di CECCO BELLOSI.
Quando stavo in carcere mi piacevano le letture con andamento lento, da assaporare pagina dopo pagina. Mi servivano per evadere complice nei paesaggi dell’anima e della natura, tra l’innocenza della follia che mette a nudo le miserie degli uomini e il fascino della malattia senza fine alla ricerca del senso del mondo nella Russia del principe Myskin o sulle Alpi svizzere di Hans Castorp. Del resto, i tempi del carcere e i tempi del sanatorio sono infiniti, nel trascorrere corrosivo dei giorni e nell’incedere impalpabile degli anni.
Fuori le letture hanno assunto, come tutti i consumi, sapori veloci. Senza contare la delusione dei luoghi: ricordavo Davos con gli occhi incantati di un bambino, l’ho rivista devastata dal cemento di alta montagna, quello che rende ormai simile Sankt Moritz a Sesto San Giovanni, e sede di un celebrato summit della finanza dove, in mezzo alla neve, si decide ogni anno quale strategia adottare per distruggere l’umanità. Davos è la nuova Gomorra, molto più di Casal di Principe.
Fuori mi interessano i libri che raccontano le istituzioni totali, la cui logica ormai pervade tutte le istituzioni, e che tendono a costruire l’ineluttabilità dei destini, soprattutto nei passaggi dall’infanzia all’adolescenza e dall’adolescenza a una sempre più lontana età adulta. All’ineluttabilità del destino contribuiscono tutti gli attori in campo, dalle vittime predestinate ai carnefici inconsapevoli. Renato Vallanzasca, con la capacità di sintesi che stranamente lo distingue quando parla di se stesso invece che del mondo, dice: «C’è chi nasce per fare lo sbirro, chi lo scienziato, chi per diventare Madre Teresa di Calcutta. Io sono nato ladro». Renato ha ragione, ma solo in parte: nel suo ego un po’ autoreferenziale vede le capacità di scelta, e quindi la responsabilità personale, estendersi fino ai primi giorni di esistenza al mondo.
Anche uno dei due libri di cui vorrei parlare, Little Boy Blue di Edward Bunker, sembra in alcuni passaggi voler andare in questa direzione, anche se poi il discorso si fa maledettamente complesso. Descrive così, infatti, una delle compagnie all’interno della Casa di Custodia per Minori: «Erano tutti nel pieno dell’adolescenza, potenzialmente diplomati in delinquenza giovanile e a passare alla scuola del crimine adulto. Avevano il collo della camicia rialzato, e anche le maniche erano rimboccate. Indossavano scarpe con la suola doppia e rinforzi di ferro ai talloni: accessori molto alla moda nonché armi improprie. Ultimo dettaglio, i pantaloni erano pericolosamente bassi sulle anche, gli orli arrotolati, in modo che le gambe parevano ridicolmente corte e i torsi grottescamente lunghi. Alcuni mimavano in silenzio i cantanti alla radio, voci nere e roche che interpretavano rhythm and blues, sostenute dal suono vischioso dei sassofoni. Lulu era lì, completamente rilassato, una mano agganciata alla cintura, i tratti olivastri pieni di boria. Alex si disse che Lulu aveva un aspetto strepitoso…».
Non a caso, Quentin Tarantino ha scritto che questo è il miglior romanzo sul crimine che gli sia capitato di leggere. La vicenda si svolge in California, tra gli ultimi anni della Seconda Guerra Mondiale e i primi anni del Dopoguerra. Alex Hammond è un bambino povero, abbandonato dalla madre, con il padre come unico affetto, che finisce per lasciarlo solo infilandosi con la macchina sotto un camion nella ricerca disperata del figlio che, in una delle sue fughe dagli istituti correzionali, ha sparato a un uomo durante una rapina. Alex passa da un istituto all’altro, dalle carceri minorili ai manicomi, da evasioni a nuovi internamenti, in cui, nella sua intelligenza inquieta e vivace, apprende due principi vitali: la violenza per sopravvivere nel gruppo dei pari e la strenua resistenza alla violenza truce e sottile del potere. Alla prima si adegua, il potere lo indigna: così viene dapprima considerato un caratteriale, poi proprio un matto. Perché il potere, e la psichiatria che del potere è una delle protesi, da che mondo è mondo chiama matti coloro che non capisce. Ed è difficile distinguere su chi è peggio tra chi ti picchia con i manganelli e chi ti brutalizza con l’elettrochoc.
«Si stava lentamente facendo strada nella sua giovane mente l’idea che coloro che erano in posizione di autorità non si curavano affatto del bene e del male, di ciò che era giusto e di ciò che non lo era: la loro unica preoccupazione era di tiranneggiare i sottoposti. E ancora: all’ospedale psichiatrico ogni comportamento incongruo era considerato sintomo di malattia mentale. E pertanto era curato, anziché punito, e Alex era terrorizzato dal trattamento in questione». Sull’altro versante, «le brutalità della casa di detenzione lo avevano preparato a questo, insegnandogli che la violenza era la norma ovunque le relazioni tra gli uomini erano regolate da rapporti di potere».
La repressione e la cura coatta come semplici tonalità diverse dello stesso tema.
Alex Hammond una sola cosa aveva faticato a comprendere, a dirci che il razzismo è una costruzione adulta e che sfugge agli occhi a volte cattivi ma innocenti dei bambini: la dimensione etnica. Lui era un bianco, povero, ma bianco. Quei luoghi di contenzione erano pieni, ieri e oggi, di neri e, trattandosi della California, di chicanos. «Sette chicanos si erano fatti pizzicare a bordo di una Cadillac Coupe De Ville rubata. A peggiorare le cose, gli sbirri avevano trovato un’oncia di marjiuana in una scatola di tabacco Prince Albert sotto il sedile dell’automobile. Gran parte dei nuovi arrivati erano frequentatori abituali del posto o di posti affini…Quelli che conoscevano già la prigione la odiavano visceralmente, ma non ne avevano paura, e la paura era il randello della società. Erano quelle le condizioni che rendevano l’individuo peggiore di quanto non fosse. Ed era la paura dell’incarcerazione, non l’incarcerazione in sé, che faceva rispettare la legge e l’ordine».
Una crudeltà gratuita e rafforzante muoveva e muove le istituzioni totali vecchie nuove, esplicite e nascoste. Come, con il piglio dello scrittore, sintetizza Jean Genet, che era stato uno di quei ragazzi in Francia, in Il giovane criminale: «Da qualche anno uomini di buona volontà tentano di addolcire la situazione carceraria. Sperano – e qualche volta ci riescono – di guadagnare qualche anima alla società. Di farci, così dicono, tornare sulla retta via. Fortunatamente le riforme sono solo superficiali, non alterano la sostanza…Se non riuscite a conquistare i ragazzi con la dolcezza potete sempre guarirli, perché avete i vostri psichiatri. A proposito di costoro, basterebbe porre qualche semplice domanda, di quelle che sono state poste cento volte. Se la loro funzione consiste nel modificare il comportamento morale dei ragazzi, sarebbe per condurli a quale morale?…So che si tratta della morale corrente, e la psichiatria se la cava affibbiando ai ragazzi il bel nome di disadattati. Che cosa posso rispondere? Alla vostra furbizia opporrò sempre la mia astuzia. Oggi, poiché è stato permesso, grazie non so a quale errore, a un poeta che fu dei loro, di parlare a questo microfono, voglio ripetere ancora una volta la mia tenerezza per questi ragazzini spietati. Non mi faccio illusioni. Parlo nel vuoto e nel buio, tuttavia, magari soltanto per me, voglio ancora insultare coloro che insultano». Jean Genet era stato invitato nel 1948 dalla Radio francese: quando i dirigenti lessero il contenuto del discorso che intendeva tenere ne vietarono la diffusione. Ovviamente fu censurato perché la verità può essere sussurrata, ma deve rimanere nascosta.
Il problema non sono soltanto gli psichiatri, ma sono gli psicologi, gli assistenti sociali, gli educatori, i preti, gli insegnanti, tutti noi che esercitiamo controllo e potere nel nome del potere, ma che ci sentiamo innocenti nel costringere l’altro ad aderire al nostro sistema. Quello che, direttamente o indirettamente, ci paga per svolgere questo lavoro sottile che ci fa sentire protagonisti del sociale. Non come gli sbirri, che almeno vestono la divisa: recuperiamo, riabilitiamo, riportiamo sulla retta via persone che hanno deviato alle regole di una società fondata sulla diseguaglianza, l’ingiustizia, l’immoralità.
E pensiamo pure di essere innocenti.
Come i protagonisti adulti, e non solo, di Ti prendo e ti porto via di Niccolò Ammaniti.
In quel libro, uscito nel 1999, si legge un elemento di apparente diversità rispetto a Little boy blue: lì si parla della scuola media di Ischiano Scalo, un paese così immaginario da poter essere ovunque, e di un’istituzione apparentemente non totale. Capace però di produrre danni oltre i propri limiti temporali. Comune invece è la distrazione degli adulti, inevitabile quando il vestito di psichiatra, di psicologo, di assistente sociale, di educatore, di insegnante, di prete, di sbirro diventa la nostra identità, piegata a essere attenta non alla persona ma all’istituzione. O, peggio, di essere attenta alla persona solo in quanto problema da risolvere, redimere, omologare.
Anche Pietro Moroni nasce con un destino segnato: un padre alcolista e violento, una madre mentalmente sofferente e schiava del marito, un fratello maggiore anaffettivo e bocciato tre volte alla scuola dell’obbligo.
Non si capisce se anaffettivo perché bocciato tre volte o se bocciato tre volte perché anaffettivo.
Il rapporto con Gloria, un amore nascosto tra le pieghe dell’amicizia, finisce per sottolineare le differenze di classe tra loro due: l’azione di vendetta contro Flora Palmieri, l’insegnante che ha permesso la bocciatura di Pietro nonostante gli avesse promesso il contrario, li accomuna, ma Gloria andrà al liceo, Pietro in un carcere minorile. Quell’insegnante, presa dai suoi problemi sentimentali, così come la dottoressa Noble, psichiatra della Casa di Custodia per Minori, che aveva promesso ad Alex di portargli dei libri, si erano semplicemente dimenticate degli impegni che si erano prese. Perché di quei ragazzi, semplicemente, non gliene fotteva un maledetto niente.
«… Caratteriali.
Così venivano chiamati nel gergo dei professori quelli come Moroni.
Ragazzi con problemi di integrazione nel gruppo classe. Ragazzi con difficoltà a instaurare rapporti con i compagni e comunicare con i docenti. Ragazzi aggressivi. Ragazzi introversi. Ragazzi con disturbi di carattere. Ragazzi con problemi familiari alle spalle… Caratteriali».
Da consegnare agli assistenti sociali.
«E quei due sarebbero tornati.
A bordo di una Peugeot 205 verde targata Roma.
Gli assistenti sociali (un nome che non significa un tubo, ma che a Pietro faceva molta più paura di spacciatore o strega cattiva)…
Quei due.
Quei due che volevano portarlo via in istituto».
E che, alla fine, ci sarebbero riusciti.
Dopo sei anni trascorsi nel carcere minorile, dopo aver confessato che la morte della professoressa Palmieri non era dovuta a un incidente ma a un omicidio, il “suo” omicidio, Pietro dice a Gloria: «Ti ho scritto perché avevo bisogno di parlarti di una cosa a cui ho pensato tante volte in questi anni…Ossia a perché quel giorno in piazza ho raccontato a Pierini della professoressa Palmieri. Se non gli avessi detto niente, forse nessuno lo avrebbe scoperto e non sarei finito in istituto. Per tanto tempo ho risposto agli psicologi che lo avevo detto perché volevo dimostrare a Pierini e agli altri che anch’io ero forte e non mi facevo mettere i piedi in testa e che dopo la bocciatura ero fuori di me. Però non era così. Era una balla che raccontavo.
Poi qualche settimana fa è successa una cosa nuova. È arrivato un ragazzino calabrese che ha ucciso il padre. Ha quattordici anni. Quando parla e parla pochissimo non si capisce niente. Ogni sera il padre tornava a casa e riempiva di botte la moglie e la sorella. Una sera Antonio (ma qui tutti lo chiamano Calabria) ha preso il coltello del pane dalla tavola e glielo ha piantato nel petto…Poi mi ha chiesto se volevo sapere veramente perché aveva ucciso il padre. Ho detto di sì. E lui ha detto: perché non volevo diventare come quell’infame bastardo, meglio morti che come lui. Ci ho ripensato molto a quello che mi ha detto Calabria. Lui lo ha capito prima di me. Ho capito subito perché lo avevo fatto. Per combattere una cosa maligna che ci abbiamo dentro e che cresce e ci trasforma in bestie. Si è tagliato la vita in due per liberarsene. Io credo che ho detto a Pierini di aver ammazzato la Palmieri per liberarmi della mia famiglia e d’Ischiano. Non l’ho fatto pensandoci, nessuno lo farebbe se ci pensasse, è stata una cosa che allora non sapevo. Io non credo molto all’inconscio e alla psicologia, credo che ognuno è ciò che fa. Ma in quel caso c’era una parte di me nascosta che ha preso quella decisione…Io non volevo finire come Mimmo che sta ancora lì a combattere con mio padre (mi ha detto mia madre che ha cominciato a bere anche lui). Io non ci volevo più stare a Ischiano Scalo. No, io non volevo diventare come loro e tra poco avrò diciotto anni e sarò un uomo, pronto ad affrontare il mondo (si spera!) nel migliore dei modi».
La violenza come liberazione, quando ogni altra strada è preclusa.
Nessuna delle figure adulte aveva compreso quali risorse fossero per i due ragazzi la lettura e la cultura, questa loro capacità vorace di misurarsi con la parola scritta e non con i pregiudizi di coloro che li sapevano soltanto giudicare, analizzare, condannare. E nessuno aveva capito che ci sono, come nella vita di tutti, un punto di rottura e una via di fuga dalla coazione a ripetere: vanno però colti nell’attimo in cui si presentano, perché poi si perdono di nuovo nelle nebbie. Tanto tempo fa diceva la saggezza di un guerriero Apache: «Grande spirito preservami dal giudicare un uomo prima di aver percorso un miglio nei suoi mocassini». E guerriero, sottolineava Toro Seduto a raccontare le differenze, è colui che si sacrifica per gli altri.
Noi invece non solo non calziamo mai i mocassini dell’altro, ma vogliamo costringerlo a mettersi i nostri. Non per un miglio, per sempre. Per questo il lavoro sociale si trasforma quotidianamente in controllo, condizionamento e resa dell’altro. O in disperata ribellione. Calzare per un miglio i mocassini dell’altro non vuol dire far proprie le sue ragioni, ma cercare di capirle: il primo passo verso una relazione autentica. Dovrebbe essere l’atto più naturale dell’agire umano, invece sembra un gesto rivoluzionario. O folle, il che è esattamente lo stesso.
(Questo testo è stato scritto per “Animazione Sociale” nel giugno 2012)