Di CHIARA COLASURDO
Si dice libera quella cosa che esiste per la sola necessità della sua natura, e che si determina ad agire da sé sola; mentre necessaria, o piuttosto coatta, quella che è determinata da altro ad esistere ed operare secondo una certa e determinata ragione[1]
Baruch Spinoza
Per essere concreta e avvertirvi, ma anche per costruire un orientamento, in questo scritto, io voglio parlare, sebbene finirò con astrarre concetti e situazioni, delle condizioni di vita materiale di Cristina, autista di ambulanze del pronto soccorso e operatrice di primo soccorso, per il servizio privato convenzionato con la sanità pubblica, costretta ad aprire partita iva, poi assunta con contratto a termine alle stesse medesime condizioni della partita iva, e che adesso ha aperto un negozio per animali; voglio parlare di Giovanni, fonico audio video per una società appaltatrice della Rai e di molte reti TV, che per più di 10 anni ha fatto tutti i giorni ore di lavoro straordinario per mansioni appartenenti ad un livello contrattuale molto più remunerato di quello in cui lo hanno inquadrato e dimesso per giusta per il mancato pagamento dello straordinario che era obbligato a svolgere; e voglio parlarvi di Ugo, avvocato del lavoro che difende lavoratrici e lavoratori e guadagna qualcosa, davvero, solo se vince le cause nonostante lavori anche nelle cause che non vince (che si sa, alla fine sono i Giudici a decidere!); voglio parlarvi di Stefano, un quadro nel CCNL Commercio, dapprima per note società di comunicazione e poi per una grande fondazione culturale, e che sebbene ben pagato dopo colpi di testa e trattative all’ultimo rischio, di fatto non smette mai di lavorare. Di Luigi, rider di Foodora, di Elena, grafico editoriale, pubblicitaria, che crea siti web ed è web designer, e che dipinge, di Grazia, maestra precaria, di Stefano, giornalista, voglio parlarvi delle operaie e degli operai della fabbrica sociale che è il mondo della produzione di valore da cui veniamo sfruttati ogni giorno.
1. Sproni – Il lavoro come questione “la produzione della produzione”
In questi giorni “domiciliari”, complice una pandemia e la crisi del lavoro tout court, ho ripensato ad uno scambio sorto sui social network qualche tempo fa, stimolato dalla recensione che Giuseppe Allegri ha fatto sulla rivista on line OperaViva, dal titolo “Dentro, oltre e contro la società automatica”[2] del saggio di Bernard Stiegler, “La società automatica. 1. L’avvenire del lavoro[3]”.
Il dibattito sorto dentro di me, e che poi ho “socializzato”, e su cui sono stata sollecitata a ragionare, ruota intorno alla ormai annosa questione teorica e dicotomica tra lavoro subordinato e lavoro autonomo e alle loro tutele, questione che si riflette sulla dicotomia salario/reddito, nel tempo dell’intera vita messa a lavoro[4], e quindi sul tema del non lavoro. Allegri, con Stiegler, nella sua recensione, espone il tema in maniera più sottile e raffinata, con la descrizione del senso dell’opera di Stiegler, in questi termini: “contribuire a fomentare l’invenzione di una società post-salariale dentro e contro le sfide dell’innovazione tecnologica nella società digitale che diviene automatica”.
Ed in effetti, Stiegler, in uno degli oltre cento paragrafi di cui si compone il saggio, capitolo dal titolo “Il diritto del comune, il lavoro e il sapere”, pone la necessità di “configurare il nuovo pharmakon” che è il linguaggio contemporaneo, e cioè la scrittura reticolare in cui il Web consiste, che distruggerebbe il simbolico (!?) e aprirebbe a un destino “automatico”; Stiegler si esprime chiaramente verso la necessità di “porre nuovamente la questione del diritto”, “su nuove basi”, “non solo dal punto di vista della tecnologia del potere, ma anche da quello farmacologico, imprescindibile per la costituzione organologica dell’individuazione noetica[5], e in quanto apre originariamente la questione dell’ergon (opera), dunque del lavoro come trans-formazione…bisogna ripensare il lavoro in relazione con la fine dell’impiego (…e ben lungi dalla fine del lavoro…), che ne ha sovradeterminato la comprensione sottomettendolo alle dogmatiche del capitalismo caratteristiche del XX secolo: il lavoro torna ad essere la prima questione. L’impiego ha disintegrato il lavoro così come la governamentalità integralmente computazionale disintegra oggi l’individuazione collettiva. Il lavoro non è l’impiego, non possono essere confusi, a meno che non si consideri il lavoro solo come la costrizione a sussistere… Piuttosto il lavoro è costitutivo sia del piano dell’esistenza che di quello della consistenza…ripensare il lavoro all’epoca degli automi che nel giro di vent’anni avranno liquidato la maggior parte degli impieghi è farne la funzione-chiave di un nuovo concatenamento della politica, dell’economia, dei saperi[6]”.
Ecco, non posso non essere d’accordo con la posizione di Stiegler sulla centralità del lavoro – e per ora su questo – nel nostro mondo contemporaneo, sulla necessità di ripensarlo, sull’opportunità di scrivere ex novo le regole che sovraintendono alla libertà e alla dignità di chi lavora. Non ci soffermeremo sulla nota distinzione, operata già da molti tra cui Hanna Arendt in Vita Activa, tra “Lavoro, opera e azione”, così come quella classica tra vita contemplativa e vita activa, e tuttavia questo affascinate stimolo va, a mio avviso connesso con la realtà materiale storica.
Se politicamente le considerazioni di Stiegler costituiscono un forte sprone rispetto all’obiettivo (più o meno realistico nel breve, medio e lungo periodo) dell’emancipazione dalla schiavitù del lavoro, d’altro canto, nella realtà dei fatti, sembra poco interessante (ed a tratti deleterio) porre la questione nei termini per cui, ferma la necessità di un reddito universale e incondizionato (ed aggiungerei dignitoso, perché sfido a vivere una vita dignitosa con un reddito di base di € 600/700 al mese) il lavoro autonomo/indipendente, sarebbe preferibile a quello subordinato/salariato; e poco funzionale, se non addirittura ontologicamente errata, ritengo anche la contrapposizione netta tra “reddito” e “salario”, laddove il reddito è una misura universalistica e slegata dalla prestazione di lavoro, mentre il salario è il compenso esclusivamente del lavoro subordinato (a tempo determinato e part time, di apprendistato, tirocinio, ecc.), pur non esaurendo le forme di remunerazione delle altre tipologie di lavoro: coordinato e continuativo, autonomo, professionale, a prestazione, a chiamata, intermittente, in nero, ecc…né le tipologie di compensi previsti per tutte queste altre tipologie. Ciò che voglio dire è che il lavoro non si remunera solo attraverso il “salario”, e non è il salario (inteso come una delle forme di remunerazione del lavoro) a distinguere il lavoro che sopravvive dall’impiego che va morendo, potendo parlare, indifferentemente di salario, retribuzione, assegno di ricerca, un onorario, cachet, paga, (riferendoci sempre a del denaro in cambio di una prestazione di lavoro), come di forme di compenso del lavoro (non per forza sotto forma di impiego, in greco “emplekô”: avvolgo, intreccio, tesso; “emplekòmai”: do opera, attendo), e che l’eliminazione del salario, cui “la sinistra” resterebbe, malinconicamente e in modo nefasto, legata, impedendo l’evoluzione del lavoro liberato dalla “dipendenza”, forse non basta ad eliminare la strutturale distinzione e asimmetria tra sfruttatori e sfruttati.
2. Il tempo: quale indipendenza nel lavoro indipendente?
“In tutte le condizioni il tempo di lavoro che necessita alla produzione dei mezzi di sussistenza ha interessato gli uomini, sebbene ciò non avvenga nella stessa maniera nei gradi di sviluppo. In ultimo, quando gli uomini lavorano in una qualunque maniera l’uno per l’altro, il lavoro ottiene anche una forma sociale…Il segreto della forma di una merce sta dunque solo nel fatto che tale forma ridà agli uomini come uno specchio l’immagine delle caratteristiche sociali del loro proprio lavoro, come proprietà sociali naturali di quelle cose, e perciò ridà anche l’immagine del rapporto sociale tra produttori e lavoro complessivo, facendolo sembrare come un rapporto sociale tra oggetti che esista al di fuori di loro[7]…Ma che cos’è una giornata lavorativa? Comunque sia, è meno di un giorno naturale di vita”…tuttavia “il capitale è lavoro morto che resuscita, come un vampiro, solo succhiando lavoro vivo, e tanto più vive quanto più ne succhia[8]”.
Dal rapporto annuale “Il mercato del lavoro 2019[9]”, pubblicato il 09.03.2020 sul sito dell’ISTAT, emerge che “su 23,4 milioni di occupati, circa 18 milioni sono lavoratori dipendenti, mentre gli indipendenti sono 5,4 milioni circa; aumentano le diseguaglianze territoriali, nel 2019 la distanza tra il Mezzogiorno e il Centro-nord è di oltre 20 punti per il tasso di occupazione; Nel Mezzogiorno il part time involontario sfiora l’80% contro il 58,7% nel Centro-nord…la probabilità di essere in part time involontario per una donna occupata è circa tre volte superiore a quella di un lavoratore; inoltre in Italia il ricorso al part time si lega più a strategie delle imprese che a esigenze degli individui”; quanto ai licenziamenti, nel 2018 se ne sono registrati 579 mila cui non si cumulano le dimissioni per giusta causa.
Un abuso costante dello strumento dei contratti a tempo determinato, nonostante le modifiche introdotte dal d.l. 87/2018 (decreto dignità) convertito nella l. n. 96/2018 e ulteriormente modificato dalla legge n. 128/2019, si registra nonostante il rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato continui ad essere la “forma comune” dei rapporti di lavoro sia per il diritto interno che per quello eurocomunitario.
Per quanto riguarda la qualificazione dei rapporti di lavoro (autonomo/subordinato), è utile prendere in considerazione il d. lgs 81/2015 come da ultimo modificato, all’art. 2, co.1, e che comunque non si applica alle pubbliche amministrazioni, il quale prevede che “…si applica la disciplina del rapporto di lavoro subordinato anche ai rapporti di collaborazione che si concretano in prestazioni di lavoro prevalentemente personali, continuative e le cui modalità di esecuzione sono organizzate dal committente. Le disposizioni di cui al presente comma si applicano anche qualora le modalità di esecuzione della prestazione siano organizzate mediante piattaforme anche digitali”.
Il tema del lavoro nelle piattaforme (che automatiche ancora non sono, quanto alle direttive impartite e alla gente che pedala e che consegna) è interessante in merito al dibattito di cui ci stiamo occupando su autonomia e subordinazione[10].
Con il darsi del capitalismo cognitivo, ciò che sfugge alla determinazione classica del prezzo del lavoro (e quindi della sua “equa” remunerazione) in funzione del valore prodotto, è il tempo come misura adeguata, è la crisi del concetto di valore stesso, quindi. Prendiamo l’Art. 36 della Costituzione italiana che riconosce il diritto di chi lavora “ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa”.
Quantità e qualità, libertà e dignità.
Stando a questi parametri, il lavoro autonomo oggi è sottopagato rispetto al lavoro dipendente (lungi da me l’esaltazione di quest’ultimo, ma restiamo sull’analisi), nella maggior parte dei casi, proprio per l’assenza di retribuzioni minime al di sotto delle quali non sono garantite libertà e dignità, ed anche quando vi sono tariffari fissati dalla legge, questi non rientrano nelle tutele del lavoro, perché chiunque ha una partita iva si deve rivolgere Giudice civile per chiedere una condanna al pagamento, come fosse un’impresa, non al Giudice del lavoro, anche le possibilità di sindacalizzazione risultano imprese titaniche[11].
E poi c’è il “corollario” della malattia non pagata (le ferie, ça va sans dire), della difficoltà di accedere alle diverse forme di “disoccupazione” o di “maternità”, perché alcuni lavori non è possibile quantificarli in giornate di lavoro. Scrivo un libro per un compenso di x euro: quante giornate di lavoro sono calcolabili come corrispettivo del compenso unico che ho ricevuto per completare l’opera?
A complicare ancor di più le cose vi è poi la categoria del “lavoro immateriale”, che può essere dipendente (salariato), o autonomo/indipendente.
Nel capitolo 3° di “Il lavoro immateriale”, intitolato, “La mobilitazione totale”, André Gorz, precisa che “l’attività di produzione di sé è una dimensione necessaria di ogni lavoro immateriale e che questo tende a fare appello alle stesse capacità e alle stesse disposizioni personali delle attività libere al di fuori del lavoro…E’ impossibile “sabotare” un lavoro che mobilita la nostra capacità senza incorrere nel disprezzo proprio e degli altri…Il problema, allora, consiste “nel sapere come non investire la propria dignità in un’attività indegna”…Per il solo fatto di essere contrattuale, il rapporto salariale riconosce la differenza, anzi la separazione delle parti contraenti e dei rispettivi interessi. Esso ha un carattere emancipatore in quanto limita il diritto dei datori di lavoro e gli obblighi dei salariati a una determinata prestazione di lavoro. Traccia perciò una frontiera tra la sfera del lavoro e quella della vita personale, privata[12]”.
Un rapporto contrattuale sinallagmatico è un rapporto che in teoria circoscrive diritti ed obblighi reciproci. Non a caso, nei rapporti di lavoro dipendente, a rafforzare tale carattere di limite al potere datoriale, vigono anche i Contratti Collettivi Nazionali di Lavoro, che nascevano in epoca fascista per neutralizzare la lotta di classe, ricevevano un riconoscimento formale nella Costituzione del ’48 e si stabilizzavano come strumento di contrattazione sociale reale solo nel “biennio di lotta” 1968-1970, lotte che hanno altresì prodotto l’ormai compianto “Statuto dei lavoratori” (l. n. 300/1970).
Ancora, la durata massima della giornata di lavoro è sempre a norma dall’art. 36. Cost., stabilita dalla legge in 8 ore di lavoro, ed è altresì costituzionalmente previsto il “diritto al riposo settimanale e a ferie annuali retribuite” cui non si può rinunziare, cioè si tratta di diritti indisponibili perché fondamentali e quindi irrinunciabili (pensiamo al paradosso delle ferie forzate).
Ma a parte il dato macroscopico di limiti al potere datoriale che, sempre teoricamente, sono posti per i lavoratori e le lavoratrici subordinati, e non per quelli autonomi (perché ontologicamente liberi di decidere quanto tempo lavorare, salvo poi la necessità imprescindibile di garantirsi una vita libera e dignitosa…), l’elemento contrattuale ha anche un valore simbolico, come percezione del limite personale di ciascuno all’immedesimazione col proprio lavoro. Ma mentre può, quindi, sussistere la percezione della differenza tra il tempo della vita e il tempo del lavoro, occorre prestare attenzione al fatto che, nell’ambito del lavoro immateriale, esiste un alto livello di formazione e/o specializzazione, per essere competitivi sul mercato del lavoro.
Queste spicciole considerazioni, hanno a mio avviso il senso di mettere in guardia dal ritenere la qualificazione del lavoro autonomo come una conquista, al contrario[13]. Non c’è necessariamente identificazione tra prestazione di lavoro autonoma, e quanto intende Marx con il lavoro liberato dallo sfruttamento e cioè come “manifestazione di libertà”, “oggettivazione/realizzazione del soggetto”, “libertà reale”, “autorealizzazione dell’individuo[14]”.
In queste condizione poste dal liberismo sfrenato, “la vita diventa il capitale più prezioso. La frontiera del lavoro e non lavoro si cancella, non perché le attività lavorative e quelle non lavorative mobilitano le stesse competenze, ma perché il tempo della vita ricade interamente sotto il dominio del calcolo economico, sotto il dominio del valore[15]”.
Ma se il lavoro fosse la realizzazione della nostra libera personalità, dire che la nostra intera vita è messa a lavoro è un dato positivo o negativo?
Il saggio che mi è servito per focalizzare questo punto lo devo a Cristina Morini ed Andrea Fumagalli, che in “La vita messa a lavoro: verso una teoria del valore-vita”, approfondiscono la questione in tal senso: “le caratteristiche del lavoro del biocapitalismo sono molteplici e aprono nuovi scenari analitici: esse hanno a che fare con l’attività relazionale (è dunque lavoro relazionale), con l’attività di apprendimento e di trasmissione di conoscenza (è dunque lavoro linguistico-cognitivo), con l’attività di produzione di immagini e di senso (è dunque lavoro simbolico), con l’attività del corpo e dei sensi (è dunque lavoro corporeo e sensoriale), con la messa in gioco dei sentimenti e della cura (è dunque lavoro affettivo). In una parola, il lavoro nel biocapitalismo è la summa delle facoltà vitali-cerebrali-fisiche degli esseri umani. Lo definiamo per semplicità biolavoro” per brevi punti caratterizzandolo in come il superamento tra: la “separazione tra tempo di vita e tempo di lavoro”; la “separazione tra luogo di lavoro e luogo di vita”; la “separazione tra produzione e riproduzione”; la “separazione tra produzione, circolazione e consumo [16]”.
E mentre assistiamo alla creazione di applicazioni che consentono screening medici dettagliatissimi da remoto, o che offrono la possibilità di tracciare la storia delle future interazioni tra le persone (con il solo scotto di creare banche dati ancora più dettagliate in vista del controllo globale e dell’estrazione di profitto), emblematico, in questo periodo di emergenza sanitaria, è la sperimentazione massiva dello smart working, immerso nel biocapitalismo cognitivo. Così, mentre per il lavoro dipendente è agevole delimitare l’invasività di questa modalità di svolgimento della prestazione di lavoro, complice l’esistenza di una normativa a riguardo, tra diritto alla disconnessione e il limite ai poteri di controllo datoriale[17], tema che ha a che fare con la salute psicofisica di chi lavora e con il diritto al riposo, nel lavoro autonomo tale confine è indecifrabile, al più resta relegato alla coscienza individuale. Praticamente per non produrre riducendo tutto a mercanzia, si dovrebbe smettere di vivere, o inventare nuove forme di vita individuale e collettiva.
3. Il reddito[18]: quale autonomia nel lavoro autonomo?
Se questa idea di una autonomia davvero autonoma, di una “bella” indipendenza, si consolida nei Tribunali, con sentenza crudeli nei confronti di lavoratrici e lavoratori salariati/subordinati/finti autonomi (come avviene sempre più spesso), in vista di una emancipazione dalla schiavitù del lavoro che non può non partire dalla concreta trasformazione delle relazioni di produzione, e abbracciando un dato ideologico poco connesso con esse, questa prospettiva (ipotetica), della non ancora – società post salariale (perché non ancora – automatica, soprattutto nel lavoro cognitivo/immateriale, ma si pensi alla logistica, ai rider, alle colf e badanti e al lavoro di cura, al lavoro artistico in generale, al lavoro sportivo, al lavoro nelle campagne), si ripercuote in modo concretamente molto negativo sulla vita delle persone. Bisogna perciò essere molto responsabili nel calibrare gli slanci, e nello sbandierare soluzioni. Nei Tribunali, si finisce, concretamente, ad assolvere, a darla vinta, agli imprenditori sfruttatori perché sarebbe più bello se fosse possibile scegliere se, quando come e su cosa lavorare…teoricamente.
Quanto, quindi, ai mezzi di produzione, guardando grossomodo in faccia alla realtà, al momento non possediamo fabbriche, non possediamo piattaforme, non possediamo grossi aggregati di diritti d’autore o di brevetti, non possediamo sistemi di accumulazione globale di dati, non possiamo costosi software, non abbiamo un accesso libero alla rete, abbiamo i computer, e la potenza dei nostri corpi, le nostre competenze, attitudini, intelligenze, insieme alla possibilità della libera scelta di disporre del nostro tempo.
D’altra parte come si costruisce un nuovo modello economico? Ne abbiamo il potere? Perché, in fin dei conti, io penso che il lavoro vada pagato dignitosamente (attraverso un salario, una retribuzione, un assegno, un onorario, un cachet…) e penso pure che c’è molto poca autonomia nel c.d. lavoro autonomo (nella committenza è implicita una parte di eterodirezione), perché il lavoro è autonomo davvero solo se già si posseggono i mezzi per godere di una vita dignitosa (che non è costituita solo dal mettere un piatto a tavola, ed avere un tetto sulla testa, ma anche dall’accesso alla cultura, all’arte, ai viaggi, all’ozio, allo svago, allo sport, al desiderio, all’immaginario, ecc.).
Ad oggi, la questione del reddito di base universale e incondizionato, del reddito di esistenza, del reddito di autodeterminazione (dispositivi diversi dall’attuale reddito di cittadinanza ispirato ad una concezione workfaristica della vita) si presenta, almeno, duplice: c’è chi in esso vede il mezzo per sottrarre la vita all’immaginario mercantile e alla messa a lavoro totale, e chi in esso vede una necessaria retribuzione del tempo fuori lavoro il cui contributo alla produttività del lavoro è diventato decisivo.
A mio avviso oggi non è tanto da considerarsi l’an della misura (di una misura ancora vergognosamente inattuata, ed immagino come necessaria, in tal senso, una direttiva europea che ne obblighi ciascuno stato membro alla istituzione), ma il quantum! Un quantum che non può non essere misurato sul costo medio di una vita libera e dignitosa, che questo quantum contribuisca a raggiungere questo costo medio per chi ha un reddito da lavoro, ovvero che ne costituisca l’intero ammontare poco importa, ma va determinato il costo medio reale pro capite di una vita libera e dignitosa.
Perché forse in Francia gli intermittenti dello spettacolo hanno delle garanzie economiche maggiori rispetto all’Italia, ma se ci si ammala o si va in maternità un ingaggio lo si perde comunque e il sostegno che si riceve, non può mai compensare il valore del lavoro/vita che si è perduto (che implica anche aspetti non economicamente rilevanti nel lavoro autonomo, mentre in quello subordinato non sempre, almeno, anche perché grossomodo il posto di lavoro lo si conserva). Il lavoro nello spettacolo risulta paradigmatico, anche in merito alla misure apprestate dal Governo italiano per far fronte all’emergenza lavorativa ed economica conseguente al distanziamento sociale attuato per contenere la diffusione del virus Covid-19. E così, mentre migliaia di lavoratrici e lavoratori continuano ad andare nelle fabbriche (non – ancora automatizzate) rischiando evidentemente la vita, e Confindustria spinge per una riapertura totale delle attività produttive in nome del profitto, altre migliaia di lavoratrici e lavoratori, come quelli del settore dello spettacolo dal vivo (ma ogni forma di prestazione occasionale, in nero, di lavoro di cura, artistico, sportivo, per citarne solo alcune), restano per lo più senza diritti, senza tutele e senza mezzi di sostentamento.
Ci troviamo, anche a mio avviso, a vivere uno stato di eccezione, per dirla alla Agamben[19], il quale, sebbene sulla connotazione epidemica del Covid-19 ha toppato parecchio, sulla accettazione incondizionata di misure repressive della libertà personale ma non della libertà di “produrre, consumare e crepare”, ci ha visto lungo; tali misure si concretano ogni giorno negli abusi dei pubblici ufficiali che infliggono care multe, sempre più spesso in modo insensato e fuori-legge, sempre più spesso a persone che escono di casa per lavorare. Perché lo stato di eccezione, non si misura solo con il dato tecnico-giuridico giustificato dall’emergenza (distinguendosi questa, da quella “eccezione” di shmittiana memoria) , ma anche con il governo della vita, nel presente e nel futuro, e con la nostra capacità di adattamento alla coercizione, anche incosciente.
4. La solita “In – conclusione”
Per voler tornare al punto dai cui siamo partite, e cioè porre nuovamente la questione del diritto su altre basi, ma anche la questione della lotta connessa alla appropriazione e alla riappropriazione dei diritti, è bene sottolineare che qui l’obiettivo è mettere in luce una “contraddizione fondamentale[20]” nel pensiero giuridico liberale, contraddizione che, a mio avviso agiamo spesso inconsapevolmente, anche quando assumiamo come dicotomici i termini lavoro autonomo/lavoro subordinato e reddito/salario, mettendo insieme argomenti retorici doppi che risolvono i casi in modi opposti, incompatibili e che corrispondono a distinte visioni della natura umana e della realizzazione delle persone. Questa contraddizione, illuminata storicamente dai Critical Lega Studies, è almeno triplice:
1) è quella tra valori o desideri, ritenuti arbitrari e soggettivi, e fatti oggettivi e soggettivi nella ricerca della verità morale;
2) è quella tra individualismo e “altruismo” o comunitarismo(altruismo che Dunkan Kennedy identifica come l’accettazione di standard attenti alla situazione concreta, di principi ad hoc);
3) è quella tra volontarismo (l’azione umana sarebbe il prodotto della volontà individuale che si autodetermina) e determinismo (attraverso cui l’attività dei singoli è il risultato della struttura esistente).
Andrebbe, allora, recuperata l’originalità dell’analisi critica che risiede nel mostrare come queste opposizioni non siano delle opposizioni alternative, ma rientrino organicamente nella struttura della società contemporanea, la determinino sin dall’origine del sistema socio-politico ed economico capitalistico, il quale, quindi, non è in grado di superare realmente questi contrasti perché fondato su di essi.
Il diritto (la dottrina giuridica) è un’entità relativamente autonoma, nella quale non ci si scontra per finta ma in cui si combattono delle battaglie mortali per il potere da parte dei gruppi sociali organizzati.
Il pensiero giuridico tradizionale ha sempre privilegiato uno, e solo uno, dei termini della contraddizione fondamentale. É ora di smetterla di semplificare misurando retoricamente la giustezza dell’una o dell’altra posizione, è ora di provare a comprendere davvero l’incommensurabilità della cooperazione sociale e riappropriarsene, perché il domani che ci aspetta sarà caratterizzato dalla messa in opera di tutta la nostra potenza contro un sistema di controllo e sussunzione globale che noi stessi dobbiamo essere in grado di fronteggiare, guardando in faccia tutta la crudeltà della realtà che viviamo e vivremo.
Sarebbe molto utile, a mio avviso, provare a fare una ricostruzione storica delle modifiche della l. n. 300/70 e con essa confrontarci sulle opzioni possibili oltre che teoricamente anche in termini pragmatici, di proposta e lotta sul miglioramento delle tutele del lavoro (e del non lavoro) tout court, insistendo quindi sulla “disciplina” normativa applicabile ai casi concreti e non sulla “creazione di nuove fattispecie”, parametro privilegiato anche dalla Corte di Cassazione nella Sent. n. 1663 del 24/01/2020, che esprimendosi sull’art. 2, d. Lgs. 81/2015 in merito ai riders, ha esteso a questi ultimi tutte le tutele del lavoro subordinato, e parallelamente tenendo imprescindibilmente conto della urgenza di un reddito universale, incondizionato e dignitoso.
Breve bibliografia recente sul reddito:
CLAP – Camere del lavoro autonomo e precario, Che cos’è il “reddito di quarantena”?
BIN Italia:
– https://www.bin-italia.org/contro-la-subordinazione-diritti-reddito-liberta/
Cristina Morini, https://ilmanifesto.it/reddito-di-base-liberare-il-tempo-autodeterminare-la-vita/
Viaviana Lanza, https://www.ilriformista.it/il-naufragio-dei-diritti-dei-lavoratori-al-tempo-del-coronavirus-lallarme-del-sociologo-petrillo-66291/
Roberto Ciccarelli, https://ilmanifesto.it/la-scelta-del-governo-tra-un-reddito-di-emergenza-e-uno-incondizionato-anche-per-dopo/?fbclid=IwAR2KOgbqypqE5QQY9TSmHb0uIxciNcJK_kfp46DKsMUj-gCMplQj2HY1Lok
Intervista a Cristian Marazzi, https://www.forumalternativo.ch/2020/04/17/un-reddito-di-base-incondizionato-come-via-d-uscita/?fbclid=IwAR3vorI6MBFc7MS017DGeNnR-VeSp0bcy0alINbQpVmEbZzGwi2cjWmrc5w
Ugo Carlone, https://www.ribalta.info/unisola-di-certezza-il-reddito-per-tutti-nella-pandemia/
[1] B. Spinoza, “Lettera LVIII” in Epistolari, trad. it. E. Droetto, Einaudi, Torino, 1974, pp. 247 e ss.
[2] https://operavivamagazine.org/dentro-oltre-e-contro-la-societa-automatica/?fbclid=IwAR3QZ7O-eoL0m3rM17F7EXsY-9mY6vAFdQScqsnfIKC6ik-njRqLDr1639Q;
[3] B. Stiegler, La società automatica. 1. L’avvenire del lavoro, Meltemi editore, Milano 2019;
[4] T. Negri e M. Hardt, Il lavoro di Dioniso, manifestolibri, 1995, p. 13-17 “Il concetto di lavoro fa riferimento, innanzi tutto, al problema del valore. Nell’uso che ne facciamo, infatti, i concetti di lavoro e di valore si implicano a vicenda. Con lavoro intendiamo una pratica che produce valore. In questo senso il lavoro funziona come chiave di analisi della società permeata dalla produzione di valore. Mettere a fuoco il processo di valorizzazione sembra il metodo più adeguato per riconoscere la produzione non semplicemente come creazione di conoscenze e di identità, ma della società e delle soggettivazioni che la animano – in ultimo, per riconoscere la produzione della produzione…il lavoro non può essere definito semplicemente come attività, ma come specifica attività socialmente riconosciuta in quanto produttiva di valore”.
[5] Nella fenomenologia di E. Husserl (1859-1938), per “noesi” si intende l’aspetto soggettivo del processo conoscitivo, cioè la pluralità delle operazioni con cui si giunge a prendere coscienza dell’oggetto dell’esperienza (per es. il giudizio, il ricordo, la percezione, ecc.).
[6] B. Stiegler, La società automatica. 1. L’avvenire del lavoro, Meltemi editore, Milano 2019, pag. 281-284;
[7] K. Marx, Il Capitale, Libro Primo Il processo di produzione del capitale, Sez. Prima, Merce e denaro, par. 4 “Il carattere di feticcio della merce e il suo segreto”, Newton Compton Editori, Roma, 2005, pp. 76-77
[8] ivi, p. 181
[9] https://www.istat.it/it/files//2020/03/Nota-stampa-Rapprto-mercato-del-lavoro-2019.pdf, si confronti anche con https://www.documentazione.info/occupazione-in-italia-ecco-i-numeri;
[10] Corte di Cassazione, Sent. n. 1663 del 24/01/2020
[11] Su questo, già A. Gorz, Metamorfosi del lavoro. Critica della ragione economica, Bollati Boringieri, Torino, 1992, pp. 75-84
[12] A. Gorz, Il lavoro immateriale, …, pag. 17-19: ontinua Gorz, nel capitolo dedicato all’imprenditore di se stesso: “la sussunzione totale della produzione di se da parte del capitale incontra dunque dei limiti insuperabili, almeno fino a quando sussiste tra l’individuo e l’impresa, tra la forza-lavoro e il capitale, una eterogeneità che permette alla prima di sottarsi al gioco, di rifiutarsi alla messa al lavoro totale. Basta enunciare questo ostacolo alla sussunzione totale perché balzi agli occhi il mezzo per aggirarlo: la differenza tra il soggetto e l’impresa, tra la forza lavoro e il capitale deve essere soppressa: la persona deve diventare in se stessa un’impresa, deve diventare in sé stessa, in quanto forza-lavoro, un capitale fisso che richiede di essere continuamente riprodotto, modernizzato, valorizzato…deve essere il proprio produttore, il proprio datore di lavoro e il proprio venditore, costringendosi a imporsi i vincoli necessari per assicurare la vitalità e la competitività dell’impresa che essa è. Insomma: il salariato deve essere abolito”.
[13] F. Chicchi, A. Simone, La società della prestazione, Ediesse, 2017, sul tema dell’imprenditoria del se dal punto di vista sociologico.
[14] Karl Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, vol. I, Firenze 1968, p. 278-279
[15] ivi, 5. La vita è business, p. 19 -20 “dovranno esserci solo imprese individuali di prestazione di servizi individuali. Ciascuno deve sentirsi responsabile della propria salute, della propria mobilità, della propria attitudine agli orari variabili, dell’aggiornamento delle proprie conoscenze. Deve gestire il proprio capitale umano per tutta la durata della vita, continuando a investire in essa con stage di formazione, e capire che la possibilità di vendere la propria forza-lavoro dipende dal lavoro gratuito, volontario, invisibile mediante il quale saprà produrla continuamente di nuovo”. L’azienda potrà quindi scaricare su una massa di collaboratori esterni, interinali, temporanei, indipendenti veri o falsi, professionisti di alto livello, “una parte crescente del costo (del valore) della forza-lavoro. Essa esternalizza a loro spese tutto o una parte del costo della formazione continua, dell’assicurazione malattia, dell’assicurazione vecchiaia. Acquista i loro servizi trattandone il prezzo, li mette in concorrenza tra loro, si riserva la possibilità di far variare in forti proporzioni il volume di lavoro che chiede loro, senza doversi preoccupare della durata del lavoro stesso, senza dover licenziare, assumere, indennizzare”.
[16] Andrea Fumagalli, Cristina Morini, in Sociologia del Lavoro, 115/2009 – pp. 94-116, e liberamente scaricabile sul sito Academia.edu a questo link https://www.academia.edu/8658241/La_vita_messa_a_lavoro_verso_una_teoria_del_valore-vita, pag. 8 e 9 citate, ma si vedano anche i seguenti riferimenti alle pag. 3 e 4: “Nel biocapitalismo il valore risiede insomma, innanzitutto, nelle risorse intellettuali e relazionali del soggetto, e nella sua capacità di attivare scambi che possano essere tradotti in valore di scambio, cioè “monetizzabili”. Non si mette più sul mercato forza lavoro o astratte giornate-uomo bensì una soggettività con un suo patrimonio esperienziale, relazionale, creativo, la “potenza” del soggetto. Se nel modello fordista era facile calcolare il valore del lavoro sulla base di un output medio e di una professionalità legata all’esperienza e alla formazione del lavoratore, nel biocapitalismo il valore del lavoro perde quasi ogni possibilità di concreta definizione. L’autonomia del lavoro intellettuale rispetto a quello materiale non è un fatto naturale, originario e immutabile, nel capitalismo. Essa ha avuto possibili esplicazioni nel corso dell’organizzazione del lavoro e della produzione, particolarmente accentuate in determinate fasi storiche (il lavoro intellettuale che partecipa alla direzione e all’organizzazione del lavoro manuale). Tutto ciò è ancora effettivo, oggi? La produzione e l’organizzazione del lavoro propri del biocapitalismo non vanno introducendo qualcosa di diverso, oggi? Che cosa si intende per lavoro materiale e che cosa per lavoro intellettuale? Sia il lavoro intellettuale che quello materiale devono essere ricondotti, per capirne la reale funzione, non a una categoria generale ma in “forma storica determinata”. Ragionare sul problema del valore presuppone anche la messa in discussione di una separazione che ci appare, anch’essa, poco rappresentativa di una realtà che sembra attualmente avere piuttosto nella sussunzione di tutte le differenze uno dei suoi principali punti di forza. La complessità del mondo viene scomposta e messa al servizio di un criterio di produttivita”, ma si veda anche Cristina Morini, https://operavivamagazine.org/la-cura-del-capitale/?fbclid=IwAR2QNJmtI5ywlt-j_bYn4X1_apYIb7VL2PxGr-iJWOz9AuF0Zn9jlMwpRK4
[17] S. Apa, Smart working al tempo del Coronavirus fra diritto alla disconnessione e poteri di controllo, http://ilgiuslavorista.it/articoli/focus/smart-working-al-tempo-del-coronavirus-fra-diritto-alla-disconnessione-e-poteri-di;
[18] Sul reddito di base, onde evitare di dilungarmi oltremodo, alla fine del saggio, indicherò una bibliografia base sul tema, prodotta solamente negli ultimi mesi, in cui il dibattito su questo corposo e significativo tema, si è moltiplicato esponenzialmente.
[19] https://www.quodlibet.it/giorgio-agamben-una-domanda
[20] A. Andronico, La decostruzione come metodo. Riflessi di Derrida nella teoria del diritto, Giuffrè Editore, Milano 2002.