Di UBALDO FADINI
Il nuovo libro di Roberto Ciccarelli, Una vita liberata. Oltre l’apocalisse capitalista (DeriveApprodi, pp. 320, euro 22), esprime un vero e proprio piacere nei confronti del problematico. Questo non significa non rilevarne il peso, l’onere che riguarda coloro a cui tocca avvertirne le insidie, le contraddizioni, le tante torsioni che si concretizzano poi sempre più drammaticamente. Così restituita è appunto la condizione di problematicità del vivere contemporaneo, segnata dal proliferare di crisi profonde che riguardano gli assetti e le configurazioni della nostra società. Ma allora perché parlare di piacere, cosa lo produce? Forse la riproposizione della speranza, meglio: della possibilità concreta di un più equo, giusto ordinamento del vivere sociale? E su cosa si basa oggi tale speranza?
L’eventuale risposta è da cogliersi, nella ricerca complessiva di Ciccarelli, nelle crepe di un assetto generale della globalizzazione di segno capitalistico-finanziario che imbarazzano le apparenze utopiche dell’ideologia dominante, quella del neoliberalismo, in tutte le sue sfumature, in quella che è stata la storia degli ultimi decenni.
TALE VICENDA è da comprendere, sottolinea l’autore, come una sorta di ideologizzazione di un motivo utopico che è arrivato a celebrare progressivamente, a partire dagli anni ’70 dello scorso secolo, la determinatezza di un’immagine d’epoca, di un quadro temporale, storico-economico-culturale, assunto come l’ideale di una società che fa del suo «essere divenuto» l’affermazione decisiva, incontestabile, di un avvenire infine necessariamente prestabilito.
Ciccarelli orienta la sua ricerca, che vale come un saggio coraggioso e originale di «critica dell’ideologia», nel senso di sottolineare invece come questa affermazione si sia imposta come trionfo di tale pseudo-divenire contro la possibilità altri divenire, da individuare nelle pieghe che la realtà sociale viva incessantemente produce per poi sempre diversamente dispiegarle.
In questa prospettiva sono da richiamare i vari supporti tematici che accompagnano e sostengono tale ricerca, a partire da quelli più propriamente filosofici, tra cui spicca il profilo di un pensiero dell’immanenza che va da Spinoza fino ad autori, tra i molti altri, ancora vicini a noi come Foucault e soprattutto Deleuze e che si presenta come una chiave di indagine indispensabile per aprire e rileggere le relazioni complesse tra saperi e poteri.
In Una vita liberata si punta ancora in effetti su una tematica specifica della ricerca complessiva dell’autore, sulla forza lavoro come potenza di vita, produttrice dei valori d’uso e predisposta almeno tendenzialmente a rivedere quelle sue funzioni economiche che non consentono di realizzare modalità diverse di espressione (di «autogoverno») rispetto a quelle preordinate dall’imposizione dei fini specifici del capitalismo. Tale imposizione è descritta minuziosamente nella pagine essenziali del capitolo intitolato «Come siamo arrivati qui» e individuata, tra l’altro, nel capovolgimento funzionale dei bisogni «veri» del Sessantotto, nel dilagare di una vera e propria controrivoluzione spacciata prepotentemente per pratica di liberazione.
TUTTO QUESTO si è poi concretizzato in una mobilitazione di tutte le facoltà dell’essere umano (si pensi qui alla figura del cosiddetto «capitale umano», a quella particolarmente azzeccata dei «capitalisti umani») e tale processo si è sostanzialmente delineato in forme che le consegnano a un presente di (auto)sfruttamento sempre più accentuato a causa anche del protagonismo sfrenato delle piattaforme del digitale, del «capitalismo delle piattaforme», per riprendere così le ultime ricerche di Benedetto Vecchi e fare un esempio tra i tanti possibili.
Una mobilitazione che si pone come una metamorfosi antropologica restituita parzialmente dall’affermazione appunto del neoliberalismo, con quelle sue dominanti ideologiche che presentano sfumature anche di diverso segno/colore a partire comunque dall’ambizione di risolvere le complicazioni «storiche» in sede novecentesca del rapporto tra economia e società, tra produzione, mercato e pratiche/poteri di regolamentazione («giuridica» e «politica»).
Rispetto a tale abito ideologico, Ciccarelli ne individua la relativa originalità attraverso l’utilizzo della nozione gramsciana di «rivoluzione passiva», che gli appare particolarmente adeguata a riassumere anche le caratteristiche specifiche del rivolgimento neoliberale del nostro vivere condiviso di questi ultimi decenni, che ha appunto cercato di proiettare la soggettività su uno sfondo contraddistinto dalla parola d’ordine della fine di tutte quelle fini a cui rinviavano in precedenza le sperimentazioni in atto della potenza della forza lavoro, a vantaggio «naturalmente» dell’unico fine accettabile, quello della massimizzazione dei profitti.
MA C’È DI PIÙ DA OSSERVARE, anche semplicemente riprendendo alcune delle tante sollecitazioni presenti in Una vita liberata. Innanzitutto l’idea che la nostra condizione odierna (pure con la pandemia e con la guerra «infinita» che vale come un altro modo di farla finita con la pluralità possibile dei fini, di finirla cioè diversamente e sempre di nuovo) sia da cogliersi come «postuma», come disposta su un piano che vede ormai lo stesso progressivo venir meno di assetti e configurazioni della soggettività appunto di ordine neoliberale, con il suo disegno di mondo e di resa unidimensionale del decorso storico.
Nei confronti di ciò che in ogni modo accompagna oggi la riproposizione della portata fascinosamente immaginativa del racconto della fine di tutte le fini. Tale racconto consiste fondamentalmente nella proliferazione delle teorie della fine del mondo, delle «illusioni retrospettive dell’apocalisse», temuta e però infinitamente attesa e in ogni caso indispensabile per evitare come la fine di un mondo, quello capitalistico che veicola effettiva impotenza, appaia possibile. Ciccarelli osserva come per fuoriuscire dalla stessa condizione postuma nella quale ci troviamo sia indispensabile un vero e proprio «prospettivismo storico della liberazione», cioè una liberazione della storia da concretizzare in prassi di emancipazione sociale e politica da non confondere con le manifestazioni di soggettivismo contenute in molte raffigurazioni della realtà prevalenti in non poche culture critiche contemporanee.
In breve, sulla base della convinzione che la potenza (di vita) possa dispiegarsi sempre parzialmente in modalità concrete, storiche, come possibilità concreta di divenire attivi in grado appunto di esercitare differentemente l’esistenza all’interno di determinati rapporti sociali di produzione, sono da ritenersi progettabili e realizzabili differenti strade, più cammini, percorsi di organizzazione lungo direzioni socialmente, istituzionalmente, politicamente diverse da quelle abitualmente riproposte.
E LA CONDIZIONE POSTUMA, tratteggiata nella parte conclusiva del libro? È quella di coloro che sono sopravvissuti facendo propri gli stili di pensiero e azione dell’antropologia neoliberale, con il suo ritornello sulla fine della storia e che non credono più a qualche ricominciamento, a nuovi «inizi», collocandosi così all’interno di un tempo residuale di vita fino a porsi eventualmente in una condizione d’attesa dell’estinzione del complesso dell’esistere, dell’apocalisse che porterà via tutto, anche lo stesso sistema dello sfruttamento. Ma la condizione postuma non è soltanto l’espressione di un nichilismo che si articola nell’ambito della transizione al niente, con effetti anche paradossalmente consolatori, almeno per alcuni. Può infatti anche essere considerata come un fattore di sperimentazione, una vera e propria apertura non condizionata dall’affermazione che si vuole definitiva in una qualche maniera del tempo della fine del tempo.
È a partire da tale convinzione che si possono pienamente apprezzare le tante pagine che in Una vita liberata sono dedicate al terrorismo di una concezione del decorso storico che si vuole «strada a senso unico» in una direzione però tragica e che individua un cammino fatto di egocentrismi sfrenati, paccottiglie pseudo-terapeutiche, blocchi di divenire attivo nel senso di stimolare sempre e comunque il «desiderio di chi obbedisce».
NON SI TRATTA dunque della «strada a senso unico» indicata da Walter Benjamin, della via di un divenire attivi sulla base del desiderio di un’attività «aperta» e non predefinita. Ciccarelli insiste su questa ambivalenza del concetto di postumo nel momento in cui esso segnala anche una possibilità di ulteriorità, una esperienza di superamento che non rimane vincolata a ciò a cui si sopravvive/sopravviene.
È un senso della possibilità che può concretizzarsi laddove l’istituito della fine di tutte le fini non riesca a qualificare con le sue strutture, secondo quelli che sono i suoi caratteri, il divenire umano della potenza di vita rimuovendo il segno materiale delle esperienze di libertà.
Questo articolo è stato pubblicato su il manifesto il 19 maggio 2022.