Di AGOSTINO PETRILLO
Scrivo queste righe mentre ancora fumano le macerie dell’edificio della polizia di Minneapolis, e dopo quattro giorni di riot i disordini e i saccheggi si estendono anche ad altre città, in cui viene addirittura decretato il coprifuoco. Mentre la stampa militante americana parla un po’ genericamente del diffondersi di un “virus del razzismo” o coglie l’occasione per riannodare le fila di un dibattito da tempo in corso sul racial capitalism forse è possibile fare qualche considerazione su quanto avvenuto da una diversa angolatura.
Il ciclico riproporsi dei riot degli ultimi anni è l’altra faccia di un massacro che dura ininterrotto da oltre un decennio. Ogni anno negli USA si registrano centinaia di morti in circostanze analoghe a quelle in cui è stato ucciso George Floyd. Lo stesso agente responsabile della vicenda era già stato indagato in precedenza per altre morti di neri fermati in circostanze poco chiare. Come nel caso di Rodney King nel 1992, all’epoca di “No justice no Peace”, anche questa volta è stato il fatto che la vicenda sia stata documentata da immagini, da un video, e la particolare crudeltà e assurdità delle modalità con cui è stato commesso l’omicidio a suscitare l’indignazione e a provocare la protesta collettiva. D’altro canto una storia dai tratti egualmente agghiaccianti è stata quella dell’assassinio di Freddy Gray, ragazzo nero lasciato ammanettato in piedi a spezzarsi la schiena nel retro di un furgone della polizia lanciato a tutta velocità, vicenda che ha scatenato il riot di Baltimora nel 2015.
Il razzismo che impregna la società statunitense certo è una delle componenti dell’orizzonte di fondo su cui si muovono queste storie drammatiche, ma non è l’unica. Non è da ieri che nei ghetti urbani vigono leggi particolari e i poliziotti che li presidiano si comportano spesso non come i legali detentori di un formalizzato “monopolio della violenza”, ma semplicemente come gli arroganti esponenti della “gang più forte là fuori” come disse uno degli abitanti del ghetto di Chicago in una bellissima intervista a Loic Wacquant. L’abuso della violenza è nei ghetti neri all’ordine del giorno, si spara nel mucchio senza tanti problemi, con l’obiettivo non tanto di garantire il rispetto di un ordine che in queste zone da tempo non esiste più, quanto piuttosto di mantenere una deterrenza generalizzata, e al tempo stesso di ribadire ogni volta quelle che sono le frontiere invalicabili del ghetto e che lo separano da altri quartieri di ceto medio o di diversa composizione sulla “linea del colore”. Una sorta di “diritto speciale” è quindi qui all’opera, come avviene per esempio frequentemente negli slums terzomondiali, in cui i diritti degli abitanti esistono solo sulla carta e le irruzioni dei corpi speciali avvengono al di fuori di qualunque civile habeas corpus. Avevo già avuto l’impressione nel 2014, all’epoca dei fatti di Ferguson e della nascita del movimento “Black Lives Matter” che ci fosse anche un’altra possibile lettura dei fatti, legata a confini invisibili della città che non si debbono valicare. Molti dei morti di quell’altra stagione di violenze erano semplicemente “fuori luogo”, neri che si trovavano in zone in cui non avrebbero dovuto essere, in quartieri bianchi e upper class, o nelle loro immediate prossimità. Il fatto di trovarsi “fuori luogo” era sufficiente per attivare nei loro confronti il “diritto speciale”, concedendo alla polizia la possibilità dell’esercizio di una violenza illimitata.
Minneapolis è una città meno segregata di altre se la si considera su grande scala, ma le Twin cities, la grande area urbana che conta quasi 3 milioni di abitanti e di cui fa parte anche la capitale del Minnesota, St, Paul, presentano tutta una serie di enclaves segregate, di “bolle” in cui esistono divisioni nette tra i quartieri quanto a livelli di vita e tipologia di abitanti. Uno sguardo più ravvicinato mostra un grande livello di separazione tra i differenti quartieri nelle due città “gemelle”. Sebbene vi siano neighborhoods di relativa mixité etnica e abbastanza integrati, rimangono nette delimitazioni tra quartieri abitati da asiatici, da neri e da bianchi. Sulla mappa della città una sottile linea rossa circoscrive e individua queste bubbles. Esistono soprattutto nel Nord-est zone considerate più a rischio e in cui la concentrazione della popolazione nera si sovrappone quasi esattamente alla mappa della povertà. L’area in cui ha trovato la morte George Floyd è situata a Sud, ma è appunto un’area cuscinetto, caratterizzata da una popolazione mista, latinos e black, a prevalenza latinx come si dice oggi, confinante tra una zona di popolazione nera e di povertà e una zona di ceto medio bianco. Va anche ricordato che la città ha conosciuto un lungo altalenare degli indicatori di povertà, a partire da una situazione che era molto pesante negli Novanta, in cui viveva sotto la linea di povertà un abitante su quattro della metropoli. Questo anche il periodo storico in cui si è andata rafforzando una durevole ostilità tra la popolazione nera e la polizia, sviluppatasi nel corso di una lunga war on drugs in cui i neri erano costante bersaglio delle attenzioni poliziesche. Dopo un piccolo miglioramento delle condizioni di vita che si era verificato nel decennio scorso, il Covid ha portato con sé non solo una quantità sproporzionata di decessi nei quartieri neri e latinos, ma anche un’esplosione della disoccupazione e un impoverimento di massa. L’esasperazione per la mancanza di cure, l’assenza di servizi e la mancanza di mezzi materiali è andata montando costantemente. Per moltissimi lavoratori precari e a basso reddito è diventato difficile sbarcare il lunario. Lo stesso George Floyd era braccato dalla polizia per il sospetto di avere commesso uno spaventoso crimine: avrebbe spacciato una banconota falsa da 20 dollari…
La rabbia che riesplode è certo il risultato di una situazione insostenibile in molte città americane, in cui come ha giustamente rilevato Cornell West si dispiega “un esperimento sociale fallito”. La miseria e la disuguaglianza sono sempre più evidentemente spazializzate. Il ghetto ribolle, i suoi confini sono controllati in maniera sempre più arcigna, mentre gli effetti della segregazione e dell’isolamente spaziale nei suburbs e nelle inner-cities dimenticati dall’azione pubblica sono sotto gli occhi di tutti. La Zone di cui già parlava il Pierre Bourdieu di La misère du monde cresce quantitativamente e si estende spazialmente.
Così può avvenire che mentre i media denunciano allarmati l’esplosione di una violenza “insensata”, si schiera la guardia nazionale e Trump invoca i dobermann di guardia alla Casa Bianca, le dichiarazioni dei politici appaiono vuote e di maniera, proprio nel momento in cui si evidenzia la necessità vitale per l’America di ripensare la sua organizzazione sociale e spaziale, di ascoltare masse inascoltate e rese invisibili.
È forse venuto il momento anche di farla finita con una lunga retorica antropologizzante, che ha celebrato i fasti delle black Metropolises narrandole come luoghi di produzione culturale, musicale, come realtà in cui in ogni caso sopravvivono forze e istanze comunitarie, forme di resistenza collettiva, e si continua a combattere la beautiful struggle per l’eguaglianza. Già Loic Wacquant nel suo I reietti della città aveva fatto piazza pulita del comunitarismo identitario, mostrando il venire meno nel corso dei decenni di questa immagine del ghetto nero, e l’irrompere di elementi potenti di desolidarizzazione e di frammentazione interna che conducono alla formazione di un disperato iperghetto. Eppure anche in un simile contesto di atomizzazione e di individualizzazione delle città nere le immagini che ci arrivano fanno riflettere: a irrompere nei centri, a saccheggiare i supermercati non ci sono barbari e selvaggi, thugs, come si disse ai tempi di Baltimora, ma folle adirate e consapevoli, composte non solo di neri, ma anche di bianchi, di persone capaci di sfidare uno schieramento impressionante di forze di polizia e la paura di contrarre il Covid (che ancora flagella gli States) per dimostrare la loro rabbia. L’impressione che se ne ricava è quella dell’avviarsi di una fase nuova, con un diverso tipo di protagonisti, decisi a rompere l’isolamento. La crisi che si sta aprendo rivela le sue radici profonde e mostra in tutta la sua durezza come le divisioni sociali e spaziali delle città statunitensi stiano diventando ancora più aspre. Non che tutto questo non si sapesse da tempo: notava una commentatrice e docente nera molto accreditata, Keeanga-Yamahtta Taylor, ancora a proposito del riot di Baltimora, che “nella ricerca senza fine delle radici ultime della disuguaglianza dei neri è stata elencata tutta una montagna di fatti che documentano gli effetti del ghetto, della segregazione e le conseguenze di questo tipo di isolamento sociale”. Ma tutto questo lavoro di ricerca sembra non bastare alla politica per prendere iniziative sensate. Diviene intanto sempre più evidente che intorno alla partita per gli spazi si gioca il destino dell’intero sistema. Dietro la sottile linea rossa che divide le città americane a non respirare sono in parecchi, non solo il povero George Floyd…