di TONI NEGRI.
1. È l’ora di un secondo Manifesto di Ventotene
C’è una cosa che colpisce: con l’elezione di Hollande, l’Unione europea sembra divenire irreversibile. Ma subito ci chiediamo: resterà la Grecia dentro l’Euro? Senza saper rispondere, ci prepariamo tuttavia a sentirne il tonfo, fuori dall’Euro, come a gioirne se non avvenisse.
Ci sono poi i Paesi bassi: resteranno nell’Unione dopo le prossime elezioni o ne usciranno dall’alto di una condizione egoista e, come già fatto dalla Gran Bretagna, ostinatamente neoliberale? Ne abbiamo il forte sospetto. E però queste due possibili evenienze ci preoccupano meno di quanto facessero prima delle presidenziali francesi: l’Europa resterà. Non perché a Camp David gli 8 abbiano deciso di coniugare, come dicono elegantemente, “rigore e crescita” (egualmente si tratta di “lacrime e sangue”) ma perché con tutta probabilità, la resistenza al progetto bismarckiano dei padroni europei comincia a risuonare irresistibile. A noi sembra infatti – lo ripetiamo – che con le elezioni di Hollande la rotta già catastrofica dell’Unione si stia modificando. Ma se il riapparire di una forza socialdemocratica (in Francia come per altri versi in Germania) conferma e rafforza il cammino verso l’Europa, chiediamoci: ne varrà la pena? Molti compagni ne dubitano. Ed è di questo problema che dobbiamo ora discutere.
Un nodo è in effetti da districare. Se da un lato moltitudini importanti sembrano desiderare l’Unione e ormai considerare l’Europa il loro paese, dall’altro lato il rifiuto dell’Europa è propagato e armato, in forme populiste e demagogiche, da forze stolte e violente. La mia opinione è che il nodo deve essere reciso e che ci si debba ormai schierare, se ancora non è avvenuto, decisamente e senza riserve, sul terreno europeo – e che, ciò assunto, ormai non si debba più porre il problema se l’Europa si farà o no, quanto chiedersi: quale Europa? È infatti solo alla luce di un programma economico, politico e di una realistica proposta sociale e culturale che si potrà rispondere alla questione: Unione europea, ne vale la pena? D’altra parte, è solo sulla dimensione europea che l’austerità potrà essere superata, una soluzione della crisi potrà darsi senza il massacro dei cittadini e che, allora, forse, alla linea di Bismarck che Berlino sta imponendo (per dirlo con una metafora storica che allude al processo dell’unificazione tedesca) si potrà opporre una linea democratica, un 1848 delle “forze del comune”.
Probabilmente la vittoria di Hollande permette di attrezzarsi a questo passaggio. Meglio, riprendendo la metafora, riapre la possibilità, se non di evitare assolutamente una realizzazione bismarckiana dell’unità europea, di relativizzarla, di riaprire le opzioni sul senso economico, politico, sociale e culturale dell’Unione – opzioni che né la costruzione giuridica, amministrativa e monetaria dei bei tempi andati prima della crisi, né la gestione “Merkozy” (Merkel + Sarkozy) del direttorio europeo nella crisi permettevano. È un risultato minimo, a fronte dei problemi che assalgono le moltitudini europee – ma forse è un nuovo punto di partenza. Non abbiamo illusioni su quel che Hollande e la socialdemocrazia hanno in testa. Il loro “debole” riformismo (anche se non flaccido come quello di Blair e di Schröder) è radicale ed inguaribile. Se la crisi non avesse determinato il disastro sociale ed economico al quale assistiamo, mai si sarebbero (Hollande e la socialdemocrazia) sentiti costretti a rinunciare a quell’“estremismo del centro” che, a partire dagli anni settanta, ha sempre inclinato il loro spirito (con la sola sospensione dei due “mirabili” anni rivoluzionari di Mitterrand… ma non è una favola troppo ripetuta da poter esser vera?).
Cogliamo dunque l’occasione! È dentro questo quadro che possiamo riaprire una speranza di lotta contro la crisi – speranza “commoner” (come dicono i comunisti) o “albigese” (come fa chi trasforma un acronimo, l’ALBA, in un’iperbole eroica) – tenendo presente che solo nella dimensione dell’Unione europea essa si può realisticamente affrontare. Insistiamo su quest’ultimo punto. La lotta contro la crisi non può darsi che sul livello globale – con forze, dunque, adeguate e collocate su questo livello. Se non c’è Unione europea, non si può dare lotta contro la crisi, perché la crisi è stata costruita dal capitalismo finanziario globale per demolire l’Unione.
È noto che, dopo il 1989, il processo di globalizzazione economica, chiedendo ordine politico e giuridico, è stato investito dalla volontà imperiale Usa e subordinato all’ordine americano. Ma ciò è durato poco. Già all’inizio del ventunesimo secolo quell’unificazione politica si è rivelata illusoria: si sono piuttosto presentati sull’orizzonte globale (certo definitivamente unificato) in ordine sparso quattro o cinque protagonisti continentali della scena mondiale (con gli Usa, la Cina, il Brasile, l’India) e… l’Europa? Gli Usa stanno infatti consumando ed esaurendo la loro egemonia imperiale, il capitalismo mondiale è assai preoccupato per questa decadenza. Avviene dunque che, se nel secondo dopo guerra la potenza americana ha sollecitato il processo di unificazione europea in esclusiva funzione antisovietica, quando l’Europa, dopo il 1989, comincia a costituirsi indipendentemente, sviluppa un’economia potente ed un modello sociale relativamente autonomo (cioè non totalmente dominato – economia “sociale” di mercato – dalla logica del profitto), impone la propria moneta e si presenta dunque come concorrente ed alternativa agli Usa sul mercato mondiale, allora gli americani (e il ceto finanziario globale) si schierano contro l’unità europea. Gli Usa ritengono illusoria un’Europa politicamente e militarmente unita e preferiscono di gran lunga una zona di stabilità strategica estesa fino alla Turchia ed, eventualmente, ad Israele. Così, con furia e disprezzo, banchieri, politici ed economisti anglosassoni profetizzano la fine dell’Unione e della moneta unica. Non a caso, allora, si riapre sul terreno europeo la lotta di classe, fra il ceto capitalista ricomposto al livello globale e le moltitudini europee: una lotta fredda ma decisiva, sufficiente per dare l’avvio all’attuale profondissima crisi economica e sociale (in Italia Marchionne è l’estremo simbolo di questa provocazione). Questa crisi, l’attuale, quella che sgorga dalla relativa soluzione della precedente 2008-2009, è costruita e rivolta contro l’unione politica dell’Europa. Flagellata da questa crisi, l’Europa non trova, e non può trovare, soluzioni o alternative nell’ordine neoliberale. Gli Usa la schiacciano, per non essere – perduta l’antica egemonia – essi stessi travolti da nuovi antagonismi imperiali. Ma l’Atlantico ormai è diventato troppo profondo: anche la socialdemocrazia sembra percepire la necessità di tagliare il cordone ombelicale con Washington.
E allora? Paradossalmente ci si presenta un’occasione unica di riaprire una lotta che tenga assieme il progetto di unione europea e una prospettiva di ricostruzione di politiche del comune – nell’istruzione, nell’abitazione, nella sanità e a favore delle forme di vita civile, insomma di un Welfare biopolitico. Cogliamo dunque quest’occasione! Battiamoci per il reddito di cittadinanza, mostrando che esso non è contradittorio con la lotta contro la disoccupazione che Hollande promette, né contro l’aumento del potere d’acquisto dei salari – battiamoci per il pensionamento a sessant’anni – per la patrimoniale al settantacinque percento e per una riforma radicale degli istituti bancari, ecc., ecc. – integriamo, insomma, contro il modello neoliberista, quello che è contenuto nel programma di Hollande. Chiediamo infine la rinegoziazione del trattato europeo seguito all’accordo del 9 dicembre 2011 e affermiamo l’appoggio ad un patto di responsabilità, di governance e di crescita per uscire dalla crisi, ecc., sollecitando un processo di investimenti anche se per produrlo sono necessari movimenti inflazionistici per qualche anno! L’inflazione diffonde le lotte moltitudinarie, attacca la rendita e mette fuori gioco le misure e l’ordine capitalistico della crisi: l’inflazione è una buona arma per i proletari che vogliono decostruire il potere dei padroni e ricostruire la democrazia.
Molti di noi hanno spesso vissuto con grande pena ed imbarazzo le loro convinzioni europeiste. La loro consapevolezza che solo su base continentale europea era possibile una politica di grandi rivolgimenti sociali e la costruzione di istituzioni del comune, per due volte veniva contrastata ed indebolita: dalla forza del liberalismo angloamericano (al quale aderivano le aristocrazie europee) e dal diffuso sospetto che settori vivaci e forti della sinistra europea nutrivano verso la storia e le dinamiche neoliberali della costruzione europea.Ebbene, ora diviene possibile cogliere realisticamente l’occasione per mettere assieme Europa e rivoluzione sociale, per lottare in maniera efficace, nella crisi, contro il neoliberalismo. Da tempo andiamo immaginando la possibilità di un secondo Manifesto di Ventotene – un manifesto nel quale alcuni antifascisti confinati nei primi anni ’40 componevano una risoluta convinzione europeista, una durissima polemica contro il fascismo e gli Stati-nazione ed un programma di giustizia e libertà che configurava avanzati obbiettivi sociali.
Con la vittoria di Hollande, il fronte bismarckiano è, se non rotto, profondamente indebolito. La politica americana è in difficoltà su troppi fronti, per poter difendere anche in Europa la più stolta conservazione: qui da noi, per ora, essa si ritrae e ci lascia come cadeaux la forza dei Le Pen ed i deliri antieuropei e antieuro dell’estrema destra. Cogliamo l’occasione per adottare una vecchia tattica (inseguire il riformismo, attaccandolo) per realizzare una nuova strategia del comune sullo spazio europeo. Hollande si è molto esposto sul terreno del riformismo. Mélenchon e il Front de Gauche possono esprimere una pressione efficace, i greci di Siryza con ottimismo della ragione si muovono sullo stesso terreno. Ma sono solo le lotte delle moltitudini proletarie, sempre più dure, che potranno rovesciare quelle tendenze, finora irresistibili, che separano la costituzione europea dalla rivoluzione sociale.
2. Un programma del “comune”, dunque
Per l’Europa, un programma, dunque. Il dibattito si è aperto anche chez nous, sul programma di una “costituzione del comune” – per l’Europa. Due progetti – ed una realtà – si sono fin qui proposti. Fra i progetti quello dell’alleanza “Uniti contro la crisi” e quello della costituzione di un “Nuovo soggetto”. Nella situazione italiana essi sono o direttamente (“Uniti contro la crisi” nel rapporto con il sindacato e con Sel) o indirettamente (il “Nuovo soggetto” nella sua relazione privilegiata con l’IdV e con le improbabili avanguardie del “popolo viola”) subordinati alla “socialdemocrazia parlamentare”. Di conseguenza, questi due progetti sono fin qui compresi come complementari alla dinamica della vecchia sinistra ovvero rappresentati come lobby politiche. Non è dunque casuale il fatto che, quando l’enorme spinta prodotta dal referendum sull’acqua (nel quale queste forze furono protagoniste) è stata assorbita e vanificata dal regime dei partiti, questi movimenti comincino ad esser scavalcati da forze iconoclaste più radicali (come il movimento 5 Stelle che va a rappresentare spazi già occupati dai referendari): così non potranno consolidarsi se non si riqualificano come movimenti extraparlamentari che agiscono su un terreno costituente. C’è una realtà, di contro, che interpreta e costruisce istituzioni del comune – in Italia l’esempio è quello delle compagne e dei compagni – delle forze sociali – riunite nella lotta contro il TAV. Ma questa realtà è anche quella delle lotte spagnole promosse dal 15M, dai greci e dal fervido riaprirsi del “fronte continentale” a Francoforte – riprendono modelli dagli Occupy americani e canadesi. È insomma quella di tutti i soggetti che in questa fase promuovono e vivono la lotta di classe contro il capitalismo finanziario. Il programma che attraversa queste “realtà” di lotta spinge i movimenti alla contestazione, meglio, oltre la proprietà privata, contro i meccanismi e le figure dello sfruttamento capitalista, nel nome della costruzione di un programma di riappropriazione “comune” di quanto il capitale globale (organizzato dalle banche e dalle potenze finanziarie, private o pubbliche che siano) ha espropriato.
Si dà, in particolare, che l’oggetto di questo esproprio privato sia proprio il “pubblico” – a partire dalle istituzioni del Welfare – e che il progetto bismarckiano di costruzione europea, gestito dalla Merkel, rappresenti una tendenza alla “patrimonializzazione” capitalista della stessa sovranità – cioè all’affermazione del comando finanziario diretto come propulsore dinamico della civilizzazione capitalista, come organizzatore della captazione del plusvalore sociale e quindi delle costituzioni politiche. Come è noto, nell’attuale fase dello sviluppo capitalista, lo sfruttamento (cioè l’estrazione di plusvalore) investe le condizioni della produzione e della riproduzione di capitale e si realizza a livello sociale. La lotta di classe si svolge dunque su questo medesimo terreno. Contro la proprietà privata, in particolare, che, se un tempo era garantita dalla sovranità statale ed inquadrata nel dominio pubblico, oggi ha del tutto subordinato ed assorbito il “pubblico”. La proprietà privata, attraverso gli strumenti finanziari nei quali ormai si incarna, ha reso funzionale il “pubblico” (come comando amministrativo, come potenza fiscale, ecc.) al suo proprio sviluppo. Quindi i proletari, i precari, gli operai e tutti quelli che nei servizi sociali sono impiegati alla riproduzione della società, non fanno male a considerare obiettivo della loro lotta, quello diistituire il comune – e cioè di distruggere il carattere sacro ed assoluto della proprietà privata e a configurare – riappropriandosene – i beni/merci prodotti come “usi” dei cittadini, funzioni comuni per la comunità – la quale avrà dunque “accesso” non solo al loro godimento ma anche alla loro gestione. Nella democrazia, l’accesso, l’uso e il godimento liberi dei beni prodotti socialmente (molti ormai ne sono convinti) possono essere goduti – esattamente come avviene per i beni/merci/strumenti costituiti in rete e per le strutture cognitive che organizzano la cooperazione sociale. E ormai le producono.
Ciò detto, sono convinto che le lotte per il comune non abbiano esiti certi e meno che mai predeterminati. Ma vorrei che, pur sapendolo, l’obiettivo della lotta comune per il comune fosse chiaro e tenuto per definitivo. Troppe volte abbiamo visto, anche recentemente, forze politiche nuove, a fronte di esiti politici incerti, fare scelte incerte, talora opportuniste e così vanificare (attraverso la sua gestione) anche l’obiettivo. L’esempio più evidente e pesante è stato offerto dai Grünen tedeschi che, proprio attorno a lotte per/nel comune, hanno dissipato e perduto, assieme alle caratteristiche inizialmente sovversive del loro progetto politico, anche l’originale e forte luogo politico dal quale era organizzata la lotta. Nessuno di noi potrà infatti mai dimenticare che il verde Joschka Fischer è stato il miglior collaboratore di Schröder nel piegare al mercato globale la forza della classe operaia tedesca, nell’introdurre il precariato e l’immiserimento della forza-lavoro cognitiva in Germania – condizione necessaria per la decostruzione del progetto democratico e per la definizione di un profilo bismarckiano dell’Europa unita. È così che oggi i Grünen possono allearsi sia con la socialdemocrazia che con le forze di destra – in Germania lo fanno, in Francia ci hanno provato con minor fortuna, ma ormai lo scivolo generale è maturo.
Forse è per questo che, anche condividendo l’orrore suscitato in Guido Viale dalla parola “benecomunisti”, la preferisco, certo provvisoriamente, ad ogni alternativa che lasci a lato o in subordine il riferimento al comunismo. E credo anche, per non giocare con le parole – fingendo altezzosamente di indicare degli obbiettivi realistici – che concetti come classe operaia, operaio massa, operaio sociale, moltitudine difficilmente possano essere considerati funzioni o illusioni dialettiche da chi abbia partecipato (come Viale ha fatto) alle lotte di Mirafiori ‘60-’70 o a Genova 2001: a meno di non richiamarsi ad Asor Rosa e di continuare a pensare che quelle lotte fossero i prodotti di una volgare e riottosa “seconda società”.
Siamo dunque ad un passaggio cruciale. Il secondo Manifesto di Ventotene è un manifesto per l’Europa comune, per la connessione della lotta per la costruzione dell’Unione europea e per il comune. Una lotta da condurre con “amore dell’umanità”, come efficacemente dicevano e facevano i nostri nonni, ed ostracizzando quel “pessimismo della ragione” (che più iettatorio di così!)… al quale taluni ancora osano richiamarci: da che pulpito, con quale diritto?