di BENEDETTO VECCHI

Tempi presenti. Il volume di Martin Ford sull’«ascesa dei robot» e «La quarta rivoluzione industriale» di Karl Schwab. Un sentiero di lettura sui processi di automazione del lavoro umano

Ray Kerzweil è un informatico diventato miliardario per alcuni programmi dedicati al riconoscimento da parte di un computer dei caratteri scritti su carta, alla simulazione del suono di strumenti musicali, alla gestione di archivi usati da medici per le diagnosi dei propri pazienti.

La sua è la storia di tanti altri computer scientist che hanno contribuito alla lunga parabola ascendente dell’industria digitale. Il suo nome è tuttavia citato con ammirazione da alcuni e con disprezzo da molti studiosi per la sua tesi della «singolarità tecnologica», in base alla quale lo sviluppo di una tecnologia non ha nessuna linearità, perché si arricchisce di elementi imprevisti che possono determinare il suo momentaneo declino e una successiva repentina accelerazione.

Kerzweil sostiene, a differenza di quanto affermano molti storici della scienza, che non è possibile prevedere le linee di sviluppo tecnologico. Possono essere immaginate, raffigurate, ma questo non significa che siano confermate nel corso del tempo. A sostegno di ciò cita molti casi di tecnologie considerate «rivoluzionarie» – l’ultimo in ordine di tempo sono i google glass – poi abbandonate precipitosamente. Questo non significa che non possono riemergere in un secondo momento, perché la tecnologie è ineffabile, quasi vivesse di vita propria. Accusato per questo di misticismo, l’informatico statunitense è però usato per analizzare il rapporto di causa ed effetto tra automazione e crescita della disoccupazione. La «singolarità tecnologica» funziona, infatti, un po’ come i buchi neri: puoi vedere il vortice che li caratterizza, ma è negata la possibilità di poterne vedere il centro.

NESSUNO POTEVA PREVEDERE il passaggio dai microprocessori al personal computer e da questo all’insieme dei dispositivi digitali che comunemente sono ormai usati. Per quanto riguarda l’automazione è certo che i robot, i computer cancellano alcuni tipi di lavoro, compresi quelli cosiddetti cognitivi, ma non è altrettanto certo che al loro posto ne saranno «inventati» altri in egual misura. Inoltre, e qui subentra un’altra legge della computer science, quella di Moore attestava il fatto che ogni diciotto, ventiquattro mesi la potenza di calcolo dei microprocessori sarebbe raddoppiata. Quel raddoppio si è verificato più o meno con regolarità e, unito all’analoga accelerazione produzione di software, ha portato alla cancellazione di milioni di posti di lavoro.

La tesi di Kerzweil e la legge di Moore attestano che lo sviluppo economico sarà contraddistinto da poco lavoro, perché oltre a quello manuale l’automazione riguarda e riguarderà sempre più lavori «intellettuali».

È QUESTO IL FILO ROSSO del saggio di Martin Ford tradotto con il titolo Il futuro senza lavoro da il Saggiatore (pp. 339, euro 24), anche se il titolo originario era molto più inquietante, visto che alludeva all’«ascesa dei robot». Ma è anche lo sfondo di altri due libri. Il primo è di Klaus Schwab, presidente del World Economic Forum. Ha come titolo La quarta rivoluzione industriale (Franco Angeli Editore, pp. 208, euro 25) ed è stato salutato come il grido di allarme dei capitalisti sui rischi di implosione e di deflagrazione dell’economia globale se la politica non si fa carico della crescita della povertà e delle progressive disuguaglianze sociali attraverso misure di sostegno al reddito. Il terzo volume, che raccoglie saggi scritti da ricercatori e attivisti, è dedicato invece al Platform capitalism e i confini del lavoro negli spazi digitali (Mimesis, pp. 136, euro 14).

Martin Ford, l’autore del primo libro, argomenta con cautela la sua tesi – il lavoro è destinato a essere una risorsa scarsa e destinata a diventare marginale, irrilevante nella produzione della ricchezza – perché sa che negli Stati Uniti il tema che affronta è materiale incendiario per le guerre culturali che si conducono in quel paese. La stragrande maggioranza degli economisti lancerebbero infatti anatemi e fatwa contro punti di vista dove le macchine provocano mancanza di lavoro, crescita di povertà e l’emergere di una moltitudine di uomini e donne condannati a vivere di lavoretti e salari da fame. Per mettersi al riparo da eventuali critiche, crea una cesura netta nello sviluppo industriale e tecnologico.

FINO AGLI ANNI SETTANTA, la tesi, coronata anche da Nobel per l’economia, che lo sviluppo tecnologico favoriva la crescita della ricchezza e che l’aumento della produttività individuale e collettiva consentiva l’aumento dei salari e la crescita di nuove industrie che assorbivano gli «esuberi» tecnologici di altri settori economici è stata sempre confermata. Su questo dato Ford ritorna con frequenza nel suo ponderoso libro. D’altronde, è stato così con il passaggio dall’agricoltura all’industria; è stato così con l’avvento delle società dei servizi. Con le tecnologie dell’informazione questo circolo virtuoso però si rompe. La diffusione dell’automazione non riguarda più le industrie, ma anche gli uffici e tutte quelle attività che hanno determinato la crescita numerica della middle class.

Le attività finanziarie, l’insegnamento, la sanità, la ristorazione sono i settori che hanno visto un’emorragia ancora in corso di lavoro, che non è stata certamente compensata dallo sviluppo di indistria high-tech o del software.

Sono imprese che agiscono a livello globale, che hanno fatturati e profitti di gran lunga superiori dell’industria automobilistica dei tempi d’oro, ma hanno numeri di dipendenti a livello mondiali risibili.
Google ha poco più di quarantamila dipendenti e alimenta un indotto di altri trenta, quarantamila lavoratori a livello mondiale: niente a che vedere con le centinaia di migliaia di dipendenti diretti e da indotto delle grandi case automobilistiche fino agli anni Novanta. Per questo, afferma Martin Ford, è corretto parlare di workless society, cioè di società senza lavoro. Ciò è dovuto proprio alle caratteristiche delle tecnologie dell’informazione, che come un virus hanno colpito tutte le attività produttive. La «singolarità» di queste tecnologie sta proprio nella loro imprevedibilità evolutiva, ma è certo che accentueranno la sostituzione del lavoro umano, anche di quello «intellettuale», con le macchine.

IL SAGGIO DI FORD ha molte chiavi di lettura. Ad esempio può essere letto come un prezioso manuale di come l’intelligenza artificiale, le nanotecnologie, il software non conoscono, al momento, nessun limite al loro sviluppo. Anzi, è ragionevole supporre che la trasformazione dell’intelligenza artificiale in una vera e propria industria determinerà una accelerazione ulteriore nella sostituzione del lavoro umano con le macchine. L’intelligenza artificiale che diventa industria è un campo poco esplorato nella descrizione del capitalismo contemporaneo. Quel che è certo è che viene applicata in molti campi, dalla produzione del software, alla finanza, alla medicina, alla biologia. I casi più evidenti sono la finanza e la medicina. Ormai le decisione borsistiche sono infatti gestite al settanta per cento da algoritmi che dall’esterno potrebbero apparire intelligenti. Lo stesso è la diagnosi assistita dai sistemi esperti. Ma altri sono gli esempi che si impongono all’attenzione: le automobili semiautomatiche di Google, la gestione dei big data ai processi di consegna sempre più automatizzati di Amazon, i progetti di sviluppo di computer basati sulla simulazione delle reti neurali.

Un futurologo resterebbe deliziato dalla lettura delle pagine dedicate alle industrie del futuro. Un entusiasmo che non appartiene certo all’autore: avverte che quella che sembra essere una linea di sviluppo promettente potrebbe rivelarsi poco più che un insieme di prototipi buoni solo ad accumulare conoscenze propedeutiche al posto di altre linee di sviluppo.

IL LIBRO, TUTTAVIA, rivela inaspettate deviazioni da una scrittura tesa a tranquillizzare e non irritare lettori e altri studiosi quando affronta le ricadute sociali dell’ascesa dei robot. Ford respinge decisamente l’idea che la distruzione del lavoro nei punti altri dello sviluppo economico sia compensata dalla crescita occupazionale in paesi emergenti.

Questo è accaduto per una manciata di anni, ma è dal 2009 che in Cina, India la crescita di operai nelle industrie ha conosciuto un rallentamento, mentre dal 2014 la Cina ha visto ridurre il numero di operai, mentre è la disoccupazione ha raggiunto livelli impensabili solo due, tre anni fa. Lo stesso sta accadendo in India. Non è neppure convinto che per fronteggiare la disoccupazione di massa basti investire in ricerca, sviluppo e formazione permanente, perché la disoccupazione intellettuale nei paesi che hanno dedicato ingenti risorse economiche per l’istruzione è ormai un fenomeno strutturale. La ricerca e sviluppo conosce analoghi processi di automazione: anche qui non è prevedibile un «travaso» di laureati vesto i laboratori di ricerca.

ALTRETTANTO RILEVANTI sono la crescita di diseguaglianze, di stagnazione dei salari, della crescita esponenziale dell’indebitamento individuale per accedere all’acquisto di beni e servizi. Temi che il direttore del World Economic Forum Klaus Schwab ripete come un mantra da recitare ai «leader politici globali», mentre le le imprese devono continuare a fare il loro lavoro, cioè fare profitti, perché un buon imprenditore non può rinunciare alla sua mission. E se poi questo provoca una situazione dove l’un per cento della popolazione mondiale si accaparra l’ottanta per cento della ricchezza non è un loro problema. Gli imprenditori non ragionano certo come Occupy Wall Street e le risposte ai problemi sociali toccano ai politici, magari con scelte non manageriali, come il reddito di cittadinanza, misura caldeggiata a patto però che non violi le compatibilità dettate proprio dalle imprese.

TESI ALL’OPPOSTO di quanto scrivono e argomentano i ricercatori del libro dedicato al capitalismo delle piattaforme, che spostano, giustamente, il centro delle loro analisi dalla tecnologia al lavoro, sempre più precario, sottopagato, senza diritti. È merito loro ricondurre la critica all’economia globale, ai rapporti sociali di produzione e non alla presunta naturalità dello sviluppo economico o tecnologico. La jobless society merita molta più immaginazione teorica, e dunque politica, se non si vuol rimanere pietrificati guardando la Medusa del capitalismo. Immaginazione che non viene certo dal presidente del World Economic Forum. O dalla passione per la tecnologia di Martin Ford.

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