il concetto di Antropocene su cui scrive da un decennio?

Bene: sembra che quel libro abbia ancora rilevanza. È stato un prodotto della globalizzazione: riconosceva la natura post-imperialistica del globo su cui abitiamo – un globo che si è evoluto uscendo dal processo che Heidegger chiamò “l’europeizzazione della Terra” – e si chiedeva in che modo avremmo potuto affrontare la questione della differenza storica-antropologica nel contesto di questa storia globale. La disomogeneità del globo è un fattore molto presente in alcuni dei dibattiti sul riscaldamento globale. Le questioni di giustizia climatica, i problemi di “responsabilità comune ma differenziata” sorgono per via della natura disomogenea e diseguale del globo che il capitalismo e gli imperi europei hanno creato assieme. Le questioni odierne di migrazione, crisi dei rifugiati, relazioni razziali trattano di ingiustizie storiche fra classi, etnie e nazioni. Inoltre, sostengo che l’intensificazione della globalizzazione capitalistica ed estrattiva nel secondo dopoguerra ci ha rivelato l’opera di un’altra formazione che io chiamo il pianeta, per distinguerla dal globo. Il mio pianeta è la Terra dell’Earth System Science, ma sempre più accessibile come categoria del pensiero umanistico. Il “pianeta” si riferisce dunque ai modi in cui i processi geologico, fisio-chimico e biologico si combinano per rendere la Terra abitabile per la vita pluricellulare complessa. Il globo è un costrutto incentrato sugli esseri umani, il pianeta racconta una storia che decentra gli esseri umani. Il mio lavoro attuale è un tentativo di tenere assieme queste storie allo stesso tempo, senza ridurle l’una all’altra ma avendo entrambe le prospettive: quella globale e quella planetaria.

4. Alcuni studiosi oppongono al concetto di Antropocene quello di Capitalocene: pensi che siano alternativi o che entrambi consentano una prospettiva complementare sul capitalismo estrattivo?

Penso che siano complementari: capisco l’intensità del dibattito in certi ambienti, ma resto perplesso. Il dibattito è sorto in parte da un’ossessione per la parola “anthropos” nell’espressione “l’Antropocene”, poichè sembrava suggerire, all’orecchio di alcuni studiosi, che tutti gli esseri umani fossero ritenuti ugualmente responsabili per il riscaldamento globale. Questo mi ha sorpreso: è evidente che non è mai stata intenzione degli scienziati della Terra intendere qualcosa del genere, dal momento che tutti loro concordavano col principio di “responsabilità comune ma differenziata”, un principio accettato anche dall’IPCC. Inoltre, I più concorderanno che non si può separare la storia dell’uso dei combustibili fossili da quella delle società industriali moderne (si possono chiamare genericamente capitalistiche se s’ignora ancora la questione di come descrivere il blocco sovietico, anch’esso dissoluto nell’uso dei combustibili fossili). E concorderanno anche sul fatto che l’impatto del cambiamento climatico ricadrà, ingiustamente, più sui poveri, i meno responsabili per le emissioni di gas serra. Ci sono poi argomenti più specialistici: alcuni sostengono che la radice del riscaldamento globale è la logica capitalistica dell’accumulazione che costituiva parte della teoria di Marx; marxisti con una mentalità più ecologista, d’altra parte, parlano di una “natura economica”, che vedono come la premessa del mondo-capitale. Altri – Ian Angus, per esempio – non sono tanto ostili all’etichetta “Antropocene”. All’interno del campo “Capitalocene”, dunque, ci sono accentuazioni diverse su diverse analisi. La questione stratigrafica è duplice: abbiamo raggiunto la soglia dell’Olocene? Se sì, a partire da quando dobbiamo datare questo cambiamento? Come si sa, il nome di un periodo o un’epoca geologica di solito non suggerisce nulla a proposito dei fattori che l’hanno generato. Gli scienziati possono spiegare cosa accade ai processi planetari quando i gas serra s’immettono nell’atmosfera in grandi quantità e trattengono il calore; possono parlare anche dei segni che le attività umane legate all’emissione di questi gas lasceranno nella litosfera. Possono anche fornire dati su alcuni indicatori sociali e naturali, per mostrare quando il riscaldamento ha iniziato ad accelerare; ma quali istituzioni sociali, pratiche umane, politiche e desideri si sono combinati storicamente per sfociare in un’incremento delle emissioni di questi gas serra è questione delle scienze sociali. E a proposito di questo, come a proposito di ogni altra questione delle scienze sociali, esistono risposte sia marxiste che non, proprio come può esserci una differenza di opinione fra marxisti. Ma alcuni marxisti trattano la parola “Antropocene” come se fosse indicativa di una cospirazione morale per nascondere il ruolo giocato dal capitalismo: non penso ci sia mai stata questa intenzione. Alcuni hanno anche obiettato sul mio uso della parola “specie” nel mio saggio del 2009 The Climate of History, pensando che anche “specie” fosse stata ideata per deviare la colpevolezza dal capitalismo. Il punto del mio discorso era semplicemente che gli esseri umani sono diventati una specie biologica dominante proprio attraverso la storia dell’industrializzazione capitalista, che ha anche prodotto un’umanità differenziata e con disuguaglianze interne. Si possono vedere entrambe le cose spostando la propria prospettiva.

traduzione di Carlotta De Michele

Su Chakrabarty e la crisi pandemica vedi anche:

Distances in a crowded house. Coronavirus, global lives and the need to respect biodiversity, in “The Telegraph on line”, 28 marzo 2020

Toynbee Coronavirus Series: Dipesh Chakrabarty on zoonotic pathogens, human life, and pandemic in the age of the Anthropocene, Toynbee Prize Foundation, 17 giugno 2020

Vivere e pensare nell’attuale pandemia, Nottetempo – Semi, ebook, 2020

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