di BENEDETTO VECCHI.

Fare come Margaret Thatcher. Ovvero costruire una egemonia culturale mentre si esercita il governo della società all’interno, va da sé, di una cornice opposta a quella del neoliberalismo conservatore, cioè di una affermazione della eguaglianza sociale e della libertà collettiva e individuale. E poi: costruire il popolo in quanto edificio politico per farlo diventare Stato attraverso un dinamico agonismo tra democrazia diretta e rappresentanza politica – o tra liberalismo e democrazia – attraverso il quale dare riconoscimento politico al divenire dei conflitti (di classe, di sesso, di razza, culturali e di identità) della società capitalistica. È questa l’impegnativa proposta teorico e politica messa in campo da Chantal Mouffe nel pamphlet Per un populismo di sinistra (Laterza, pp. 120, euro 15, traduzione di Diego Ferrante).

L’“agonismo” tra democrazia diretta e rappresentanza istituzionale è stato ed è un cavallo di battaglia di questa filosofa della politica cavalcato con categorie gramsciane (egemonia, interregno, rivoluzione passiva). Chantal Mouffe ha, inoltre, stabilito un lungo sodalizio intellettuale (e di vita) con il filosofo argentino Ernesto Laclau, all’interno della comune ricerca attorno alla “ragione populista”. Ed è il populismo, declinato a sinistra, proprio il filo rosso di questo libro.

Per Mouffe, infatti, il populismo di sinistra è presentato come il crosspoint tra istituzionalità e società civile. È cioè il contesto attraverso il quale la catena di particolarità della società civile possono trovare sintesi ed avere corrispondenza istituzionale. Sono perciò molti gli echi del moderno Principe gramsciano; o quelli che alludono al passaggio dalla classe in sé alla classe per sé ipotizzati da Louis Althusser. Insomma, anche se non viene quasi mai evocata la forma partito campeggia come l’implicito gatekeeper dell’azione politica dei populisti di sinistra.

È però preliminare, sostiene Mouffe, rompere l’incanto e la gabbia dell’interregno della crisi capitalistica dove c’è un passato che non vuol finire (nel bene e nel male, come ad esempio il welfare state europeo e continentale che l’autrice  non vuol certo cancellare) e una violenta e dominante tendenza omologatrice (la globalizzazione). Il populismo è cioè un modo per resistere al capitalismo, sia da destra che da sinistra. Qui le prime difficoltà. E se a destra è declinato con xenofobia, razzismo, elogio del libero mercato e delle differenze di classe e di censo, a sinistra dovrebbe riprendere dal fango le bandiere di eguaglianza, libertà e solidarietà. Entrambe le opzioni muovono tuttavia dalla medesima convinzione che l’attuale modello di sviluppo capitalista favorisce il potere di una ristretta oligarchia globale che uccide ogni possibilità di cambiamento e trasformazione sociale.

L’impoverimento di massa, la precarietà di lavoro e esistenziale, l’insicurezza sociale, l’indebolimento dei legami sociali, l’evaporare di identità collettive: sono questi i temi qualificanti, secondo Mouffe, della “ragione populista” democratica e di sinistra. E solo così si può contrastare la postdemocrazia e l’”estremismo di centro” imperanti, cioè i modi d’essere politicamente dominanti che garantiscono libertà di espressione e di organizzazione politica ma che negano anche con violenza ogni possibilità di condizionare, influire, combattere ad armi pari con l’oligarchia globale.

Come il populismo di sinistra possa funzionare rimane però sottotraccia. L’autrice afferma a ragione che la “catena equivalenziale” delle rivendicazioni economiche, culturali, identitarie e culturali che emergono dai movimenti sociali non possono essere interpretate e agite come una coalizione tra soggetti diversi. Sarebbe questa una deriva pluralistica inefficace politicamente, buona tutt’al più a conquistare il governo in effimere elezioni, ma non a costruire il popolo che si fa Stato. Serve quindi una cangiante, mutevole “grammatica di condotta” da parte del Politico, che però rimane un indefinito. Inoltre, c’è il fatto che il popolo non esiste in natura, non è neppure un apriori concettuale. Il popolo è cioè l’esisto di una produzione politica che ne cancella ogni aura di autenticità. Mouffe non cade quindi nella trappola essenzialista, meglio organicistica di un popolo che esiste in natura come i cervi, gli animali e la flora. È cioè l’esito di una azione consapevolmente politica. Chi è il protagonista della sua costruzione e produzione in quanto Stato rimane ignoto. Una prospettiva certo non allettante, dato che così facendo ritorna dalla finestra ciò che l’agonismo tra democrazia e liberalismo si proponeva di mettere fuori dalle mura, cioè il monopolio della decisione politica. Ecco dunque che, nello schema di Mouffe, a passi felpati il partito si sposta dal retroscena al proscenio della scena pubblica. Da questo punto di vista, il populismo di sinistra ripristina il Politico della modernità. Non è un caso che l’autrice affermi perentoriamente che l’agonismo tra liberalismo e democrazia non coincide con il superamento dell’ordine politico della modernità capitalistica: è semmai l’ancora di salvezza di un modo di produzione del politico in forte sofferenza.

Il Politico è dunque sintesi della “catena equivalenziale” delle rivendicazioni particolari. E se non sarà il partito di massa a favorire la sintesi, toccherà allo Stato questo compito. Torna dunque sulla scena pubblica una concezione giacobina dal forte sapore postmoderno della politica, che deve però fare i conti, spesso rinunciando, con la critica immanente che i movimenti sociali hanno esercitato contro la forma partito e lo stato in quanto monopolista della decisione politica. Ma il nodo del come produrre politica potrebbe essere sciolto facendo leva su un concetto generico come organizzazione, riarticolando il nesso tra tattica e strategia. Tra costruzioni di istituzioni dei movimenti sociali e proiezioni istituzionali, all’interno però della costituzione di un contropotere, che segnala autonomia e indipendenza dall’ordine costituito.

È questa la parte del pamphlet dove l’autrice evoca esperienze politiche europee e latinoamericane ha seguito con attenzione, fino a “sporcarsi le mani”, cioè a prendere posizione, parte dentro l’esperienza di Podemos, di Syriza, del Labour Party (verso Jeremy Corbyn rimane sempre tiepida) e di quello che è stato chiamato il decennio rinascimentale del populismo bolivariano. Chantal Mouffe ha sempre scelto di collocarsi accanto a chi proponeva un ritorno alla sovranità nazionale rispetto il potere omologante del capitale globale. Nulla di nuovo, cioè, ma è proprio sulla forma politica adeguata a questo scopo che emergono difficoltà dal suo frame analitico.

La polemica che conduce, ad esempio, contro le componenti libertarie dei movimenti sociali ha frecce nel suo arco, specialmente laddove sottolinea che il rifiuto pregiudiziale della dimensione istituzionale inibisce politicamente la potenza costituente dei movimenti sociali. Ma non tutto è oro quel che luccica. C’è una riproposizione classica, cioè tradizionale del rapporto tra tattica e strategia. La prima attiene ai movimenti sociali, alla “catena equivalenziale” delle rivendicazioni; la strategia al Politico. Poco male, ma quel che manca è una visione prospettica, di lungo respiro della forma organizzativa adeguata. Evocando passate stagioni radicali e comuniste, servirebbe quel movimento di ribaltamento di segno della organizzazione produttiva capitalista in organizzazione politica. Per Lenin, era il partito, modellato sull’organizzazione scientifica del lavoro. Altri tempi, certo. Ma un movimento teorico-politico di questo tipo potrebbe essere comunque sperimentato.

Toni Negri e Michael Hardt nel saggio da poco tradotto Assemblea (Ponte alla Grazie, pp. 427, euro 28,50) propongono un ribaltamento di prospettiva che apre una prospettiva di ricerca da perseguire. La strategia attiene, scrivono i due filosofi, ai movimenti sociali, alla moltitudine, cioè alla cooperazione sociale produttiva. La tattica, cioè la contingenza della politica, ai partiti e alle istituzioni. Dunque non un rifiuto pregiudiziale dell’organizzazione, ma il tentativo di radicarla dentro la produzione della ricchezza e dei conflitti del lavoro vivo. È la semplicità difficile a farsi, annoterebbe Bertolt Brecht. Quel che è utile nella comprensione del populismo di sinistra non è poco. Da una parte, c’è una dimensione costituente del contropotere e delle istituzioni del contropotere. Il nesso non è agonistico, ma antagonista, aperto ai mutamenti e al divenire del contropotere vincolato all’emersione dei conflitti sociali, di classe, culturali dentro e contro il capitalismo globale. Il populismo è, anche nella sua declinazione di sinistra, quindi un ostacolo, una gabbia che impedisce la trasformazione del reale. Ma tanto Negri che Hardt non propongono soluzioni. Semmai auspicano quell’accumulo di potenza politica che i movimenti globali hanno sempre prospettato, per poi ripiegare su sé stessi alla prime difficoltà.

È questo uno dei nodi che il testo di Chantal Mouffe evita accuratamente di sciogliere. Certo, dalla sua non ha molta carne sul fuoco. La riflessione sui limiti della forma partito segna il passo. Rigettata da movimenti sociali, movimenti femministi – verrà il tempo di mettere in tensione teorica, ad esempio, la riflessione di Judith Butler su L’alleanza dei corpi con le tesi di Chantal Mouffe sulle differenze – e dalla costellazione sindacale incardinata sulla precarietà lavorativa e di vita, la forma partito viene quasi sempre analizzata attraverso una evoluzione tranquillizzante della sua qualificazione. Il partito di massa, quello snello, quello televisivo, quello di movimento, quello di piattaforma. In un quaderno pubblicato dalla Fondazione Feltrinelli, lo studioso italiano Paolo Gerbaudo sintetizza lo stato dell’arte della riflessione teorica concentrando sul Partito piattaforma. La forte eco sono le piattaforme di Facebook, di Uber, di Airbnb, di Google, ma come questo modello superi i problemi del partito (sintesi eterodiretta dall’alto) non è argomento affrontato. Forse l’autore lo ha fatto in un volume annunciato in uscita sul partito digitale. Per il momento, più che una soluzione, tutti i modelli individuati più che soluzioni continuano a costituire parte del problema. Questo per sottolineare che il populismo di sinistra più che essere soluzione è parte integrante dell’afasia politica non solo della sinistra, ma di chi punta a modificare i rapporti sociali di produzione e di potere nel capitalismo globale.

Inoltre, Chantal Mouffe non si sbilancia più di tanto quando si tratta di definire il percorso che fa diventare il popolo Stato. In primo luogo quasi non usa il termine nazione. Sa che la nazione è un significante vuoto che viene di volta in volta riempito da chi ha conquistato l’egemonia. Nel monumentale La produzione dello spazio – da poco riedito da Pgreco – il filosofo francese Henri Lefebvre scriveva che lo spazio è un foglio bianco che viene sempre qualificato con ideologie dello spazio urbano, visioni dei rapporti sociali, gerarchie di potere, modalità di uso, consumo e produzione di merci. Di conflitti politici e di classe. Dunque anche la nazione non sfugge a questa regola. Non si tratta di negarne l’esistenza, né di spacciare come buono il suo superamento, bensì di leggere, analizzare come lo Stato nazione è cambiato profondamente in una epoca dove il mercato mondiale è la realtà da cui partire. Chi afferma il contrario, si inoltra complice con l’ordine costituito nel territorio della postverità.

Il problema rimane quindi il Leviatiano che si ha di fronte. O meglio a quale liberalismo o neoliberismo si allude. Se è quello delle élite immaginate negli anni passati – espansivo, edonista, tollerante, politicamente corretto – chi lo presenta così si è distratto. La crisi globale del 2008 ha infatti segnato un mutamento di passo nel capitalismo assieme alla concomitante ridefinizione del concetto di austerity e di rigore nella gestione conti pubblici. Lo Stato, dopo la crisi la lunga crisi del 2007-2008, è tornato ad esercitare con determinazione la sua funzione “pastorale”. L’austerity, infatti, al di là delle polemiche quotidiane sul pareggio di bilancio imposte dall’Unione europea o usato come clava per cancellare diritti sociali e civili, altro non è che governo autoritario della società, di imposizione violenta delle compatibilità dell’accumulazione capitalistica, di distruzione dei diritti sociali di cittadinanza. Gli Stati nazionali in giro per il mondo e l’Unione europea attraverso il quantitative easing hanno cioè fatto debito per salvare banche troppo grandi per farle fallire, ma l’austerity è inflessibilmente applicata ai precari, ai working poors, ai semplici” poveri, cioè al lavoro vivo en général. Le politiche di workfare (accettare un lavoro coatto in cambio di un po’ di servizi di bassa qualità, come previsto anche nel misero sussidio di povertà dell’attuale governo italiano) sono cioè l’alfa e l’omega dell’austerità. Da Donald Trump ai dirigenti di Pechino è lo Stato deve tornare ad essere il garante del regime di accumulazione. Da questo punto di vista tra i sostenitori del ritorno alla sovranità nazionale e i difensori ad oltranza dell’ordine globale cosmopolita c’è un rapporto di complicità teorica e politica come quello che si può stabilire tra fratelli gemelli.

Da tutto ciò Chantal Mouffe si tiene lontano. A ragione dell’altro obiettivo che si pone: salvare dall’oblio e dall’insignificanza politica i frammenti dispersi del quarto stato. Si pone cioè l’obiettivo di salvare la sinistra da sé stessa. Obiettivo però paragonabile al mito di Sisifo che pensa di essere riuscito a portare il masso alla fine della salita e invece si ritrova sempre all’inizio del viaggio.

Una versione più breve di questo testo è stato pubblicato sul manifesto il 13 novembre

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