“The theses of dissident Muslims are of great significance. Why should they abandon the religion Islam to the AKP?”
[Deniz Özgür, attivista del movimento per il diritto alla città, dal documentario Turkey on the Edge di İmre Azem, 2017]

“Le donne sono forti unite, non da sole” (“Tek başına olmaz – kadınlar birlikte güçlü“) è uno degli slogan adottati da donne e organizzazioni femministe in Turchia per la manifestazione dell’8 marzo 2017. La campagna femminista di sensibilizzazione mediatica #MeToo ne ha provato la veridicità, mostrando che solo insieme è possibile sublimare la paura collettiva della violenza di genere in potenza d’azione necessaria per liberarsene. Comincio dunque condividendo un pensiero personale che, proprio poiché tale, è politico, nonostante ci sia ancora chi sembra non averlo capito così a fondo.

Quando vivevo a Beyoğlu mi capitava spesso di sentirmi esposta al pericolo anche prima che le bombe scoppiassero pure a Istanbul. Chi conosce un po’ Istanbul conosce anche Beyoğlu. Chi invece non la conosce magari non sa che è un distretto centrale e si trova nella parte della metropoli che molti continuano a chiamare “europea” non solo per motivi topografici ma anche storico-culturali e politico-economici. Dati però gli ultimi sviluppi penso sia più appropriato chiamarlo semplicemente uno dei distretti che si sviluppano a sinistra del Bosforo. Storicamente Beyoğlu non è solo un centro turistico e commerciale ma anche il centro culturale e politico in cui scoppiò la rivolta di Gezi nel 2013. Beyoğlu è anche la zona dove ho vissuto tante esperienze, alcune piacevoli e altre spiacevoli.

Da mesi mi chiedo se sono diventata più fifona e paranoica del solito. Magari la memoria m’inganna. Ricordo bene che anche prima della dichiarazione dello stato di emergenza avevo paura a camminare da sola per strada di notte, ma ora è diventata così intensa che farei meglio a chiamarla terrore. Ho davvero bisogno di ripercorrere cosa ci è successo per capire a fondo perché a Beyoğlu mi sento meno sicura di quando cammino per i quartieri di altre città. A volte mi sono chiesta se ho più paura perché sono più straniera di prima. Non ci vivo più a Istanbul, sono una di quelle che in qualche modo l’ha abbandonata al corso degli eventi che, tutt’altro che un destino, sono il risultato di piani ben precisi.

Il racconto della mia esperienza personale in strada non è né vittimismo né vittimizzazione di chiunque non voglia farsi trattare da vittima. Anzi, scriveva James Baldwin, la vittima che è capace di articolare la propria situazione smette di essere vittima e può diventare una minaccia per l’oppressore. Il mio vissuto è solo uno tra gli innumerevoli esempi da contestualizzare con dei dati reali alla mano, senza i quali sarebbe più difficile spiegare a chi non conosce Beyoğlu perché è da mesi che mi sento più insicura. La ragione principale è che attorno a me non ci sono più le stesse donne che c’erano prima. Percepisco la mancanza sia di quelle già morte ammazzate sia di quelle imprigionate in carcere o in casa.

In un breve messaggio rilasciato dal carcere nel novembre 2016 l’ex-copresidente dell’HDP Figen Yüksekdağ dichiarò che l’odio e l’aggressione del governo sono radicati nella paura del nostro desiderio di libertà. Come tantissime persone, anche lei è in prigione con l’accusa di terrorismo e incitamento alla violenza. Questi sono termini che, solo a nominarli, mettono paura ad altrettante persone, me compresa. Sono però convinta che capire le cause passate e future della paura costituisca un passo imprescindibile per liberarsene. Penso perciò che sia necessario capire come le politiche del governo attuale in Turchia incitano alla violenza di genere allo scopo di incutere paura. La paura è un affetto politico imprescindibile per la repressione di ogni forma di dissenso e, quando diventa estrema e si trasforma in terrore, determina spesso l’impulso alla fuga.

A Beyoğlu avevo paura a camminare da sola di notte anche prima della dichiarazione dello stato d’emergenza.

Non sono sola. Non solo io penso che le città all’alba abbiano un non so ché di speciale che se cominciassimo a provare a definirlo svanirebbe già prima che stacchi la metà dei tanti spazzini del comune che fanno il turno di notte. I çöpcu invece non staccano mai perché non ce l’hanno neanche un orario di lavoro stabile, non sono solo uomini, sono spesso minori ma anche donne anziane e, proprio come i cartoneros di Buenos Aires, raccolgono spazzatura per strada, comprese le nostre bottiglie vuote di acqua o di birra.

A Istanbul adoravo girovagare da sola per le strade di Beyoğlu sia il giorno sia la notte. Il verbo adorare ha un significato piuttosto religioso quindi uso il passato. Non sono la sola che da molto tempo ormai non resta più a casa a pregare, come invece vorrebbero il governo locale e chi lo supporta. Non sono neanche la sola a non frequentare solo gente che non ha mai pregato, ma uso lo stesso il passato anche perché ora ho più paura rispetto a prima della dichiarazione dello stato di emergenza. Ho paura perché percepisco e vivo gli effetti di un processo di strumentalizzazione e legittimazione istituzionale tale che la violenza di genere è talmente tollerata come tradizione culturale che chi la esercita sembra quasi volerne reclamare l’intollerabile diritto alla legalizzazione, proprio come si trattasse di un buon bicchiere di vino in compagnia.

Anche prima della dichiarazione dello stato di emergenza la frustrazione era già tanta e condivisa. L’ho provata io quando non sono riuscita a schiaffeggiare un tizio che, passando, mi aveva schiaffeggiato il sedere o un altro tipo che mi ha toccato il seno mentre stavo cercando in borsa la sigaretta che mi aveva chiesto. Almeno quei due non mi hanno riso in faccia come invece ha fatto un poliziotto che mi ha perquisito lo zaino il primo maggio mentre cercavo di superare le barricate in zona Taksim per poter tornare a casa. Gli sembrava divertente che una straniera fumasse le Samsun 216, sigarette che costano meno di altre e non sono poi cosi male. Provava frustrazione e rabbia anche un’amica mia prima che decidesse di lasciare il quartiere. Si lamentava spesso perché era costretta a subire le molestie quasi tutte le volte che tornava a casa passando da Tarlabaşı Bulvarı, un viale che funge da frontiera tra la via commerciale principale della zona (corso Istiklal) e Tarlabaşı, un quartiere povero e violento storicamente abitato da cosiddetti “stranieri”. Al momento ci sono migranti curdi e turchi, economici e non, studenti Erasmus tedeschi e global professional italiani, rifugiati siriani e nigeriani. Alla mia amica fischiavano perché pensavano fosse una sex-worker.

Chiariamoci subito onde evitare incomprensioni. Sono dell’opinione che ogni sex worker di Beyoğlu a Istanbul sia una lavoratrice o un lavoratore a tutti gli effetti, tanto quanto tutte le casalinghe di una qualsiasi Voghera. So benissimo che tant@ sono ancora oggetto di violenze sessuali, fisiche, psicologiche ed economiche fino al punto di morire ammazzat@. Sostengo chi lotta contro l’istigazione alla prostituzione perché condivido in pieno la lotta di chi reclama la libertà di decidere autonomamente cosa fare del proprio corpo. In Turchia le organizzazioni femministe e LGBTI+ attive sono molte: Sınır Tanımayan Kadınlar (Women Without Borders) offre solidarietà alle donne migranti di Istanbul, Filmmor Kadın Kooperatifi organizza un festival di cinema, KADAV (Kadınlarla Dayanışma Vakfı) è una fondazione istituita allo scopo di fornire solidarietà a donne migranti o meno che subiscono violenza e discriminazione, Barış için Kadın Girişimi è il nome di un’iniziativa di donne per la pace, Pembe Hayat, Kaos GL e Lambaistanbul sono associazioni LGBTI+. Sul blog del collettivo femminista Amargi [⇒ qui] si possono trovare informazioni dettagliate sui movimenti femministi in Turchia, dove la violenza era già tanta anche prima degli eventi del 15 luglio 2016.

Anche prima della dichiarazione dello stato d’emergenza a Beyoğlu ce n’erano già pure troppe di pistole. Girano di notte nella cintura dei pantaloni di qualche passante e spesso passano inosservate. Troppe volte le sentivo sparare e ogni volta speravo che si trattasse solo di un colpo in aria. Alcune sono le pistole di quelli della mafia locale, altre appartengono ai tanti poliziotti in borghese che dopo Gezi si sono aggiunti a quelli che c’erano già prima. Chissà se hanno una pistola anche i simitçi, i venditori di simit? Chi a Beyoğlu ci ha vissuto lo sa che tra tutti quelli che vendono ciambelle salate ricoperte di semi di sesamo ce ne sono alcuni che fanno la spia alla polizia. Qualche anno fa si mascherarono perfino da Babbi Natale per passare inosservati a Taksim, una zona che tradizionalmente per le donne a capodanno diventa più pericolosa di tutti gli altri 364 giorni dell’anno. Ad ogni modo non era la notte di capodanno la notte in cui sono mi sono sentita più particolarmente esposta al pericolo. Vivevo ancora a Beyoğlu, a un paio di anni di distanza dalla dichiarazione che avrebbe dato il via a una serie di estensioni dello stato di emergenza. Quella sera ero con un’amica all’altezza di Balo Sokak, una strada che connette corso Istiklal e viale Tarlabaşı.

Camminavamo quando ci siamo accorte di una giovane donna che piangeva. Aveva le braccia bloccate dal padre da un lato e dal fratello dall’altro. Intorno c’era almeno una ventina di uomini che guardavano. Alla vista dell’ennesimo maltrattamento di una donna in strada la mia amica ed io intervenimmo. Qualcuno intanto aveva chiamato la polizia. Ci trovavamo in un parcheggio di una zona che, prima della dichiarazione dello stato d’emergenza, era spesso affollata da chi ci andava ancora per divertirsi in uno dei tanti locali. Ora, dopo la dichiarazione dello stato di emergenza, all’angolo di quella strada c’è molta meno gente e c’è sempre anche un posto di blocco fisso delle forze di polizia. Quella sera, invece, il posto di blocco ancora non c’era e la squadra polizia che intervenne veniva dal commissariato di Beyoğlu, che già allora si trovava a poche centinaia di metri da quel parcheggio.

Né per la mia amica né per me si trattava della prima volta. C’eravamo già infilate in altre risse in precedenza ma io quella volta ho avuto davvero paura. Una volta arrivata, la polizia ha invitato la ragazza, il padre e il fratello a discutere in un caffè di fronte al parcheggio, uno di quei caffè dove solo uomini giocano a carte o a tavla (backgammon), un posto dove non sono mai entrata mai neanche io che invece mi sono seduta spesso a prendere un çay (tè) e fumare una sigaretta in posti dove di solito le donne non entrano. La mia amica ed io abbiamo aspettato fuori ma non ce ne siamo andate. La ragazza fu la prima a uscire dal caffè. All’incrociarsi dei nostri sguardi si è messa a correre in direzione dell’angolo del viale dove adesso staziona fissa la polizia. La mia amica ed io l’abbiamo seguita, la polizia ci è venuta dietro e ci ha separato dal padre e da alcuni degli uomini che ovviamente erano già corsi dietro a noi tre. Abbiamo chiamato un’amica di Mor Çatı (Tetto Viola), un’organizzazione femminista che fu fondata nel 1990 per fornire supporto e protezione a donne che subiscono violenza domestica. Mentre loro parlavano, mi sono voltata e ho incrociato lo sguardo di suo padre. Ho avuto paura che mi volesse uccidere e per qualche settimana non ho avuto il coraggio di passare da quelle parti, dove invece ero solita passare quasi ogni giorno per raggiungere una delle mie strade preferite della zona.

A Istanbul mi è capitato ancora di sentirmi in pericolo anche dopo la dichiarazione dello stato di emergenza ma ormai non ci vivo più anche per via della stanchezza dovuta all’eccessiva quantità di violenza vissuta per strada. Non ce la facevo veramente più a pensare che prima o poi uno mi avrebbe potuto puntare e assaltare. Molte volte mi sono preparata psicologicamente a questo tipo di evenienza e, indipendentemente da dove viva, la domanda che tuttora mi assilla è: come reagirei se qualcuno tentasse di stuprarmi? A lezioni di autodifesa ho partecipato soltanto una volta e ammetto che più che tecniche e mosse mi ricordo del piacevole incontro con una signora velata. Fare insieme gli esercizi per sviluppare fiducia reciproca fu divertente ma non fu sufficiente a smettere di pensare ad alcune donne che, giustamente, girano con lo spray al peperoncino.

Ci sono donne che pensano che possa essere utile anche girare con un coltello. Tempo fa ne discutemmo con un’amica ed entrambe concordammo di evitare di girare con un’arma in tasca perché avremmo paura di usarla. Ci sono donne che imbracciano fucili, ma ci sono anche donne che vorrebbero limitare l’uso della violenza, senza per questo criticare chi ne fa uso per legittima difesa di sé e degli altri. Penso che il loro diritto all’obiezione di coscienza vada riconosciuto, soprattutto in Turchia, dove non è riconosciuto neanche a tutti gli uomini tra i 20 e i 41 anni obbligati ancora al servizio militare, a meno che abbiano o trovino 18,000 Lire Turche per pagare la tassa d’esenzione. In questo caso l’obiezione di coscienza è una forma di resistenza che assume significati molto diversi dall’obiezione di coscienza che viene imposta alle donne che vorrebbero poter esercitare il loro legittimo diritto ad interrompere una gravidanza non desiderata. In questo caso si tratta di una tra le diverse forme di protesta contro la guerra.

La violenza è generata dalla violenza ma nel ribadire una simile ovvietà non voglio giustificare e de-politicizzare la violenza come se si trattasse solo di un problema di psicologia e psichiatria sociale. Ormai capisco bene il significato della famosa dichiarazione rilasciata da Angela Davis nel 1972 in un’intervista nella prigione di stato della California (⇒ qui). Il giornalista le chiese se si arriva a produrre momenti rivoluzionari attraverso la violenza. Sorridendogli, la Davis rispose che è problematico porre la domanda in questi termini, perché è la violenza strutturale su cui si fonda la nostra società a generare reazioni violente di persone che, nonostante subiscano violenza offensiva e strutturale da sempre, sono chiamate a giustificarsi. In fondo si tratta dello stesso tipo di violenza che causa anche l’odio di classe. Il documentario sulla Davis – The Black Power Mixtape (2011) – lo guardai in un cinema di Madrid qualche anno fa. Andai sola al cinema ed è un’esperienza che ricordo molto bene perché ero anche l’unica persona in sala quella sera. Non ebbi motivo di avere paura, perché i parlamentari spagnoli non dichiaravano che i firmatari di un appello per la pace non dovrebbero avere diritto alla vita, come succede invece in Turchia dove si sta tentando di rilegalizzare la pena di morte.

La mia riluttanza al pensiero di dover ricorrere all’omicidio per autodifesa è un problema etico che è sicuramente eredità di un’educazione cattolica di cui penso di essermi ormai abbastanza sbarazzata. Nonostante sia consapevole della differenza tra la violenza offensiva e difensiva, e anziché pensare che uno stupratore se la meriterebbe, ho anche imparato ad aggiungere Caino alla lista di persone che preferirei non dover uccidere per poter vivere. Ma il punto è che non si tratta solo di un problema etico ma anche psicologico. Io ad esempio non vorrei mai affrontare il trauma aggiuntivo di un omicidio per legittima difesa. Piuttosto, preferisco capire come poter prevenire sia gli stupri sia gli omicidi. Mi conosco abbastanza da sapere che la violenza estrema mi farebbe comunque star male, pure se un verdetto del tribunale riconoscesse il diritto alla legittima difesa, come nel caso di Çilem Doğan, una donna che in Turchia è diventata simbolo della lotta contro la violenza di genere e di classe. L’8 luglio 2015 Çilem Doğan uccise il marito Hasan Karabulut con la stessa pistola con cui lui, anche quel giorno, la minacciava per istigarla alla prostituzione. La libertà di scegliere i lavori che non vogliamo fare è uno dei significati della libertà alla quale ogni essere umano ha diritto. È un diritto spesso negato con violenza come mostrano dati che forniscono informazioni utili per contestualizzare l’eliminazione strategica di femministe da posizioni lavorative imprescindibili per la lotta alla violenza di genere.

In Turchia il processo in corso è palese e si è anche intensificato con la dichiarazione dello stato di emergenza. Partiamo ad esempio da una giornalista ma omettendone il nome perché, in questo tipo di contributo, non è poi così importante. Nel Novembre 2017 è stata di nuovo fermata con l’accusa di propaganda terroristica su Facebook e questa volta è stata rilasciata quasi subito, a differenza di quella volta che, qualche anno fa, si fece più di un anno di galera. Moltissimi sono i giornalisti che continuano a subire gli effetti delle famose purghe ma lei è una che non ho visto solo per foto. Non la conosco personalmente ma l’ho sempre vista in prima linea a ogni tipo di manifestazione. Non ci ho mai parlato ma ogni volta che la incontravo per caso per strada mi salutava sempre con un’occhiata intensa, un sorriso appena accennato e il capo un poco inclinato, gesti fondamentali per chi ha voglia di sentirsi meno straniera in mezzo alla folla di personaggi che continuano ad affollare corso Istiklal ogni giorno e “nonostante tutto”. “Her şeye rağmen barış” significa “pace nonostante tutto”. È uno degli slogan usati dopo la ripresa del conflitto armato dell’HDP, il partito che lo scorso settembre ha pubblicato un rapporto sulle violazioni dei diritti delle donne in Turchia. Il rapporto contiene dati accurati su cui vorrei ragionare nelle prossime pagine.

L’impatto dello stato di emergenza sulle donne

Il Global Gender Gap Index (2016) si basa su dati che indicano l’assenza di rappresentanti donne all’interno delle istituzioni formali degli stati, la suddivisione di lavori domestici e cura della prole, il comportamento negativo nei confronti della sessualità della donna, la maggiore probabilità di essere abusate o di apparire nei media e nella cultura popolare in modi molto limitati. Dai dati dell’indice emergono due fatti. Uno, è oggettivo che il mondo sia diviso in organizzazioni statali che fanno riferimento a culture più patriarcali di altre ma non per questo valutabili a priori come inferiori. Due, in ogni parte del mondo c’è da fare di più per superare il gender gap, perché nessuno è escluso dalla lista. Possiamo solo piazzarci approssimativamente da qualche parte nello spettro che va dall’Islanda allo Yemen, dal primo all’ultimo posto, scrive la giornalista Suzanne Moore in un articolo pubblicato sul sito di The Guardian il 18 ottobre 2017 e intitolato “What connects rape in war, domestic violence and sexual harassment? Patriarchy”. Nell’indice l’Italia si piazza al cinquantesimo posto mentre la Turchia arriva solo al centotrentesimo, a sole quattordici posizioni di distanza dallo Yemen.

I dati presentati dal network di comunicazione indipendente Bianet costituiscono uno strumento per capire meglio quelli del Global Gender Gap e per renderci conto delle dimensioni della situazione in Turchia. Solo nei primi mesi del 2017, 170 donne e ragazze sono state uccise, 50 sono state stuprate, 126 molestate, 215 abusate sessualmente e 237 sottoposte a violenza. Questi sono i dati riportati anche nel rapporto sulle violazioni dei diritti delle donne in Turchia pubblicato lo scorso settembre dall’HDP. Dal rapporto emerge che in Turchia, specialmente negli ultimi anni, disuguaglianza e discriminazione sono aumentate e che i risultati ottenuti nel campo dei diritti delle donne sono in una situazione di grave pericolo. In seguito alla dichiarazione dello stato d’emergenza la vita delle donne è influenzata negativamente sono solo dalle misure repressive ma anche da discorsi sessisti e politiche conservatrici che alimentano la perpetrazione e la diffusione di violenza.

Negli ultimi anni vari sono i modi usati per proibire o impedire gli eventi organizzati per l’8 marzo, per il Gay Pride e per il Trans Pride. Recentemente le autorità locali hanno vietato un festival di cinema queer in lingua tedesca organizzato dall’associazione Pembe Hayat e programmato per il 16 e 17 novembre 2017 ad Ankara. In Turchia l’omofobia è all’ordine del giorno e secondo le autorità il contenuto dei film previsti avrebbe incitato al rancore e all’ostilità, incoraggiando gruppi o individui a compiere atti di odio e violenza, compresi attacchi terroristici. Gli organizzatori hanno reagito dichiarando che insinuare che un evento del genere possa essere la causa di attacchi terroristici serve solo a legittimare le persone e le istituzioni che già incitano all’odio contro le persone LGBTI+, mettendone ancora più a rischio la vita perché altri sono convinti che la loro esistenza sia una minaccia alla propria. Pembe Hayat ha ribadito che alle autorità locali spetterebbe il compito di garantire lo svolgimento in sicurezza di manifestazioni ed eventi, facendo notare che la decisione costituisce una privazione dei diritti costituzionali, dato che l’omosessualità non costituisce reato in Turchia. Almeno per ora. La criminalizzazione dell’omosessualità si sta intensificando e le autorità di Ankara sembrano seguire l’esempio dell’Egitto, mostrando che la risposta al dissenso è l’illegalizzazione.

Con un recente ordine le autorità di Ankara hanno vietato per un periodo indefinito di tempo ogni evento organizzato da gruppi LGBTI+, eventi artistici compresi. Le organizzazioni LGBTI+ hanno reagito dichiarando che le misure repressive sono illegali e discriminatorie. Le autorità di Ankara hanno dichiarato che il divieto è stato imposto per proteggere “la sicurezza pubblica”, perché gli eventi organizzati da LGBTI+ causano conflitto e mettono in pericolo la salute e la moralità. Agli eventi di solidarietà è seguita l’estensione del divieto, perché in Turchia la prevenzione rischia di non essere più sufficiente a impedire che un giorno o l’altro venga proposta una legge per rendere illegale l’omosessualità. Prevenzione a breve e lungo termine è anche quella che fanno gli organizzatori di workshop sul gender dedicati ai bambini, protagonisti attivi di Uluslararası Çocuk Diyarı Film Festivali, un recente festival del cinema organizzato dall’associazione Sinetopya di Ankara. Noi lo sappiamo che gli organizzatori di eventi simili non sono quelli che incitano all’odio perché le notizie le sappiamo filtrare attraverso la realtà dei dati. Letto insieme ai dati forniti da Bianet, il rapporto dell’HDP è utile a capire come lo stato di emergenza agevola e aggrava gli effetti delle politiche sessiste del governo.

Secondo i dati del rapporto, almeno il 23% (25.523) dei 110.971 dipendenti pubblici e un quinto dei 4811 accademici licenziati con i decreti legge dello stato di emergenza sono donne. Sono state anche chiuse 11 associazioni di donne e un’associazione per i diritti dei minori. Sono state arrestate attiviste per la difesa dei diritti umani e delle donne in particolare. Sono state arrestate almeno 30 giornaliste, 35 sindache e 864 donne tra giudici e procuratori. Alcune tra le donne detenute o arrestate hanno dichiarato di essere state torturate e maltrattate. La lista purtroppo avrebbe bisogno di essere aggiornata continuamente perché troppo poche sono le persone che finora sono state rilasciate.
In molte province del sudest della Turchia la detenzione di sindache e sindaci regolarmente eletti e sostituti da commissari nominati dal governo costituisce un gravissimo problema non solo per il partito che lotta per il diritto all’autodeterminazione dei curdi in Turchia. Quello che è in gioco è proprio la definizione stessa di libertà e di popolo, concetti e diritti che molti ancora associano alla chiusura dei confini nazionali e culturali. Osservato da una prospettiva globale, il rimpiazzo delle sindache in territorio turco costituisce un grave attacco a tutte le donne che in tutto il mondo lottano per una maggiore partecipazione nelle amministrazioni locali. A essere sotto attacco non sono solo le donne curde ma tutte le donne, comprese quelle che non sono ancora diventate femministe.
Dal rapporto emerge che il quadro è simile in ambito giudiziario e nell’associazionismo. La repressione in atto ostacola non solo la prevenzione della violenza di genere ma anche il supporto, la protezione e la difesa di donne che hanno già trovato il coraggio di denunciare la catena di terrore, dolore, vergogna e frustrazione che le rendeva prigioniere di segreti domestici o ostaggi di abusi professionali. Dai dati emerge chiaramente che in Turchia l’associazionismo, il giornalismo, l’accademia, l’amministrazione pubblica e la giustizia sono ambiti simultaneamente colpiti dall’inasprimento delle violenza sistemica del patriarcato.
Solo il 14,29% dei membri della Grande Assemblea Nazionale (il Parlamento) sono donne. Questo dato tuttavia non dà conto dello spazio che hanno le donne all’interno dell’HDP, in cui la rappresentanza delle donne sale al 36,36%. Al momento però 5 su 9 parlamentari del Partito Democratico del Popolo che si trovano in carcere sono donne. Ora, indipendentemente dal nostro parere personale sulla rappresentatività parlamentare e su possibili meccanismi decisionali alternativi, non possiamo restare in silenzio quando a essere in carcere con l’accusa di fomentare odio e seminare terrore sono donne che reclamano l’uguaglianza di genere anche per quelle donne che sono ancora troppo terrorizzate dai loro mariti, professori, dèi, parenti, padri, datori di lavoro e tiranni per poterlo fare.

Anche per queste donne la promozione di politiche fondate sull’uguaglianza di genere è imprescindibile per sensibilizzare sulla questione, per migliorare le condizioni lavorative delle donne, per rafforzarne la presenza all’interno delle istituzioni, per promuoverne l’istruzione e per porre fine alla violenza di genere, un genere di violenza che diventa brutale con l’intensificarsi dei conflitti armati in corso. La giornalista del Guardian Suzanne Moore ha scritto che è il patriarcato che connette le molestie sessuali, la violenza domestica e lo stupro in guerra e infatti il rapporto dell’HDP richiama la nostra attenzione anche sulle violazioni dei diritti delle donne e dei bambini perpetrate durante periodi di coprifuoco: corpi di donne morte ammazzate esposti per strada per giorni, famiglie a cui è stato impedito di partecipare alle cerimonie funebri, scritte sessiste che hanno riempito muri delle case e dei loro quartieri. A questo proposito mi chiedo prima di tutto che ne pensano le donne che fanno parte delle forze di polizia. Vorrei chiarire perciò chi è che fomenta l’odio e legittima queste pratiche. Le politiche delle donne incarcerate per propaganda terroristica o le politiche del governo attuale? Se ogni dissenso è messo al bando come propaganda terrorista è ovvio che nel frattempo la retorica sessista dei leader religiosi e dei sostenitori del governo conquisti ancora maggiore spazio mediatico e dunque anche politico.

Il diritto alla libertà di espressione del dissenso stuprato dal rafforzamento di politiche sessiste e disumane

Molti dei diritti che le donne erano riuscite a conquistare negli ultimi anni sono minacciati da progetti di legge preparati dal governo e, in particolare, da una commissione parlamentare istituita per prevenire divorzi e apportare altri cambi cruciali alla legislazione vigente. Come riportato nel rapporto di cui sopra, in base alla legge n. 6284 sulla protezione della famiglia e la prevenzione della violenza contro le donne, adesso non sono necessarie prove o documenti per prendere decisioni sulle misure di protezione in caso di violenza di genere. La commissione parlamentare ha invece richiesto di modificare la norma, nonostante chiunque sappia che documentare violenze o addirittura minacce di violenza non è sempre facile, soprattutto quando spesso alla parola dell’uomo si dà ancora più credibilità che alla parola delle donna. Inoltre, secondo la commissione, persone colpevoli di violenza e allontanate dalle loro case per ordinanza del tribunale potrebbero continuare ad avere rapporti con i figli. È chiaro dunque che certe misure costituirebbero un pericolo anche per i minori.

I tentativi di modifica riguardano anche la legislazione che regola il reato di abuso sui minori, compresi i minori stranieri ai quali non è riconosciuto nemmeno il diritto all’asilo politico come rifugiati e che, in quanto tali, costituiscono una delle categorie più vulnerabili. In Turchia l’abuso di minori è un problema urgentissimo perché ci sono minori che non fanno ancora notizia come hanno fatto invece notizia le decine di bambini che hanno subito violenze sessuali in un dormitorio affiliato a una fondazione legata al governo. Nonostante la realtà dei fatti, è stata proposta una modifica del codice penale che in pratica avrebbe concesso amnistia per il reato di abuso sui minori, se solo la reazione dell’opinione pubblica e le manifestazioni delle organizzazioni femministe non fossero riuscite a costringere il governo a ritirarla.

Se la proposta fosse passata, uomini che abusano sessualmente ragazze sotto i 18 anni avrebbero potuto evitare il procedimento penale semplicemente attraverso un matrimonio riparatore nei casi in cui gli uomini in questione avessero agito senza l’uso della forza, minaccia o altro tipo di restrizione al consenso.
#TecavuzMesrulastirilamaz (lo stupro non può essere legittimato) era l’hashtag usato per reagire alla proposta di legge sia sui media sia davanti al parlamento. Rappresentanti del governo hanno dichiarato che la reazione dell’opinione pubblica distorceva la questione, perché la proposta di legge non intendeva legittimare lo stupro ma offrire una soluzione al fenomeno già esistente del sesso consensuale tra minori. In altre parole il governo ha reagito come se il problema fosse il sesso consensuale tra minori e non le ragioni che portano il matrimonio precoce a essere tuttora una pratica diffusa nonostante l’età legale per il consenso sia 18 anni. Le spose bambine sono un problema che rischia di essere normalizzato semplicemente facendo ricorso ad un doppio standard di giudizio, pensando che robe del genere succedono in Turchia ma non potrebbero succedere in altri Paesi. In altre parole, il fatto che certi problemi esistono in posti dove il contesto sociale e culturale è tale da far aspettarseli non è assolutamente un motivo valido per normalizzarli. Il matrimonio precoce non-consensuale è un problema che ad esempio in Svezia cercano di evitare attraverso valutazioni individuali, caso per caso.

Il matrimonio precoce è una delle questioni che mi spingono a cercare di capire una delle questioni centrali nel dibattito sulla violenza di genere: l’intersezionalità di classe e di cultura. La strumentalizzazione della cultura aumenta il consenso politico e legittima la violenza di genere proprio attraverso il potenziamento di confusione che già esiste e offusca il concetto di violenza. Mi spiego. Secondo la proposta di legge di cui sopra, il matrimonio riparatore sarebbe stato possibile nei casi in cui gli uomini che abusano sessualmente di minori non avessero usato violenza per influenzarne il consenso. Sì, proprio così, come se una bambina che subisce una violenza tale in un contesto politico, sociale e culturale del genere potesse davvero esprimere liberamente il proprio consenso ad un rapporto sessuale che, per non essere stupro, non ha solo bisogno di consenso ma di libertà di espressione. Attenzione, non sto assolutamente proponendo di adottare l’atteggiamento di condiscendenza che si permette di assumere chi nega il diritto di avere rapporti sessuali alle minorenni. Ovvio che una giovane donna ha la capacità di scegliere se evitare prima l’abuso sessuale e poi il matrimonio forzato anche quando non ha ancora 18 anni. È anche vero però che una ragazzina ha diritto al supporto psicologico e legale di persone e associazioni di cui possa fidarsi per poter superare il terrore delle pressioni di una famiglia e di una comunità fortemente patriarcali, magari molto violente e magari fortemente religiose. Gündem Çocuk è ad esempio un’associazione per i diritti dei bambini che è stata chiusa con un decreto governativo durante lo stato d’emergenza ma che, nonostante la chiusura della sede, continua a lavorare su canali alternativi come Medyascope.tv per continuare ad informare, aumentare consapevolezza e offrire il supporto di cui hanno bisogno molte spose bambine.

Anche io mi sono trovata a dare consenso in più di un’occasione semplicemente perché non ero ancora capace di dire fermamente no, perché non ero abituata a farlo. Altre volte è capitato anche a me, invece, di esercitare pressione quando lui aveva già detto di no, anche se sia lui sia io avevamo più di 18 anni, e anche se io avevo già smesso da molto tempo di credere di poter ottenere quel che voglio richiedendolo insistentemente, come se si trattasse di una sorta di preghiera. Le donne che, come me, sono cresciute immerse nella cultura religiosa – cattolica o musulmana che sia – faticano a svegliarsi dall’incubo in cui sono rimaste incastrate. Alcune pensano che il cambiamento radicale sia una questione di miracoli ottenuti per mezzo di richieste incessanti e faticano a riconoscerlo come l’obiettivo di una lotta sociale.
Il consenso e la sua violazione non sono una questione di età ma ovviamente di consapevolezza. Faccio un azzardo e immagino che tra di noi non siano proprio poche quelle che, ad esempio, almeno una volta nella vita hanno dato il consenso a rapporti sessuali senza l’uso del profilattico. Immagino anche che qualcuna si sia infuriata quando poi magari è capitato che lui sia venuto dentro addirittura senza neanche avvertire. Sappiamo già che uno dei temi del dibattito attuale è lo stealthing e sappiamo perché lo si paragona allo stupro, ma penso che siamo in molte a non pensare che la castrazione possa essere il rimedio di tutti i mali.
La castrazione è invece la punizione esemplare che il governo turco ha pensato di proporre come pena per il reato di stupro minorile e dunque come minaccia e deterrente principale per dissuadere stupratori di minori. Per certi versi ogni discorso sulla castrazione rimanda a quello sull’infibulazione ma vorrei evitare di discutere nei dettagli di mutilazioni genitali e cultura, altrimenti sarebbe anche il caso di parlare di circoncisione. Proporre la castrazione come punizione non è solo un espediente populista come si osserva nel rapporto sopra citato. Secondo me, è importante notare che si tratterebbe di un espediente dettato dalla logica maschilista che legislatori in maggioranza anti-femministi – siano essi uomini o donne – applicano a problemi causati dallo stesso patriarcato. Alla sensibilizzazione e all’educazione, l’antifemminismo preferisce la minaccia di perdere la libido e la possibilità di avere rapporti sessuali.

Si tratta in fondo dello stesso tipo di anti-femminismo che fa dimenticare a troppi che anche noi donne vogliamo avere rapporti sessuali appaganti, ossia dello stesso anti-femminismo che la produzione e diffusione di video informativi tentano di combattere. Ad esempio, in molti casi basterebbe la sola visione del cortometraggio animato realizzato con accuratezza e ironia da Lori Malépart-Traversy [⇒ qui] per capire il retaggio socio-culturale che spinge molti – e molte purtroppo – a credere che la penetrazione vaginale sia il suggello di un rapporto sessuale ammodo. Al contrario, i rapporti sessuali soddisfacenti sono tuttora discussi e vissuti come un peccato che divide le donne in sante o puttane, anziché essere accettati da tutte per quello che sono: espressione del diritto alla libertà sessuale. Quante volte in passato mi sono arrabbiata e sentita frustrata per non essere stata capace di reagire in maniera sufficientemente adeguata ai commenti di uomini o donne che dichiarano – o lasciano intendere – che secondo loro l’uguaglianza di genere e la libertà d’espressione sessuale non costituiscono diritti fondamentali per tutt@, compreso sia chi non accetta la normatività codificata dalla cultura egemone sia chi preferisce la monogamia al poliamore.

In Turchia, al momento il diritto a un’educazione sessuale basata sull’uguaglianza di genere sembra quasi un miraggio se paragonato alle ulteriori violazioni dei diritti delle donne che il governo vorrebbe implementare attraverso modifiche a leggi che – per ora – riescono a garantire e proteggere diritti fondamentali come quello alla prevenzione e all’interruzione di gravidanze indesiderate. Sicuramente molti ricordano il dibattito sull’aborto del 2012, quando Recep Tayyip Erdoğan era ancora primo ministro. Parlando al congresso della sezione delle donne dell’AKP, invitò ogni donna a fare almeno tre figli dichiarando che “ogni aborto è una Uludere”. Paragonando l’aborto all’omicidio, Erdoğan si riferì al massacro di Uludere, noto anche come massacro di Roboski, un villaggio al confine tra Turchia e Iraq in cui nel 2011 le bombe sganciate da aerei militari turchi uccisero 34 civili curdi, inclusi 18 bambini. A questo proposito consiglio la visione di Siyah Karga (2016), un film sulla quotidianità della vita al confine che richiama fortemente alla memoria i fatti di Roboski, anche se non era un obiettivo intenzionale del regista stando alle dichiarazioni rilasciate dopo la proiezione del film a un festival nella capitale.

Nel periodo del massacro di Roboski il contesto mediatico era predominato dal dibattito sulla proposta di modifica alla legge sull’aborto e sicuramente non a caso, perché le dichiarazioni di Erdoğan confermano chiaramente quello che Suzanne Moore ha scritto nel suo articolo apparso sul Guardian: è il patriarcato ad essere la causa di molestie sessuali, violenza domestica e crimini di genere in guerra. Nel 2013 le/gli occupanti di Gezi diedero un segnale di una forte reazione al clima che si stava già preparando. Varie sono le collezioni di foto dei graffiti di Gezi e tra le foto più famose è compresa anche una scritta in reazione alle dichiarazioni precedenti di Erdoğan sulla questione dell’aborto. Dice così: «benim gibi üç çocuk ister misin? (vuoi veramente tre figli come me?)». L’ironia è stata fondamentale durante la rivolta di Gezi e non solo. Seguirne le tracce è un po’ come seguire un filo rosso per capire gli eventi.

Il valore politico dell’ironia aumenta se si pensa che dopo Gezi, nel 2014, l’allora vice primo ministro Bülent Arınç disse alle donne di non ridere in pubblico per non compromettere pudore e castità. Si tratta di dichiarazioni che sembrano molto lontane dalla realtà che domina l’Italia ma in realtà sono fondate sulla stessa cultura patriarcale che porta quelli del giornale La Stampa a pubblicare un articolo a pochi giorni di distanza dal 25 novembre per consigliare alle donne di sorridere in pubblico e mostrarsi gentili. Il valore politico dell’ironia riemerse fortemente anche nel 2016, il giorno che a Istanbul la polizia intimò a un gruppo di manifestanti di non ridere. La cosa più importante? La reazione dei manifestanti. Furono capaci di rispondere all’intimidazione nello spirito di Gezi: all’unisono, facendogli una grossa risata in faccia.

Il gruppo di manifestanti si era radunato nel quartiere di Cihangir, dove 20 uomini avevano precedentemente attaccato un gruppo di fan locali dei Radiohead. Si erano ritrovati ad ascoltare un album nuovo del gruppo davanti ad un negozio di vinili della zona. Gli eventi accaddero durante il ramadan e il motivo che scatenò la reazione violenta degli aggressori fu il rakı che i giovani stavano bevendo in strada, ma il motivo reale che contribuisce a scatenare l’odio di aggressori come loro è proprio la repressione di ogni politica fondata sul rispetto del diritto all’autodeterminazione. Provo a immaginare se gli stessi eventi potrebbero mai succedere a un concerto simile a quello che i Radiohead hanno organizzato lo scorso agosto all’arena Sferisterio di Macerata per raccogliere fondi per sostenere il recupero e il restauro del patrimonio artistico del territorio, gravemente danneggiato dall’ondata di terremoti che ha colpito l’Italia centrale. Una che conosco non aveva il biglietto e si è sentita il concerto insieme a tanti altri nei vicoli dietro allo Sferisterio. Dice che c’era un’atmosfera bellissima quella notte nella cittadina, che il ricordo di quella serata le fa ricordare le serate estive a Beyoğlu nelle settimane immediatamente successive alla rivolta di Gezi, quando la repressione non era ancora stata così tanto intensificata al punto che nel centro di Ankara è ormai vietato anche il diritto di cantare canti popolari o di protesta in strada. L’intensità delle emozioni causate da qualsiasi tipo di arte varia da contesto a contesto ma la qualità fusione di soggetti accomunati da uno stesso interesse non varia necessariamente perché uno è un negozio di vinili e l’altro è un teatro all’aperto.

Ci sono persone che invece criticano altre persone perché pensano che in fondo si oppongano alle politiche del governo solo per poter continuare a bere. Attualmente in Turchia l’alcool costa il doppio di quello che costava un paio di anni fa ma il suo consumo non costituisce reato, anche se per legge la vendita è permessa solo fino alle 10 di sera. Fino alle 10 di sera (e in molti quartieri anche dopo le 10 di sera) sempre meglio in Turchia che in alcuni degli Stati uniti d’America, dove l’alcool è vietato tutto il giorno, tutti i giorni dell’anno. Per questo penso che legittimare la reazione degli aggressori dei fan dei Radiohead a Istanbul con motivazioni di carattere culturale non fa altro che supportare la politica del governo e alimentare la produzione d’odio, proprio come nel caso dell’omofobia. Invece ciò di cui abbiamo urgentemente bisogno è la garanzia del rispetto delle condizioni di possibilità affinché il dialogo interculturale non resti solo un argomento trendy.

Una di queste condizioni è l’accesso all’informazione e siccome il dialogo interculturale è anche una questione di classe, penso che sia compito di chi fa informazione fare anche traduzione. Penso sia necessario mantenere un livello generale di complessità alto ma che sia meglio adattare il registro linguistico a diversi contesti sociali e culturali, in modo da garantire la comprensione di tutte le donne, anche di quelle che raccolgono rifiuti per strada e a cui è stato vietato anche l’accesso a scuola. Dell’importanza del dialogo culturale spero siano tuttora convint@ tutt@ coloro che si resero conto del valore simbolico di eventi come le cene per rompere il digiuno (iftar) organizzate dai Musulmani Anticapitalisti nel 2013. Quell@ di Gezi si ritrovarono su corso Istiklal per tutto il mese di ramadan immediatamente successivo all’evacuazione del parco. Alla provocazione della municipalità che aveva organizzato l’iftar rioccupando Piazza Taksim (per renderla un posto non accogliente ai non-musulmani?), quelli di Gezi risposero uniti, e non divisi dalle differenze sociali e culturali che li caratterizzavano.

Il patriarcato è transculturale e durante Gezi femministe e attivist@ di organizzazioni LGBTI+ hanno implementato con successo una campagna di sensibilizzazione che ha limitato la violenza verbale di genere. Probabilmente non a caso, infatti, non sono stati registrati casi di violenza di genere fisica tra gli occupanti del parco. Molti sono i motivi per cui la rivolta ha segnato un punto di svolta nella storia contemporanea locale e globale, nonostante la valanga di repressione che è le seguita. È anche per questo che dopo Gezi il diritto alla libertà di espressione è ormai garantito solo ai sostenitori delle politiche maschiliste del governo e delle dichiarazioni disumane dei vertici dell’amministrazione pubblica, pena la perdita del lavoro e l’eventualità della galera.

A conferma del pericolo rappresentato dalla strategia politica messa in atto, il rapporto dell’HDP include anche dichiarazioni di Melih Gökçek, fedelissimo di Erdoğan che, dopo 5 mandati consecutivi (pari a 23 anni), ha recentemente dato le dimissioni dalla carica di sindaco di Ankara in seguito alle pressioni per rinnovare le amministrazioni locali giunte direttamente da Erdoğan, presidente del partito e di uno stato autoritario. Commentando casi di gravidanza dovuta a stupro già nel 2012 Gökçek dichiarò: “perché dovrebbe essere il bambino a soffrire per un errore della madre? È la madre che dovrebbe uccidersi”. Evitiamo però reazioni orientaliste ed esageratamente scandalizzate alle dichiarazioni di una classe politica che ha proposto anche la reintroduzione della pena di morte come deterrente al dissenso, poiché tra i paesi europei ci sono (ancora) anche l’Irlanda e l’Italia, dove rispettivamente l’aborto non è ancora un diritto e dove la prescrizione della pillola del giorno dopo è ancora una sorta di terno al lotto. Se ti va bene, la prendi. Se ti va male, invece, capita pure che incontri l’ostetrica che ti dica: “ci avresti potuto pensare prima!”. È palese dunque che la questione dell’aborto – e quella della libertà della donna in generale – sia una questione transnazionale e, come tale, transculturale. In Brasile, ad esempio, la maggioranza della popolazione non è musulmana eppure il parlamento sta attualmente tentando di approvare una legge che vieterebbe l’interruzione di gravidanza anche in caso di stupro. I fatti riassunti finora costituiscono dunque dati imprescindibili per misurare l’urgenza politica del dialogo interculturale come strumento necessario affinché dinamiche sistemiche globali possano essere percepite e comprese come tali in ogni contesto geo-politico e culturale.

I parte – continua

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