di MAURA BRIGHENTI

Nelle ultime settimane la stampa internazionale ha agitato il fantasma del Default: l’Argentina si troverebbe ai bordi di un crollo finanziario comparable a quello del 2001-2002. C’é davvero un rischio di default in Argentina? Cosa significa comparare la situazione attuale con quella caratterizzata dalla crisi prodotta dalle politiche neoliberiste degli anni novanta?

La crisi attuale e il default del 2001 sono situazioni completamente differenti. Nel 2001 si trattava del risultato delle emissioni successive di debito necessarie per mantenere il sistema della convertibilità. Il governo di Menem era arrivato al potere nel 1990 con un debito estero totale di quasi 63.000 milioni di dollari e ha lasciato un passivo di 110.000 milioni, e questo dopo aver implementato le riforme neoliberali e privatizzato gran parte del patrimonio dello Stato. De la Rúa abbandona il potere nel dicembre del 2001 lasciando un debito di 144.000 milioni, dei quali quasi 70.000 sono stati raggiunti dal default.

Dopo un decennio di politiche neoliberali, la situazione estera non fa che peggiorare. Le riserve cadono a picco fino al corralito di inizio dicembre 2001: ormai ridotte ad appena 14.000 milioni di dollari rendono impossibile il pagamento del debito e si dichiara il default. Le riserve continuano a crollare fino a raggiungere gli 8.000 milioni a metà del 2002, per poi cominciare a recuperare, con l’aiuto della svalutazione e dell’elevato prezzo delle commodities (che danno impulso all’esportazione) fino a raggiungere i 20.000 milioni nel 2005, anno della prima ristrutturazione del debito.

Nell’attuale caso di default tecnico ci troviamo in una situazione completamente diversa. Qui le riserve sono più che sufficienti per pagare il debito puntuale richiesto dall’hedge fund di Paul Singer, il “fondo avvoltoio” MNL, in contenzioso contro l’Argentina nei tribunali di New York. Il problema è che pagare ciò che il tribunale pretende non è sbagliato solo perché si tratta di un creditore che non ha accettato la ristrutturazione, ma anche perché negli accordi firmati con i creditori che sì, hanno accettato la ristrutturazione del debito, esistono la clausola RUFO (Rights Upon Future Offers) e una Ley cerrojo che sono stati stati stabiliti per rendere attrattivo lo scambio dei fondi defaulteati nel 2001.

Come dicevamo, la prima ristrutturazione avviene nel 2005 e consiste nello scambio volontario dei “vecchi” buoni defaulteati con nuovi buoni per quasi 82.000 milioni di dollari, dato che ai 102.000 milioni originari sono stati riconosciuti i 20.000 milioni di interessi generati tra il dicembre del 2001 e il dicembre del 2003. Il 76% dei creditori ha accettato i nuovi buoni, ragion per cui lo Stato ha emesso un nuovo debito per 35.000 milioni equivalenti a 62.000 milioni del vecchio debito, vale a dire, ottenendo un condono considerabile di più del 43%, in una delle più grandi ristrutturazioni del debito sovrano prima della Grecia del 2010. Si è varata, inoltre, una ley cerrojo che impediva riaprire la negoziazione, per la quale i creditori o accettavano l’offerta o erano costretti ad aspettare per riaprire il contenzioso.

Il 24% che non è entrato nello scambio rappresentava nel suo complesso 20.000 milioni di dollari, tra i quali si contano i “fondi avvoltoi” e altri investitori. Nel 2010 lo Stato argentino offre una riapertura dello scambio e dunque una “sospensione” della ley cerrojo. Il 15% dei titolari dei buoni accetta e si raggiunge così il 91% del totale dei creditori del 2001. In questa ricontrattazione i creditori accettano di scambiare 12.200 dei 18.300 milioni del vecchio debito, per cui lo Stato emette nuovi buoni per quasi 8.000 milioni, ottenendo uno sconto di più del 35%. Come risultato della ristrutturazione, sommati entrambi gli scambi, lo Stato ha ritirato i vecchi buoni defaultiati nel 2001 per 74.000 milioni e ha emesso nuovi buoni per 43.000, con una differenza totale di quasi un 42%.

Resta però ancora un 9% di creditori che non ha accettato nessuna ristrutturazione che nel 2010 aggiungono quasi 7.000 milioni, in maggioranza “fondi avvoltoi”. La gran parte di questi erano stati acquistati nel mercato secondario, dopo il default, quando si compravano buoni per un valore tra il 10 e il 30% del loro valore nominale.

Tornando alla domanda, la situazione attuale è incomparabile, politicamente, con quella del 2001. Il default del 2001 è stato il risultato di dieci anni di politiche neoliberali, durante i quali si sono svolti simultaneamente processi di privatizzazione e indebitamento statale, e delle giornate del 19 e 20 dicembre, culmine di un ciclo di lotte contro il neoliberalismo. Lo Stato dichiarò il default perché non disponeva delle risorse per pagare il debito neanche se lo avesse voluto. Oggi la situazione è molto diversa e sebbene il volume delle riserve internazionali stia diminuendo, ci sono le risorse più che sufficienti per pagare i creditori in accordo a quanto stabilito dalla sentenza del tribunale di New York, la cui somma non è così elevata, si tratta di 1.600 milioni. Però il farlo può scatenare una catena di eventi che, paradossalmente, dopo aver pagato gran parte del debito, potrebbe portare la questione del debito alla situazione del 2001, ovvero a una vera e propria impossibilità di pagamento. A questo riguardo, la sentenza giudiziaria che ha impugnato il governo argentino, è stata sorprendente anche per i mercati finanziari, dato che l’Argentina ha continuato a pagare il debito nonostante dal 2001 le fosse quasi impossibile accedere ai mercati finanziari stessi. Dal punto di vista dei creditori, l’Argentina non può essere considerata “ribelle”. É certo che per quanto riguarda il piano interno, questo conflitto arriva in un brutto momento: si può acutizzare la recessione in un momento di crescita inflazionistica e di conflitti salariali. Si dovrà vedere cosa succede da qui a dicembre, quando scadono gli impedimenti della clausola RUFO.

In un’epoca di egemonia del capitale finanziario, cosa significa che la sentenza di un giudice di New York possa portare un paese all’insolvenza? Ci troveremmo di fronte a nuovi processi di giudizializzazione transnazionale delle finanze che vanno al di là dell’intervento degli organismo internazionali di governo dell’economia?

La difficoltà del conflitto ha a che vedere con il fatto che gli aspetti giuridici, economici e politici che attraversa si incrociano, sono difficili da differenziare e si condizionano reciprocamente. Dobbiamo riconoscere che Micheal Hardt e Antonio Negri hanno avuto ragione quando hanno anticipato che l’ordine mondiale dell’Impero avrebbe trovato espressione in una formazione giuridica che implicava una nuova inscrizione dell’autorità, delle forme di produzione di norme e della soluzione dei conflitti. E che questi elementi si traducono in conflitti economici e politici di estrema importanza, in grado addirittura di imporsi su coloro che dovrebbero ipoteticamente controllarli, siano i paesi “sviluppati” o gli stessi Stati Uniti.

In questo caso il nodo della controversia passa per l’interpretazione del significato della clausola pari passu, che obbliga a trattare con uguaglianza di criteri e di pagamenti tutti i creditori, impedendo che il debitore statale scelga alcuni creditori a sfavore di altri. I “fondi avvoltoi” adducono che il governo li violerebbe pagando i creditori dei fondi ristrutturati con il condono e non essi per il totale dei loro crediti.

Il giudice Griesa gli ha dato ragione. Il governo si è offerto di pagare gli holdouts con quote negli stessi termini dello scambio del 2010, per garantire così l’uguaglianza di trattamento. Ma essi non hanno accettato.

La interpretazione della clausola di uguaglianza di trattamento nel senso datogli da Griesa inaugura una giurisprudenza molto pericolosa per gli Stati che vogliono emettere debito in dollari, secondo la legge nordamericana. E mette persino in rischio New York come sede finanziaria per queste operazioni. Lo stesso governo statunitense ha mostrato la propria preoccupazione, appoggiando, nel processo, la posizione dell’Argentina. Ma il potere giudiziario nordamericano ha fatto orecchie da mercante e la sentenza di Griesa è stata confermata dal tribunale di appello e dalla Corte Suprema. Non c’è solo da pagare la somma totale, ma bisogna pagare per primi i “fondi avvoltoi”, clausola che contrasta giustamente con la stessa pari passu.

Per alcuni il pericolo di contagio non sarebbe tale perché dopo il 2005 la maggior parte delle emissioni includono clausole “anti-avvoltoi”, le clausole di azione collettiva. Persino a New York in materia di diritto commerciale è sufficiente che il 70% dei debitori accetti un accordo di pagamento perché questo sia obbligatorio per il restante 30%. La Argentina ha ottenuto il 93% di accorsi e solo una minoranza del 7% resta fuori per sua propria volontà.

Questo fatto ha prodotto le proteste di economisti come Stiglitz e Anne Krueger, che sono ben lontani dal criticare il capitalismo, e preoccupa i paesi dell’eurozona e del G-20. La sentenza mette inoltre in rischio la possibilità di raggiungere tali maggioranze, dato che i creditori hanno optato tutti per la via del contenzioso e si presenta addirittura la possibilità che i “fondi avvoltoi” accedano al 31% di una serie di bonos emessi e ostacolino definitivamente ogni possibilità di ristrutturazione di un capitalismo finanziario che funziona in base al debito.

L’Impero come ordine giuridico globale di livello superiore dovrebbe offrire una copertura alla possibilità del capitale di ottenere un certo tipo di rendita, che sia finanziaria, immobiliare o tecnologica. Dal punto di vista del capitale, è esattamente questa “sovrapposizione” – o assemblaggi, direbbe Saskia Sassen – di ordine globale-imperiale e stato-nazionale che dovrebbe articolarsi per la realizzazione delle rendite del capitale a livello mondiale. Una governance che diventa sempre più sommamente complessa, come mostra questo conflitto.

Nell’attuale scenario pre-elettorale argentino, in molti ci domandiamo se siamo ormai prossimi alla fine del ciclo kirchnerista e di un modello di governamentalità di inclusione attraverso il consumo. Come leggi, in questo contesto, la reazione del governo di fronte alla sentenza e la sua gestione dei “fondi avvoltoi”?

La reazione del governo in merito alla sentenza è stata in linea di massima corretta. Pagare ciò che esigono i buitres con il rischio reale di far saltare la clausola RUFO avrebbe esposto il paese a una situazione ancora più complicata, quasi insostenibile. Questa clausola, che implica che ogni miglioramento di condizione a un creditore deve estendersi a tutti gli altri, resta in vigore per un periodo di dieci anni e, dunque, scade il 31 dicembre del 2014, tra quattro mesi. Se si pagassero i 1.600 milioni a  MNL secondo la sentenza di Griesa, tutti insieme e in dollari, si offrirebbe ai restanti holdouts l’ occasione per chiedere lo stesso trattamento, costringendo il paese  a erogazioni di quasi 15.000 milioni, che, oltre a essere completamente eccessive, rappresenterebbero più della metà delle attuali riserve della Banca Centrale, che ammontano a 28.000 milioni. Pagare implicherebbe porre a rischio la già precaria situazione economica del paese. E non solo, aprirebbe la possibilità che gli hold-in, i creditori che hanno accettato lo scambio nel 2005 e nel 2010, richiedano di essere equiparati ai “fondi avvoltoi”, con cui il debito potrebbe crescere fino alla somma esplosiva di 120.000 milioni, vanificando così gli sforzi di questi dieci anni di ristrutturazione e provocando un collasso totale della economia.

Ci sembra che in fondo il governo non avesse opzioni di fare qualcosa di diverso da quello che ha fatto. Accordare il pagamento per evitare il default sarebbe stata una grande irresponsabilità a breve termine. Il giudice non solo vuole obbligare al pagamento dei “fondi avvoltoi” ma anche impedire che l’Argentina paghi gli altri creditori ristrutturati nel caso non si arrivi a un accordo con i primi. Si discute quindi se siamo o non siamo in default, perché se il default prevede una volontà di non pagare, questa volontarietà esiste solo nel caso dei “fondi avvoltoi”, ma non in quello dei fondi ristrutturati. Il governo ha mostrato la volontà di pagare, ha fatto il versamento alla Banca di New York perché giri i fondi ai titolari dei fondi, ma il giudice ha impedito il trasferimento. E lo ha fatto addirittura con i buoni di giurisdizione europea e giapponese. È una situazione inedita.

Nel 2006, l’anno seguente alla prima ristrutturazione del debito, l’Argentina ha inoltre pagato il debito di 10.000 milioni di dollari al FMI con riserve di 28.000 e non ha mai smesso di pagare il debito dal 2005. E con tutto questo il suo rapporto Debito/PIL è migliore di quello di molti paesi dell’eurozona. Non si tratta di un debitore in ribellione, niente affatto.

Questo conflitto complica anche il fronte interno, che è già convulsionato a causa della recessione e della crescita dell’inflazione. Nel gennaio di quest’anno il governo ha iniziato una strategia di ricerca di finanziamenti, per via della quale è giunta a un accordo nel conflitto nel CIADI per 677 milioni di dollari, ha pagato l’indennizzazione a Rapsol per la statalizzazione del YPF (5.000 milioni in buoni) e il debito con il Club de Parigi (9.700 milioni di dollari in buoni). La situazione è in chiaro peggioramento. Si richiederà un aggiustamento ancora maggiore. Il governo intende mostrare che la vicenda giudiziale degli holdouts non ha effetti reali gravi. Di fatto il suo impatto è stato più moderato di quanto ci si aspettava. Bisogna però vedere come si svilupperanno i fatti e cosa succederà il 1 gennaio del 2015, quando, con la scadenza della clausola RUFO, si potranno pagare i buitres senza rischio di contagio. Si dovrà vedere cosa decideranno in quel momento, ma prima bisogna vedere come passa l’inverno…

In uno scenario di transnazionalizzazione, finanziarizzazione e giudizializzazione dell’economia che ruolo possono avere tanto le politiche di integrazione economica regionale latinoamericana quanto i BRICS?

È prematuro fare previsioni. La creazione della Banca dello Sviluppo può servire come strategia di accumulazione di potere, se si concentra lo sguardo su un scontro diplomatico con gli Stati Uniti, come opportunità per sommarsi a coloro che li sfidano all’interno di un ordine multipolare. Come risorsa per finanziamenti alternativi davanti all’impossibilità di indebitarsi nel breve periodo, è però molto recente e entrerebbe in funzione nel 2016 (e i suoi prestiti sarebbero riservati alle infrastrutture).

Pensando tuttavia nel lungo periodo, gli specialisti dicono che la Banca dei BRICS imporrebbe condizioni differenti a quelle del FMI o della Banca Mondiale. La Cina non tenterebbe di condizionare la politica fiscale o monetaria, ma cercherebbe semmai di imporre clausole per assicurarsi approvvigionamenti di materie prime. Va osservato che tra il 2000 e il 2010 il commercio tra la Cina e l’America Latina è cresciuto di 5 volte, da 60 a 300 mila milioni di dollari e l’investimento straniero passò dall’essere quasi inesistente ai 60.000 milioni di dollari. I settori promossi dai prestiti in infrastrutture saranno con ogni probabilità quelli legati all’estrattivismo.

Per quanti progetti si propongano a favore dei paesi membri, Asia, Africa e America Latina non sono in condizioni, per ora, di offrire il yuan o una moneta comune come alternativa al dollaro. D’altra parte, il fondo anticiclico, un fondo di riserve di 100.000 milioni per liquidare problemi finanziari o di bilancia dei pagamenti, avrà bisogno di un certo margine di tempo per la sua effettiva implementazione, e ancora non sono chiari i suoi sviluppi. Per concludere, si tratta di iniziative interessanti però è ancora troppo presto per valutarle.

*Economista, Universidad Nacional de General Sarmiento (UNGS), Argentina

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