di GIROLAMO DE MICHELE.

All’indomani dell’affermazione elettorale del Rassemblement National alle elezioni europee in Francia, il tema dell’antifascismo si è prepotentemente affacciato sulla scena politica: è stato il collante che ha consentito la rapidissima formazione di un Nouveau Front Populaire (che se fosse stato presente alle precedenti due tornate presidenziali avrebbe conquistato quantomeno il ballottaggio), e uno degli argomenti utilizzati per l’appello ad andare a votare pour le bon côté (Kylian Mbappé); ed è risuonato nei festeggiamenti, ma anche nei commenti all’indomani della vittoria del NFP. È sicuramente buona cosa che risuoni oggi quel Le combat continue che fu lo slogan del resistente Albert Camus, e col quale Marcus Thuram ha chiuso il suo post. La stizza di Marine Le Pen contro i “miliardari che fanno appelli al voto” tradisce, oltre a una discreta ignoranza sulla storia dei rapporti fra antifascismo e calcio francese (Eric Cantona e Lilian Thuram per tutti), la rabbia di chi, dietro la retorica antisistema, difende un sistema nel quale ciascuno deve conquistarsi il proprio successo con i propri meriti – a condizione che non sia un negro o un immigrato.

Bisognerà quindi fare attenzione a non cedere alla retorica che vuole l’antifascismo essere una mera postura, o al più una posizione reattiva, incapace di operare il passaggio dalla negazione all’affermazione – compito che, peraltro, attende le forze politiche e sociali aggregatesi nel Nuovo Fronte Popolare. Se dov’era il no faremo il sì è sempre stato un nostro intendimento, è anche vero che dentro ogni negazione dimora un’affermazione.

Fatto è che il discorso sull’antifascismo ha ben più di qualcosa da insegnare anche a noi “italiani”: perché la sua efficacia, la sua performatività è il rovescio della corretta comprensione del fascismo. Sul quale vale sottolineare, perché non sono scontati né condivisi, almeno tre punti fermi.

Primo: il fascismo (storico) non è (stato) una forma primeva o originaria di populismo, con buona pace di taluni intellettuali poco attenti sul piano storico. Il fascismo è, all’origine, un sistema di valori coerente (il cui sviluppo metastorico è stato ricostruito, in termini di somiglianze di famiglia, come Ur-fascismo), al quale si contrappone un avverso sistema di valori che può declinarsi come repubblicano, costituzionale o democratico. Per dirla con una sintesi dalla quale potrebbero analiticamente discendere contrapposizioni sinottiche, il fascismo esprime un desiderio di servitù volontaria, di sentirsi massa e di essere dominati da un capo; l’antifascismo esprime il desiderio della moltitudine di autogoverno, non essere governati o governati il meno possibile: su questo, il programma del NFP è eloquente. Se può aiutare il lessico: la migliore traduzione in lingua italiana di “insoumise” è “indomita”.

Secondo: il fascismo (storico) è (stato) non il progetto di un singolo, né coincide con la sua biografia; è un sistema di relazioni, che passano in secondo piano quando sulla scena giganteggiano i busti o le iniziali del Duce o del Führer. Gratta sotto l’immagine di Mussolini e Hitler, e trovi l’agraria, il padronato, la grande industria, le banche: insomma, Monsieur le Capital. Così come, gratta sotto quel cremino sull’orlo di una crisi di pianto la sera del 7 luglio, e trovi Vincent Bolloré, campione di “quella cinica borghesia ademocratica che ha già lavorato per normalizzare il lepenismo” (Ciccarelli, qui) e regista della vera “alleanza del disonore” fra fascisti e gollisti.

Terzo: la violenza fascista, cui fanno segno i cosiddetti “impresentabili” (in Francia come in Italia), non è un atteggiamento, né una postura nostalgica – né è colpa del termometro la rivelazione della febbre. Come ben sa chi ben ricorda le storie italiane, chi ha avuto occasione di andare in banca a Milano a depositare l’incasso della giornata, di partecipare a una manifestazione sindacale a Brescia, di partire dalla stazione di Bologna per andare al mare, la violenza è connaturata al fascismo, a dispetto di una narrazione che vorrebbe essere esistita una “destra democratica” smentita dai suoi rapporti organici, quando non di filiazione, con lo stragismo e l’eversione, – ma anche con gli apparati dello Stato che, dopo la sentenza d’appello sulla strage del 2 agosto, si fa davvero fatica a chiamare “deviati”; e con una parte (quantomeno) di quella borghesia industriale che, fra una sambuca e un viaggio in motorino, contribuiva a finanziare gli esecutori di quelle che noi abbiamo sempre chiamato stragi di Stato. Detto conclusivamente, il fascismo non è finito nel 1945: crederlo, o fingere di crederci, può solo contribuire a rafforzarlo.

Il punto non è se il fascismo sia mutato fino a trasfigurarsi in qualcosa di accettabile al palato liberale, ma in che modo il suo sistema di valori, di relazioni e di pratiche fornisca una delle possibili risposte alle molteplici (ma intrecciate) crisi di quell’interregno che è la tarda modernità globalizzata, nella quale il vecchio muore e il nuovo ancora non si vede, sicché sono possibili i fenomeni morbosi più svariati.

Nel 2016 il giornalista e sociologo britannico Gary Younge scrisse una lunga, acutissima inchiesta sulle ragioni che avevano consentito a Trump la conquista del cuore della middle-class americana (qui). I punti salienti di quell’inchiesta (della quale dibatteva Mark Fisher nelle sue ultime lezioni) sono:

La gente ha bisogno che cambi qualcosa. Il Partito Democratico afferma: “Facciamo solo le cose che abbiamo sempre fatto e che cambiano progressivamente”. E la gente risponde: “Non abbiamo tempo per il cambiamento progressivo”.

Secondo, la gente incolpa l’intera classe politica per averla resa disperata. Trump, d’altra parte, ha offerto la quasi certezza che qualcosa sarebbe cambiato. “Almeno smuoverà le cose”, era la frase che si continuava a sentire. Per alcuni che avevano poco da perdere, era evidentemente un rischio che valeva la pena correre.

Terzo, e forse il più drammatico di tutti, la gente ha maturato la convinzione di non avere voce in capitolo su ciò che sta accadendo alle loro vite. Ecco perché lo slogan Take Back Control ha avuto tanto successo durante il referendum sulla Brexit. Lo Stato nazionale è ancora la principale entità democratica, ma data la portata della globalizzazione non è più all’altezza del compito di soddisfare le esigenze dei suoi cittadini.

Quello che Younge scriveva di Trump nel 2016 sembra valere anche oggi per la marea montante dei fascismi in Europa, con la quale bisogna fare i conti: “Trump e i suoi omologhi sono spesso descritti in Europa come una minaccia alla democrazia. Ma in verità sarebbe meglio vederli come il prodotto di una democrazia già in crisi.”

Il fascismo fornisce risposte semplici ma chiare, la cui efficacia è misurata nella capacità di indicare capri espiatori come responsabili di quella crisi di cui sono un sintomo, piuttosto che la cura. Ma la risposta non può essere quella di inseguire le destre sul loro terreno, in nome del “non possiamo lasciare alla destra il tema della… [sicurezza, autonomia regionale, meritocrazia…]”. Men che meno, nel fornire prove di “responsabilità”, cioè di proporsi come rassicurante guida di un sistema che viene difeso – laddove le destre si avvalgono della retorica anti- di quel sistema che in verità cercano di puntellare.

Si tratta di affermare, su temi concreti, che c’è un altro modo, non fascista, di essere giustamente contro il sistema: di far proprie quelle parole d’ordine che vengono dalle lotte. Per fare un solo esempio, il diritto alla casa, sul quale concorda persino il più moderato Labour Party degli ultimi trent’anni: rivendicando le pratiche di lotta per il diritto all’abitazione, contro la privatizzazione e la gentryficazione del patrimonio immobiliare pubblico.

I questi termini resta preziosa l’indicazione di metodo: nessun fronte popolare è possibile, se non accompagnato e sostenuto dalle lotte. In Francia questo metodo lo si vede, in modo embrionale, all’opera; in Italia la strada da percorrere è più lunga – ma la sua lunghezza non è una buona ragione per non mettersi al lavoro, o per perseverare nelle pratiche di lotta e, se possibile, infittirle, là dove queste pratiche si danno: non nei salotti televisivi o sotto le luci dei media, dove si spacciano per antagonismo turismo e voyeurismo, ma nelle strade, nei quartieri, nei luoghi di lavoro, alle frontiere, sui mari. A chi dirà che questo è posizionarsi all’estrema sinistra, potremo sempre rispondere, come Mbappé: Heureusement que ce n’était pas de l’autre côté.

Download this article as an e-book