Pubblichiamo qui un contributo di Fabio Papetti e un primo report/intervista, in italiano ed inglese, al quale ne seguiranno altri.
Di FABIO PAPETTI.
Sono passati più di 20 anni dalla fine della guerra nell’ormai ex Jugoslavia. Ora, diversi paesi coprono quello che una volta era un unico blocco, facente parte dei paesi “non allineati” durante la guerra fredda. Serbia, Bosnia Erzegovina, Montenegro, Croazia, Slovenia, Macedonia, Kosovo ricoprono il ruolo di vicini dell’Europa dell’Est. Parte di essi è stata già inclusa nell’Unione (Croazia nel 2013 e Slovenia nel 2004) mentre altri stanno avviando le trattative per entrarci (come la Serbia, l’Albania ed il Montenegro) ed altri ancora, come la Bosnia Erzegovina, stanno formalizzando l’iscrizione nell’albo dei candidati per essere ammessi nell’UE. Naturalmente, quest’ultima richiede dei precisi prerequisiti per poter entrare in questo “gruppo d’elite” delle nazioni privilegiate. Tra i vari criteri ve ne è uno riguardante il rafforzamento dei confini nazionali, al fine di prevenire la tanto temuta “immigrazione illegale”(o illegalizzata?). In questo contesto si è andata formando la così detta “Rotta Balcanica”, ovvero il percorso ormai consolidato da anni che vede decine di migliaia di persone percorrere ogni anno questo tragitto che si estende dalla Grecia fino a terminare in Germania e oltre, verso i paesi interni dell’Unione Europea.
A causa di questo movimento ormai naturalizzato nell’ambiente balcanico le politiche europee si sono trasformate, vergendo su un approccio basato sulla sicurezza della frontiera e sulla regolamentazione dei flussi migratori. L’area Schengen si è andata dunque chiudendo, e le politiche Europee dei confini sono diventate sempre più rigide e mirate al respingimento delle persone che arrivano da fuori dell’UE, creando un vero e proprio sistema di discriminazione. Ed è proprio qui che si collocano i così detti “push backs”, ovvero respingimenti ad opera della polizia di confine usati come mezzo per scoraggiare chi attenta a varcare la frontiera europea. Questi respingimenti sono illegali in quanto non è possibile (per la legge internazionale) cacciare una persona da un paese senza un processo e soprattutto è impossibile farlo se tale persona abbia dichiarato di voler cercare asilo (che sia nel paese dove arriva o in un altro paese membro dell’UE).
Tuttavia i push backs sono all’ordine del giorno, e le politiche di confine, rafforzate dall’intervento di FRONTEX, stanno legittimando queste illegalità ed influenzando le aree esterne all’Europa, fino ad allargare la sfera di influenza a paesi terzi come Bosnia, Montenegro e Albania.
Si è sentita dunque la necessità di registrare, documentare e rendere pubbliche quanto più possibile le storie delle persone che hanno tentato di attraversare la frontiera, ma che sono state catturate dalla polizia e ingiustamente respinte.
Le storie che verranno pubblicate, a partire dalla prima che troverete qui sotto, sono storie delle persone che sono state respinte, le quali mostrano la violenza e brutalità dei confini, delle politiche europee e nazionali rappresentate dalle forze di polizia che quotidianamente attuano queste pratiche illegali. Queste violenze sono sistematiche, in quanto si è arrivato all’uso di tattiche per spaventare, traumatizzare le persone che capitano sotto il giogo della polizia, adattandosi anche a seconda del clima. Come disse Hannah Arendt, la violenza ha sempre bisogno di (nuovi) mezzi per essere implementata. Si può quindi incontrare persone che sono state spogliate nel mezzo dell’inverno e lasciate tornare indietro senza niente, persone a cui sono stati rubati soldi, cellulari e oggetti personali, uomini e donne degradati, non considerati più tali e picchiati.
Allo stesso tempo, le violenze a cui si è assistito hanno una forza normalizzante, in quanto sembra anche a chi sta lì sul posto che più queste avvengono, più creano la base per la loro stessa legittimità, venendo dunque istituzionalizzate e impresse come marchio sia lungo il confine che dentro le menti delle persone che le perpetrano. Si passa quindi a veri e propri episodi di squadrismo, nei quali ronde della polizia pattugliano le strade dei luoghi sospettati di essere punti di passaggio dei “migranti” ed aspettano il momento opportuno per intervenire e, in buona parte dei casi, picchiare i malcapitati. Inoltre, è stato riportato anche l’atteggiamento violento della polizia nei confronti dei colleghi stessi che hanno cercato, durante tali episodi, di smorzare i toni e di placare lo spirito brutale degli altri membri della pattuglia. Si va così a creare una “cultura del terrore” ed uno “spazio di morte” in cui la violenza assume valore assoluto e si instaura come pratica di diritto, come dimostra questo estratto da un’intervista condotta a Sarajevo:
“Alla fine dell’intervista, la persona che ha raccontato questa storia ha chiesto se la polizia ha il diritto di fare questo. È rimasto stupito quando ha realizzato che non dovrebbe succedere. Perché accade talmente spesso che è diventata una normalità, ha detto.”
Inoltre, la facilità con cui tale violenza sistematica e autolegittimante entra nelle vite di chi tenta di attraversare i confini europei, non toccando neanche dal punto di vista mediatico la vita di chi è nato in Europa, riflette le differenti geografie presenti in un unico posto. Ci mettono di fronte a quelli che sono i privilegi di avere un passaporto invece di un altro, determinando l'(in)accessibilità allo spazio attorno ed i diritti legati ad esso. Quanto cambia un unico ambiente quando si è messi a confronto con l’identità, a volte imposta da pregiudizi e burocrazie, e la successiva raffigurazione di essa attraverso simboli e significati che sono racchiusi nei corpi delle persone e ciò che essa rappresenta per le politiche che influenzano il luogo stesso. Ci si rende conto di quanto i confini siano astratti ed indefiniti come concetto, eppure così concreti da condizionare ogni aspetto della vita di un essere umano, andando dal controllo sul movimento, al dominio della sfera pubblica, nella quale anche un ospedale, una stazione dei treni o una casa diventano frontiere.
In conclusione, ciò che viene messo in dubbio nei racconti presi è la solidità delle convenzioni dalle quali siamo circondati: la pratica della “migrazione” ha una forza capace di destrutturare ciò che è dato per assoluto e cristallizzato nelle nostre convinzioni. Ci mette a disposizioni nuove lenti attraverso le quali osservare le dinamiche sociali e politiche dei luoghi in cui siamo. Le nazioni europee che tanto si auto-elogiano per essere alfieri della democrazia, improvvisamente messe a nudo, scoprono gli scheletri nell’armadio, svelando lati paralleli caratterizzati da abusi di potere e discriminazioni sempre più feroci. Razzismo, sessismo, patriarcato, sono alcuni dei mezzi usati da un sistema improntato sullo sfruttamento al fine di dividere le popolazioni. Tutto ciò sta diventando sempre più comune: ora, le morti nel Mediterraneo, o ai confini dell’est Europa, la violenta repressione delle voci dissidenti (dalla Francia all’Italia, dalla Serbia alla Spagna), delle individualità che si esprimono come entità politicamente attive e partecipative in una scena politica ottenebrata dalla fredda gestione semi manageriale della cosa pubblica, fanno riflettere sul tipo di società che si sta creando, su ciò che diventa lentamente accettabile. Ci fanno chiedere a noi stessi: se oggi è possibile che tutto ciò accada, cosa sarà possibile domani? La macchina della discriminazione è sempre in movimento, ed attua le sue mosse a seconda del profitto (del singolo e basato su una concorrenza sfrenata sulle risorse disponibili), il quale è innalzato a livello egemonico.
[Report 1.1]
ITALIANO
Tipo di evento: Respingimento, violenza fisica, costretti a spogliarsi, rapina e distruzione di oggetti personali.
Luogo: Il gruppo è stato fermato attorno a Pašin Potok (Croazia) e respinto nell’area di Buhača (Croazia)
Vittime: Numero di vittime: 11, Intervista condotta in Francese con traduttore; Paese d’origine: Algeria e Siria; Età: 20-28; Minori: no; Sesso: M
Data e ora: Il gruppo ha iniziato a camminare la notte del 16/02/2019 da Velika Kladuša (Bosnia Erzegovina) verso il confine Croato vicino Pašin Potok (Cr). Sono stati presto fermati e respinti in Bosnia Erzegovina dalle parti di Buhača (Cr).
Dettagli: Fogli firmati: no; Impronte digitali prese: no; Foto prese: no; Traduttori presenti: no; Detenzione: no; Asilo: no
Descrizione dell’incidente:
Il gruppo di undici uomini (1 proveniente dall’Algeria e 10 dalla Siria) hanno iniziato a camminare la sera del 16 febbraio 2019 da Velika Kladuša verso il confine croato. Hanno attraversato il confine la notte vicino Pašin Potok (Cr), attraversando un piccolo ruscello. Durante l’attraversamento hanno visto le luci di una macchina. Il gruppo ha iniziato a correre fino alla casa più vicina che vedevano e hanno cercato di nascondersi dalla macchina. La macchina si è avvicinata e ha spento le luci dei fari, avvicinandosi lentamente alla casa. Il gruppo ha cercato di scappare ma era ormai troppo tardi. Nel van vi erano all’incirca 6/8 poliziotti maschi e una poliziotta. Gli ufficiali di polizia sono velocemente scesi dalla macchina e hanno circondato il gruppo. Successivamente li hanno fatti mettere contro il muro della casa.
L’intervistato ricorda di aver pensato che alcuni poliziotti avessero bevuto alcool: “Sentimmo la puzza di birra”.
Subito dopo, alcuni poliziotti sono diventati violenti. L’intervistato ha descritto come lui stesso ed un altro membro del gruppo siano stati picchiati con calci e pugni dagli ufficiali di polizia nel mentre che questi li insultavano con parole del tipo “Pezzi di merda” e “Vaffanculo ai musulmani”. L’ufficiale donna è stata descritta dall’intervistato come “una donna pazza” la quale rideva nel mentre che la violenza nevica perpetrata. Tutti i poliziotti indossavano la stessa uniforme – blu scuro, scarponi neri, guanti neri con rinforzi di plastica sulle nocche e cappelli neri. Due poliziotti indossavano dei passamontagna che coprivano loro la faccia, fino all’altezza del naso. L’intervistato ricorda di come i due ufficiali “mascherai” avevano modi simili per esprimere la loro violenza, più intensa degli altri: “Il loro modo di picchiare era più violento degli altri”.
L’intervistato ha descritto inoltre un altro componente del gruppo, più anziano, calvo e che sembrava essere il capo del gruppo.
Durante questa scena di violenza un poliziotto ha forzato un membro del gruppo a svestirsi completamente. Completamente nudo, gli è stato dato un calcio nei genitali. A lui, come agli altri, sono arrivati colpi di bastoni di legno.
“Ci hanno gonfiato come palloni”, “Ci hanno picchiato con odio”.
Un giovane ufficiale di polizia è intervenuto e ha tentato di calmare la situazione, dicendo ad altri poliziotti “dobro, dobro”. L’intervistato ha interpretato la situazione come se il poliziotto volesse dire agli altri “basta così”. Uno dei suoi colleghi gli ha risposto avvicinando il pugno alla faccia del giovane.
Le violenze sono durate diversi minuti. Quando un altro van della polizia è arrivato, i poliziotti si sono fermati, mentre altri 6-8 poliziotti si sono disposti accanto a loro. Tutti i poliziotti appena arrivati erano uomini. Questi hanno perquisito il gruppo in maniera molto superficiale.
“Ci hanno perquisito troppo velocemente per poter veramente trovare qualcosa”
Il secondo gruppo di poliziotti ha chiesto a tutti di cedere i telefoni e power banks. Hanno poi rotto i cellulari con il retro delle torce e messi insieme alle power banks in una sacca. Dopo di che, il secondo gruppo di poliziotti ha diretto i fermati in un van dove sono dovuti entrare. Il van è stato descritto come un VW trasportatore senza finestre, con il retro del van separato dalla parte anteriore da una lastra di metallo. Nel mentre che stavano dentro la macchina, i poliziotti fuori hanno chiamato due volte una persona da dentro per ripulire la spazzatura che era fuori per terra.
Infine, la macchina ha iniziato a muoversi. Il van ha viaggiato solo per pochi minuti per poi fermarsi in un posto isolato in Buhača (BE) lungo il confine bosniaco. Il poliziotto “buono”, colui che era intervenuto durante il pestaggio, ha aperto la porta, dicendo: “Non abbiate paura. Potete uscire, andate verso il confine.”
Hanno iniziato a camminare con lui quando un componente del gruppo ha realizzato di aver dimenticato degli oggetti personali sul van. L’ufficiale gli ha permesso di andare a riprendersi la sua roba. Quando questo è tornato verso il van, gli altri poliziotti lo hanno picchiato nuovamente. Successivamente tutto il gruppo ha iniziato a correre verso il confine. Sono arrivati davanti ad un fiume, con l’acqua alta fino alle ginocchia, e hanno attraversato li il confine bosniaco.
Durante il respingimento al confine vi erano tra i 7 e i 10 poliziotti. Sono stati descritti come essere un misto tra il primo ed il secondo gruppo di poliziotti. La poliziotta era presente al momento del respingimento. Nessun membro del gruppo ha ricevuto indietro i propri cellulari.
ENGLISH
2 interviewees – Algeria and Syria – Group of 11, Unrecorded interview conducted on 4/3/19 in Velika Kladuša
Type of incident: PUSH-BACK – PHYSICAL VIOLENCE – FORCED TO UNDRESS – THEFT – DESTRUCTION OF PERSONAL ITEMS
Location: The group got apprehended around Pašin Potok (HR) and pushed back in the area of Buhača (HR)
Victimes: Number of victims: 11; Interview conducted in French with a translator; Country of origin: Algeria and Syria; Age: 20 – 28 years; Minors: no; Sex: male
Date and time: The group started walking in the evening of 16/2/19 from Velika Kladuša (BiH) to the border of Croatia near Pašin Potok (HR). They were soon apprehended and were pushed-back to BiH a short time later near Buhača (HR).
Details: Paper signed: no; Fingerprint taken: no; Pictures taken: no; Translator present : No; Detention : No; Asylum: no
The group of eleven men (one from Algeria and ten from Syria) started walking in the evening of February 16th from Velika Kladuša to the border of Croatia. They crossed the border at night time in Pašin Potok (HR) during which time they had to cross a small, tiny brook. During the crossing they saw lights from a car. The group ran to the next house they saw and tried to hide from the car. The car came closer and turned off the lights and drove slowly towards the house. The group was trying to escape but they were too late. In the van were six to eight
male police officers and one female police officer. The officers exited the van and quickly surrounded the group. The officers made them stand against the wall of the house. The respondent recalled thinking that some of the officers had been previously been drinking alcohol . “We smell that they drank beer.” Shortly after this point, several of the officers became violent towards the group. The respondent described him and his other group-members as being punched and kicked by the officers during which time they were also insulted with words like “Motherfucker” and “Fuck to Muslim”. The female present within the group of police officers was described by the respondent as “a crazy woman” who laughed through the procedure of violence. All the officers were wearing the same uniforms – dark blue, heavy black boots, black gloves with a plastic part over the fist bones and black hats. Two of the officers, however, wore ski masks covering their faces. The masks covered only half of their faces, up to the nose. The respondent recalled that the manner in which these two “masked officers” communicated violence were similar and filled with more emotion: “Their way of beating was more violent compared to the others.”
The respondent also described an older, bald-headed, man as the leader of the group officers, referring to him as “the chief”.
During the one police officer forced one guy of the group to totally undress himself. Naked standing there he got kicked in his genitals. They threw wooden sticks against them as well. “They kicked us like a ball.” “They beat us with hate.” One younger police officer entered into the situation and attempted to calm things down, saying saying to some of the other officers “dobro, dobro”. The interviewee described it as if
the younger officer was trying say to the others “It’s enough now.”. One of his colleagues answered him by pointing a fist into his face.
The violence lasted for several minutes. As another police van turned up, the officers stopped and soon after six to eight other police officers were standing beside them. Those police officers were all men. They searched the group-members, but in a careless way.
“They searched us too quick to really find something.” The second police group also asked everyone to hand over their phones and power banks. They broke the phones with their black flashlights and put them together with the power banks in a bag. After this, the second police group walked everyone to one van which the group-members had to enter. The van was described as a VW-Transporter which had no windows, with the back separated from the front by metal. While sitting in the van, the police officers were twice called one person out of the car and made them collect the rubbish around the van.
Finally, the van started to move. They drove for only a few minutes to a secluded location in Buhača (HR) along the border of BiH. The “good” policeman, the one who intervened the beating, opened the door. He said “Don’t be scared. You can go out, go to the border.” They walked with him a few minutes as one of the group recognized that he forgot something in the car. The officer let him go back to the van to grab his belongings. As the man went back, the other officers walked up to him and beat him again. Everyone now started to run towards the border. They arrived to a brook where the water reached up to their knees and crossed there into BiH.
During the push-back there were around seven to ten police officers around. They were described as being mixed from the two previous groups of officers. The single female police officer was present at the push back. None of the group-members received their phones back.