di GIULIANO SANTORO.

riprendiamo da Dinamopress la recensione di Giuliano Santoro (apparsa in versione breve sul manifesto) al libro di Leonardo Bianchi La gente. Viaggio nell’Italia del risentimento (minimum fax)

Assistendo ad un pensoso consesso di intellettuali e giuristi considerati «di sinistra» chiamati a discutere di beni comuni, chi scrive si trovò di fronte ad un riferimento misterioso e davvero singolare. Uno dei relatori, alto funzionario di stato scopertosi giacobino a fine carriera, menzionò un testo a suo dire risalente all’epoca dell’abolizione della schiavitù negli Stati Uniti: The Hazard Circular. Nessuno in mezzo al blasonato uditorio ebbe il coraggio di porre qualche dubbio o magari chiedere maggiori spiegazioni. Eppure, basta una rapida ricerca per scoprire che il documento in questione è probabilmente un falso, oltre che grande classico del cospirazionismo nordamericano.

Si tratterebbe di una lettera circolante tra i banchieri londinesi di fine Ottocento, con la quale si sosteneva l’abolizione della schiavitù a favore di una forma più sottile di oppressione fondata sul controllo della moneta. Ampiamente menzionata da complottisti di ogni risma e messa in giro da Ezra Pound, la Hazard Circular pare una riedizione dei Protocolli dei Savi di Sion. Contiene tutti gli ingredienti del pensiero reazionario, mescola rimpianto per il mondo tradizionale e condanna per la finanza (non per il capitalismo) in mano ai soliti noti (leggasi: gli ebrei).

La circostanza serve a comprendere quanto i discorsi che da qualche anno circolano in rete e colonizzano l’uso superficiale e inconsapevole del cosiddetto web 2.0 non abbiano soltanto raggiunto una massa critica. Questi hanno ormai contagiato un pezzo di mondo intellettuale e colonizzato il confronto politico mainstream. Viene da ridere a leggere le congetture dei complottisti. Ma l’epoca dello sberleffo è finita da un pezzo, perché c’è davvero poco da parodiare di fronte all’ingenuità di oratori da social network o polemisti improvvisati: quelle modalità hanno ormai raggiunto i piani alti.

La demonizzazione delle Ong operanti nel Mediterraneo, ad esempio, è partita da un video virale, ha trovato sponda in Striscia la Notizia e Luigi di Maio e alla fine è approdata sulla scrivania delle decisioni strategiche del Viminale. Di come cose del genere possano accadere si occupa La Gente (Minimum Fax, pp. 362, € 18), libro col quale il giornalista Leonardo Bianchi raccoglie anni di studi e osservazioni del fenomeno che adottando una definizione ancora sperimentale ma urgente, viene chiamato «gentismo».

Il titolo rimanda direttamente a La Casta, mega-seller figlio di una campagna stampa messa in piedi anni fa dal Corriere della Sera. Secondo alcuni testimoni, era tutto funzionale alla discesa in campo dell’ennesimo imprenditore da contrapporre ai «politici di professione». Se ne avvantaggiarono, come è noto, Grillo e Casaleggio, che rimodularono la loro comunicazione tutta sui temi degli stipendi dei parlamentari e sugli sprechi della politica tutta. Evidentemente, però, Bianchi parla di un tema ormai globale (impossibile non pensare alla vittoria di Donald Trump negli Stati Uniti) che nel paese che ha inventato la Lega e Berlusconi assume caratteri peculiari. Tuttavia, se è difficile definire il concetto di populismo, non è affatto facile cogliere l’essenza del gentismo.

Obbligati ad una certa approssimazione, diremmo che se il populismo è la capacità (utilizzabile da sponde differenti) di costruire un popolo sul quale poi esercitare sovranità, il gentismo è una sua variante, figlia della neotelevisione e dei social network, delle piazze microfonate inventate da Michele Santoro ai tempi di Tangentopoli e poi traslocate nei preserali a tema unico (immigrati e rom) di Mediaset.

Il leader gentista sa che deve innanzitutto usare i media per dialogare col suo popolo, ma è al tempo stesso consapevole del fatto che questo popolo è impossibile da condurre stabilmente ad unità. Dalla mole impressionante di dati e circostanze raccolte da Bianchi in un testo che alterna lo stile del reportage a quello della documentata ricostruzione giornalistica, emerge che la caratteristica fondante della variante gentista è proprio l’incoerenza. Il discorso gentista non ha, non può avere, nessuna linearità.

È una narrazione sincretistica e disarmonica, priva di ogni consequenzialità. Solo così, ad esempio, è possibile spiegare per quale motivo Yair Netanyahu, figlio del premier israeliano, abbia potuto diffondere via social la paccottiglia antisemita sul miliardario ebreo Soros come burattinaio occulto del mondo. Il discorso gentista può bellamente infischiarsene delle contraddizioni, attinge dall’estrema destra e dall’estrema sinistra, si appiglia ai cardini del liberalismo e al tempo stesso sventola lo spettro di una qualche dittatura stalinista e/o nazista. Grazie alle micro-nicchie di cui è composto l’audience cui ogni gentista si rivolge, il suo argomentare sarà composto da brandelli di storie spezzettate e rimescolate alla bisogna.

È l’evoluzione ultima della caratteristica riconosciuta da Furio Jesi nella sua analisi sulla «cultura di destra»: ridurre il passato ad una pappa informe dal quale pescare a proprio piacimento. Il gentista intuisce che anche il presente è ormai una melassa spalmata su troppi schermi, su tantissimi device, a cavallo di diversi media. Siamo oltre le fake news, siamo allo spappolamento dell’idea stessa di verità. Ognuno degli spettatori votanti avrà modo di raccattare il frammento che più gli aggrada, che più gli occorre per trovare una qualche rassicurazione istantanea.

È curioso: Bossi (padre di un altro fenomeno tutto mediatico: anche se c’era gente che diceva che la Lega erano salamelle ed elmi vichinghi) disse di aver inventato un popolo (la Padania) ascoltando i discorsi della gente in fila alle poste, sovente rancorosi verso i dipendenti allo sportello, spesso e volentieri meridionali. Negli Stati Uniti, come ha raccontato in un saggio geniale Mark Ames, impazzire, andare all’ufficio postale e fare una strage era segno inequivocabile di disagio sociale inespresso. E oggi, dicono i sociologi, il voto al Front National in Francia cresce nei paesi in cui non esiste più l’ufficio postale. Quegli uffici non esistono più perché si mandano mail e per ascoltare i discorsi della gente ci si mette in fila su Facebook. La rabbia è meno violenta, neutralizzata.

La rete diventa lo spazio dell’emozione connettiva invece che dell’intelligenza collettiva, termine che deriva dal tecno entusiasmo che abbiamo spesso (sbagliando probabilmente) tradotto mentalmente con «general intellect». Quando David Bowie diceva che Adolf Hitler è stato la più grande rockstar della terra, non stava dicendo di essere filonazista e non sapeva ancora che Hitler si drogava molto più di Jimi Hendrix. Intuiva, da uomo di palcoscenico abituato a rapportarsi con le masse, la carica magnetica e spettacolare del potere e del potere carismatico. Le piazze che guardano verso un singolo punto, verso il leader. Aspetti emotivi appunto, idee senza parole.

Riprendendo la cassetta degli attrezzi della composizione del lavoro, forse bisognerebbe ricominciare a immaginare una collettività pensante, non dare per scontato (come fanno i gentisti più o meno mascherati e come grazie al cielo rifiuta di fare l’autore di questo libro) che le masse siano masse in quanto tali, cioè corpi molari e inamovibili, da accarezzare alla pancia e non far ragionare. Parlare di gentismo, invece,  comporta due rischi, opposti e speculari. Da un lato, si incappa nella tentazione di porsi su di un piedistallo, inarcare il sopracciglio e giudicare lo sgrammaticare della «ggente». D’altro canto, c’è il pericolo di blandire questa parodia della rivoluzione, scambiandola per senso comune da plasmare.

Questo secondo atteggiamento si presenta come aperto alla contaminazione, ma a ben vedere è ancora più elitario del precedente, vista la pretesa di indirizzare gli umori popolari dall’alto di una qualche posizione d’avanguardia, manovrando le leve della comunicazione e della tattica. Bianchi bada all’osso della faccenda, si concentra sulla sostanza dei fenomeni, ereditando dallo spirito del gonzo journalism la curiosità per fenomeni presuntamente marginali e dalle analisi ballardiane il gusto per paradosso e il fiuto per i tratti distopici.

Soprattutto aggira ogni stigma dal respiro corto, ricostruisce i componenti che formano il pout pourri ideologico e culturale che anima i discorsi gentisti. Ripercorre l’origine del fantomatico Piano Kalergi, fino a pochi anni fa argomento da neonazisti oggi citato con piglio serioso dal sedicente marxista Diego Fusaro (colui il quale possiamo considerare il filosofo del gentismo, apprezzato dalle estreme destre, ben introdotto nei salotti televisivi e pubblicato dalle grandi case editrici progressiste).

Oltre che da Fusaro e Matteo Salvini, il Piano Kalergi viene tirato quotidianamente in ballo da migliaia di commentatori seriali, intenti a denunciare un disegno ancora una volta segreto volto a sostituire le popolazioni occidentali con masse di schiavi meticci. In pagine altrettanto riuscite, l’autore si rimette sulle tracce dei Forconi, ricostruisce le gesta del bislacco stato maggiore che pare uscito dal film Vogliamo i colonnelli per chiudere il «Parlamento corrotto» e sostituirlo con un «governo transitorio delle forze di polizia», non scordando di menzionare che a Torino quel fenomeno si accompagnò ad una sommossa spontanea che disorientò non poco gli inquirenti alla caccia (anche loro) di registi occulti degli scontri. Dulcis in fundo, il libro documenta le tattiche gentiste sul web di certa comunicazione renziana. Ennesima prova del fatto che i primi gentisti non erano bizzarri agitatori ma pionieri esponenti di una nuova forma della politica dopo la fine della rappresentanza.

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