di PANTXO.
«Sosteneva, fra l’altro, che le inopinate catastrofi non sono mai la conseguenza o l’effetto che dir si voglia d’un unico motivo, d’una causa al singolare: ma sono come un vortice, un punto di depressione ciclonica nella coscienza del mondo, verso cui hanno cospirato tutta una molteplicità di causali convergenti» (Carlo Emilio Gadda, Quel Pasticciaccio Brutto della Via Merulana)
Da tempo ormai, alcuni amici mi chiedono come vedo, da vicino, la situazione catalana. Hai vissuto a Barcellona negli ultimi dieci anni, cosa ne pensi del proces, della DUI, del 155, mi chiedono. Rispondo via WhatsApp infervorato dall’ultimo evento di cronaca, dagli arresti inammissibili da parte del potere giudiziario spagnolo, dalla dichiarazioni incendiarie della destra, dalle prese di posizione opportunistiche che contraddistinguono ormai la maggior parte degli attori in gioco, oppure dai modi politici di soggetti vicini alla mia storia e alla mia area, ma che sventolano, a parer mio, troppe bandiere, o infine dai sondaggi spaventosi che vedono la destra nazionalista risollevata dagli eventi degli ultimi mesi.
Poi però non riesco a scrivere mai delle note che abbiano un senso oltre l’instante. Faccio una fatica boia a pensare qualcosa di costruttivo da dire, e forse dipende anche dal fatto di non essere a Barcellona in questi mesi e dunque – per quanto vicino – di parlarne quasi per sentito dire.
Per sedermi a scrivere alcune note, c’ho messo settimane. Non solo per la complessità dell’evento, dell’insieme dei fili da mettere insieme, ma anche perché il nazionalismo mi appassiona solo in negativo: mi ricorda le storie di ieri di Francesco de Gregori. Mascelle quadrate da una parte, cravatte intonate alla camicia dall’altra; e un sacco di gente che “aveva capito”. Una passione triste insomma. Eppure mi trovo con molte amiche ed amici coinvolti con passione (viva, la loro) in questo processo, costituente mi dicono. Quando discuto con loro finisco sempre per ascoltare, più che esprimere le mie opinioni; e con un interesse, lo confesso, più antropologico che politico. Com’è possibile oggi sentirsi coinvolti da un processo che trova nella nazione il vertice dominante dell’organizzazione e del programma politico? Com’è possibile pensare oggi a scrivere confini?
Affrontare questo tema però diventa importante perché la dialettica indipendenza/unionismo, o repubblica/costituzionalismo, sta chiudendo drammaticamente lo spazio politico del “15M”, quello esploso nelle piazze di maggio nel 2011. La polarizzazione del dibattito e le bandiere che sventolano hanno frammentato quella trasversalità che aveva reso potente l’ultimo decennio spagnolo ben prima del 15M: quella forza capace di sfaldare le forme identitarie dei movimenti creando l’ecceità iberica. Progetti elettorali che sfidano il problema della rappresentanza, coalizioni municipali capaci di attraversare le istituzioni per trasformare le dinamiche urbane, progettualità sociali e trasversali che attraversano il quotidiano precario della mia generazione costruendo una consistenza di mutualità concreta.
Insomma un diagramma di istituzionalità del comune: istituzioni più o meno riconoscibili come tali, ma che si fondano eticamente sul tentativo di rispondere collettivamente a necessità sociali e desideri concreti. Istituzioni diverse, contraddittorie, distanti, tra loro in conflitto. Eppure forme di vita che partecipano di una stessa ecologia politica e affettiva. Una ecologia oggi più che mai in pericolo.
Con questa sensazione che incombe sul presente, sul futuro più prossimo, provo a scrivere, tenendo a mente alcune riflessioni che compagne e compagni mi hanno raccontato l’ultima volta che sono stato a Barcellona. Sono tre.
Primo, il momento catalano esprime, seppur in modo spurio, contraddittorio, a mio modo di vedere anche (e solo in parte) pericoloso, una possibilità: la possibilità raccolta in un corpo sociale che non riconosce più la legittimità integrale della legge, dello status quo, della statualità. Questa possibilità catalana però si specchia nella chiusura di una possibilità simile a livello dello stato spagnolo nel suo complesso, dove invece il momento catalano ha prodotto un grande ripiegamento delle istanze di trasformazione sociale emerse a partire dalla crisi del 2008, tanto da dare grande fiato alla destra più becera in ogni parte dello stato, Catalogna compresa.
Secondo, dunque, si è svegliata la bestia che per anni lo spazio di discussione e organizzazione del 15M aveva stordito. La destra autoritaria, nazionalista e opportunista è presente e protagonista del dibattito pubblico. Non credo abbia senso cercare di identificare i “colpevoli”, anche perché, ahi noi, non c’è nulla di eccezionale, piuttosto la situazione iberica si allinea a un processo più vasto: il grottesco scenario globale del trumpismo, macrismo, lepenismo, erdoganismo – e chi più ne ha più ne metta. Piuttosto si tratta di comprendere che i processi di organizzazione debbono tener conto in modo concreto (ed anche cinico quando fosse necessario?) della necessità di costruire un fronte il più possibile trasversale e traslocale per affrontare questo pericolo.
In questo senso, terza premessa, un compagno sosteneva in una conversazione alcuni giorni fa, l’importanza di trovare strumenti per ricostruire i ponti: la trasversalità che ha contraddistinto la recente fase politica iberica. E dunque di riconoscere la forza logica delle ragioni dell’altro, anche quando non si é d’accordo, per aprire una via di scampo comune. Uscire dai fronti contrapposti che dividono quelle/i “in basso a sinistra”. E dunque porsi il problema di come aprire un nuovo territorio comune tra chi ha come obiettivo un processo di emancipazione e di trasformazione sociale.
Aprire un territorio comune in cui affermare il protagonismo delle forme politiche emerse dal ciclo del 15M, per affrontare una situazione radicalmente nuova, una situazione di debolezza di quei soggetti che hanno vissuto il 15M come un progetto politico di innovazione. Altrimenti il rischio é dare ossigeno, nel campo della sinistra (?), al vecchio modo politico ideologico, racchiudendo la possibilità e l’instabilità – di cui anche il processo catalano é contraddittoria e ambivalente espressione – dentro un quadro di costituzionalismo: sottomettere la società mobilitata al controllo e al governo delle istituzioni statuali, ad una rinnovata “autonomia del politico”. Un territorio comune infine che non può essere né catalano, né spagnolo, ma che bisogna cercare su scala trans-locale e post-nazionale.
Premesse, dunque, che non propongo qui in quanto elementi analitici per capire le storie di ieri: piuttosto nodi programmatici, per ritrovare il filo di un’altra storia comune, soffocata negli ultimi eventi. Una storia che appartiene sempre al domani, fatta di radicalità democratica, trasformazione istituzionale, emancipazione sociale. Si tratta dunque di leggere le questioni legate al processo catalano, non nel tentativo di dire chi ha ragione o chi ha torto, chi fa bene o fa male, ma per porci un problema comune, insomma costruire una linea di fuga in questo pasticciaccio, ritrovare il nostro filo in questo garbuglio.
La situazione politica non sfugge ormai a nessuno, e qui prendo a riferimento le cronache di Guillerm Martinez sul proces, che hanno avuto sicuramente il pregio di smuovere le coscienze più rigide, facendo sorridere e non perdendo mai la capacità di analizzare a fondo i problemi. Le mie note, lo confesso, sono parecchio più noiose. La polarizzazione tra le mascelle quadrate del PP e ciudadanos, e le cravatte intonate alla camicia dei nazionalisti liberali catalani, sostenuti dalla sinistra radicale della CUP, ha spostato l’asse del dibattito politico rispetto a quelli che erano diventati i due elementi della discussione pubblica nello stato spagnolo: austerità e corruzione, come assi della fine del regime del 1978 e punti di partenza per costruire un nuovo modo politico istituzionale. Insomma la mani pulite spagnola si è chiusa, troppo presto, con la resurrezione di un nuovo bipolarismo. Non più destra-sinistra, ma centralismo-indipendentismo come baricentro della discussione politica, costituzionale e naturalmente economica.
Questo ha permesso di riallineare una serie di assi che si erano dissestati nell’ultimo decennio: da una parte la nuova politica della destra spagnola ha trovato una nuova leadership, leggi Ciutadans (un partito catalano e profondamente spagnolista): soggetto protagonista di una nuova destra autoritaria e sostenuta da Aznar, la più dura nel processo di repressione catalana, con una linea economica liberale simile a quella francese di Macron, e con un populismo non tanto sboccato come quello italiano, ma non per questo meno pericoloso.
Secondo, il dibattito catalano a livello spagnolo ha spostato radicalmente il Partito Socialista (e chiuso definitivamente la possibilità di un rinnovamento?), già scosso dalla vittoria alle primarie di Pedro Sanchez, candidato opportunista che si era fatto portavoce delle basi contro i baroni. Da poco ritornato in sella al partito, Sanchez si è riallineato al Partito Popolare, sostenendo nel parlamento l’applicazione dell’articolo 155 della costituzione spagnola (che sospende l’autonomia del governo catalano), invece di usare l’instabilità catalana per far cadere Rajoy e aprire una fase di negoziazione reale sulla riforma della territorialità iberica. Un partito socialista dunque nazionalmente allineato con il partito popolare nei fatti, anche se non nelle dichiarazioni, e debole, perché da quest’ultimo più volte ’tradito’, nei vari momenti di negoziazione Madrid-Barcelona.
Terzo, il riallineamento catalano. Di fronte a questi processi su scala statale, la sinistra radicale catalanista (principalmente la CUP), sembra essersi spenta, assorbita dagli eventi, dopo il dissolvimento del Parlament Catalan. la forza delle strade fatica a prendere corpo come moltitudine viva e costituente. Il secondo sciopero generale “repubblicano” di novembre é stato poco partecipato, e la centralità nel dibattito a livello catalano l’hanno ormai stretta in mano PdeCat e Esquerra Repubblicana, ovvero la stessa coalizione di governo che ha portato avanti il binomio austerità/indipendenza fin dal 2008. Sono loro che sono capaci di convocare, insieme alle coalizioni catalaniste della società civile, centinaia di migliaia di persone in piazza contro la repressione di Madrid. Loro, e gli unionisti/spagnolisti che per la prima volta da decenni portano in piazza centinaia di migliaia di persone a Barcellona.
In questo scenario, l’insieme di soggetti che mediaticamente vengono rappresentati intorno a Podemos, ma che sono una più ampia e ricca (e anche contradditoria e conflittuale) espressione politica costituitasi nello spazio del 15M (ma non identica a questo spazio!) fanno fatica a trovare respiro. Analizzo per prima la parte esclusivamente del palazzo, per dare un quadro in qualche modo ordinato dei problemi, ma anche perché nel gioco costituzionale, ahimè, i palazzi pesano – anche se a volte nei nostri dibattiti tendiamo a far finta che siano capannelli di paglia da soffiar via in un fiato.
Da una parte Podemos ha preso posizione, con un gesto importante di responsabilità ma elettoralmente molto controproducente, a favore di un referendum pattuito, a livello esclusivamente catalano. In questo senso, ha raccolto un lavoro svolto dall’area politica di Barcelona (e ora Catalunya) en Comú negli ultimi anni. Un referendum pattuito che però non ha possibilità di trovare un sentiero parlamentare senza l’appoggio (o l’improbabile rottura) del Partito Socialista e delle sue componenti territoriali, Partito Socialista Catalano e Vasco su tutte. Un via dunque stretta, che passa obbligatoriamente per il prossimo momento elettorale catalano, della prossima settimana.
I 21 Dicembre, forzate da Madrid, ci saranno elezioni anticipate in Catalogna. Il quadro é fosco: la grandissima partecipazione prevista, oltre l’80%, è dovuta soprattutto a una forte contro-mobilitazione, almeno stando ai sondaggi, di una forza finora silenziosa destra e unionista. Se Esquerra e i liberali catalani rappresentano stabilmente un 40 per cento della popolazione e la CUP mantiene il proprio consenso, Ciudadans si afferma ormai secondo ogni sondaggio come la seconda forza catalana, oltre il 20% dei voti a ridosso della prima forza catalanista: sommato al PP e, speriamo impropriamente, al PSC, i partiti dichiaratamente contrari all’indipendenza hanno pressapoco gli stessi voti del blocco per il si (le forbici dei sondaggi si sovrappongono intorno al 45%). A livello nazionale, il PP è rafforzato, Ciudadanos sale molto, i socialisti sono stabili e Podemos scende.
Ago della bilancia in Catalogna, debilitato però da una prospettiva di ridiemensionamento elettorale, il campo di Catalunya en Comú, che si pone come obiettivo rimettere al centro i problemi sociali e porre il diritto al referendum come cavallo di battaglia di un diritto a decidere radicato nei territori: diritto a decidere sull’indipendenza, certo, ma soprattutto sulle politiche abitative, l’educazione, la sanità e così via. Una prospettiva purtroppo schiacciata nel dibattito attuale e che viene chiusa da entrambe le parti, nel tentativo continuo di spingere Ada Colau e soci nel campo avversario, traditori della patria per gli uni, ma anche pericolosi equidistanti per gli altri. Per stringerli elettoralmente e dunque ridurre il peso che possano poi giocare in eventuali coalizioni di governo.
Ora questi elementi di aritmetica da camera sono importanti, perché i palazzi pesano e perché ci aiutano da lontano ad avere uno schema della partizione sociale, ma vanno messi a fuoco all’interno di un contesto ampio: sociale, micropolitico, e non ultimo economico. Un quadro direttamente continentale e, a parer mio, un quadro profondamente urbano. Provo a tracciare alcuni elementi, anche se sempre imprecisi, mobili e sicuramente discutibili.
In primo luogo la dimensione del proces ha avuto caratteristiche socialmente molto marcate: a livello urbano (Barcellona e Tarragona soprattutto), una mobilitazione della classe media, segnate dalla precarizzazione dovuta alla crisi; nel resto della Catalogna invece una mobilitazione molto ampia e socialmente più trasversale in un territorio complessivamente tra i più ricchi dello stato spagnolo (e il cuore rurale della mobilitazione indipendentista). Il centro economico dello scontro riguarda la redistribuzione della ricchezza dalla Catalogna, ad altri territori dello stato, attraverso la mediazione burocratica e politica del governo centrale di Madrid. Uno scontro fiscale dunque. Uno scontro fiscale intorno agli interessi di chi paga più tasse, per reddito, invece che uno scontro per mantenere i servizi dello stato sociale, per chi ha redditi più bassi. Anche per questo, le classi popolari urbane, melting-pot complesso e stratificato dalle migrazioni locali, a quelle statali e globali nel giro di un secolo, non sono state le protagoniste del proces, anzi hanno vissuto nell’ultimo decennio il peso dei tagli nelle politiche sociali di competenza autonomica (e sulla cui responsabilità la destra catalana e destra spagnola hanno giocato quotidianamente allo scaricabarile).
Questo quadro di frammentazione sociale é pelle di un doppio fenomeno che attraversa il corpo sociale: da un lato la dimensione macroeconomica, e dall’altra la micropolitica nei rapporti sociali, ovvero la fragilità sociale cresciuta in questi mesi.
Primo, la dimensione economica della crisi è un elemento fondamentale per comprendere l’avvento di questa fase di nazionalismo (catalano e spagnolo!), dove la crisi é stata continuamente rinaturata, ideologicamente, attraverso il conflitto sull’indipendenza catalana (lasciando per esempio abbastanza sullo sfondo altri tipi di naturalizzazione della crisi e dell’austerità, quali l’Europa, le migrazioni, la globalizzazione, la grande finanza etc.).
Tuttavia, l’assenza di una discussione pubblica sulla dimensione economica della tensione indipendentista mostra tutta l’ambiguità del proces. Nel dibattito catalano non si entra quasi mai nei dettagli della riorganizzazione economica dello stato a venire, della ridefinizione costituzionale, della relazione con lo spazio politico europeo, ma soprattutto non si chiariscono le strategie per sostenere le politiche pubbliche (e prima ancora dunque il debito pubblico): su che capitali contare? su che regole di ingaggio socio-produttivo a livello internazionale? come (e chi) scriverà le nuove regole del mercato del lavoro nella repubblica catalana?
Il discorso sulla nazione invece rimane illusorio, la concretezza latita, la partita a poker si gioca sulla pelle del corpo sociale. A livello statale, c’è il cinismo del governo di Madrid che, dando per scontato uno scollamento sempre più forte della società catalana in termini di consenso, ha fatto pressioni per spostare banche e imprese, nuocendo volontariamente sull’assetto strutturale socio-economico della Catalogna, pezzo fondamentale dell’economia spagnola. Ma anche crisi cercata per offuscare il ruolo determinante della corruzione del partito popolare nella infangata situazione economica spagnola. La fuga delle imprese e il controllo importo sui conti pubblici autonomici ha bloccato l’economia catalana negli ultimi mesi, soprattutto tutti quei soggetti sia imprenditoriali che associativi che dipendono dal finanziamento pubblico.
A livello autonomico, la trasformazione dell’economia catalana sempre più finanziarizzata gioca, io credo, un ruolo fondamentale, nell’immaginare da parte della destra catalana, un processo di sconnessione come possibilità per deregolamentare, soprattutto, il contesto urbano e periurbano di Barcellona: un’area metropolitana sempre più aggrappata al turismo, alle economie dell’evento (grandi congressi), e alla speculazione urbana.
L’indipendenza dunque può forse essere un momento di ridefinizione costituente, come sperano gli amici della CUP, ma anche diventare una ghiotta occasione per accelerare la precarizzazione del mercato del lavoro, sciolta gioco-forza dalle dinamiche dell’Unione Europea: una Brexit periferica, in un territorio sempre più dominato dai capitali sauditi nelle economie degli eventi, da quelli russi nella speculazione urbana, e infine dai grandi investimenti cinesi nella logistica del porto, dove immaginare Barcellona (e appesa a Barcellona, la Catalogna) come un ente nazionale post-statuale, a metà strada tra Londra e Dubai, nel cuore dell’Europa.
Secondo, la situazione micropolitica é dominata da una mobilitazione profonda della società civile catalana, a cui corrisponde però una durissima separazione tra questa parte della società civile, iscritta profondamente nell’identità catalana, e quei soggetti che, per (non) diritto o per marginalità, di questa società civile non si sentono parte, soprattutto nelle periferie urbane.
Da una parte dunque, l’Assemblea Nazionale Catalana e Ominium Cultural rappresentano un processo molto più aperto e di lunghissima tradizione, così come di grande radicamento sociale che esprime nel modo più complesso la forza del movimento di indipendenza catalano: un movimento che tesse comunità, che ha una grande base culturale e una forza di mobilitazione trasversale, per esempio generazionalmente e territorialmente, nella società civile catalana. Non a caso la detenzione dei Due Jordi, ovvero i presidenti delle due formazioni, per sedizione e ribellione (per aver sostenuto nelle reti sociali la celebrazione del referendum di Ottobre) ha suscitato una grandissima commozione, ancor più della detenzione di metà del governo catalano e di altre cariche politiche del paese.
Dall’altra un tessuto sociale spaccato: lo stesso che aveva risposto alla violenza della crisi attraversando le piazze (Piazza Catalunya a Barcellona) nel 2011, ma soprattutto un soggetto protagonista delle lotte sulla casa (e, forse in minor misura, intorno alla salute e all’educazione), in risposta alla finanziarizzazione dei nessi di solidarietà nati per far fronte alla precarietà e alla fragilità dell’ultimo decennio. Nel 2011, questo spazio sociale era stato fondamentale non solo per rompere la forte identità dei movimenti, ma anche per affermare una capacità destituente contro il potere delle banche attraverso le campagne contro gli sfratti, gli escarches, la negoziazione sui mutui; e da lì, per costruire la possibilità di un momento istituente sia nelle elezioni europee, con Podemos nel 2014, e soprattutto nel municipalismo del 2015, dove a Barcellona la grande affluenza alle urne delle periferie più povere ebbe un ruolo fondamentale nella vittoria elettorale.
Oggi questi territori sembrano dimenarsi tra un ritorno al conservatorismo socialista, e la rabbia della destra nazionalista di Ciudadanos, ridimensionando il ruolo di Catalunya en Comú.
Ora in questo contesto, intorno ai palazzi, le cose diventano più complicate, muddy – fangose: le colpe degli altri si confondono con la difficoltà di rendere più concrete possibili le conseguenze del 15M del 2011 nel quotidiano della società spagnola e catalana. La questione catalana è un terremoto micropolitico che rompe le alleanze e i legami trasversali nati in questi anni, e che ci pone dunque una domanda: perché questi legami sono risultati così fragili?
Una parte del problema ci rimanda alla forza della nazione come strumento per costruire comunità immaginate, che si tengono impedì attraverso le frontiere e le contrapposizioni territoriali e che sono capaci di indebolire le contrapposizioni sociali e di classe. Credo però che un pezzo del problema, quello che io riesco a cogliere, stia anche nella sfida istituzionale: l’agire dei movimenti attraverso questa sfida (e anche di quelli che sono rimasti al margine durante questo processo di “invasione”) ci ridà l’immagine di una trasformazione che non è ancora arrivata al “fondo” dello stato, che ha inciso ancora poco sulle politiche pubbliche, ovvero sull’effetto dello stato sulla vita della gente.
Una mancanza di cambiamento che non è dipesa da una mancanza di volontà politica delle coalizioni municipaliste radicali (o del lavoro parlamentario/legislativo dei vari Podemos, Mareas, En Comú, quando all’opposizione). Eppure una critica mi sento di farla: il dibattito tra movimenti e nuova istituzionalità, articolato intorno alla riflessione dentro-fuori, ha lasciato più spazio al problema del governo, delle coalizioni, delle forme dell’organizzazione interna nei partiti, invece di trovare meccanismi per democratizzare, aprire e discutere il problema della “amministrazione”, e dunque di pensare il problema dello stato dal basso, dai rapporti tra cittadini e istituzioni sviluppati nella quotidianità delle politiche pubbliche. Per dirla con Lefebvre, riuscire a pensare il progetto istituzionale non in termini ideologici, ovvero definire la giusta “programmazione”, ma ecologici: dare voce ad un’altra “percezione” della città.
Il primo problema, quello del governo, è stato il punto di mira di una morbosità mediatica, sulle divisioni di Podemos, sulle telenovele da partito; ma è stato anche il centro di molte discussioni dei movimenti che attraversano o stanno, in modo giustamente critico, intorno ai processi istituzionali. E che spesso premono sul problema del governo – orizzontalità o verticalità, democrazia e ambizione, etc. – piuttosto che sul problema di come fare in modo che le politiche pubbliche facciano altro e in altro modo, rispetto a ciò che sempre hanno fatto. Credo che il primo problema sia certamente fondamentale, ma possa essere affrontato in modo utile quando si é immersi nella sfida rappresentata dalla seconda questione.
Questo secondo problema invece è ricaduto soprattutto su chi nelle istituzioni ci é entrato per la prima volta, con incarichi politici, tecnici o temporanei. E si é scontrato sia con una macchina estremamente complessa, sia con una soggettività del pubblico da trasformare profondamente, che infine con una articolazione delle competenze giuridiche, assegnate dalle leggi di ricentralizzazione del partito popolare, profondamente sfavorevoli al lavoro di democratizzazione istituzionale alla base del lavoro dei movimenti del 2011/2015. Un problema che è rimasto opaco, per la difficoltà di tradurlo, ma anche per il continuo centrarsi sul problema mediaticamente esposto, esploso, morboso della nuova politica: se equivalente o contraria a quella vecchia. E, temo, ci si è interrogati di più sulla novità in quanto tale, invece di scornarsi per capire, come affrontare concretamente le ambivalenze che la sfida istituzionale porta con sé. Politiche pubbliche: para que? y para quien?
Senza leggere questa tensione, è difficile, io credo, capire come possa essere stato così efficace in questi anni il tentativo di disattivare il 15M da parte delle destre spagnole e catalane. Credo si debba evitare di leggere il 15M in modo univoco, insomma pensare che il 15M sia stato un movimento – espressione di enunciati e programma stabili. Risulta più utile invece adoperarlo come un evento, o una piega nel senso ripreso da Deleuze, che una volta dispiegata nella realtà porta con sé tanti modi diversi (di vivere il mondo) in chiaroscuro: intrecciati e forgiati a partire da quel momento di agitazione e mobilitazione della società che sono state le piazze di maggio. Dunque il 15M come foriero di un nuovo mondo, con caratteristiche del fare politica nuove, certo, però a loro volta ambivalenti, iscritte nel campo del reale: inventate, agite, ma anche governate.
Una società mobilitata, alla ricerca di forme dell’agire collettivo all’interno di un quadro di sgretolamento degli equilibri interni al regime post-franchista, sorto dalla transizione morbida del 1975/1986. Però, allo stesso tempo, una società mobilitata all’interno di uno sgretolamento sociale, produttivo e culturale, su cui la finanziarizzazione ha fatto leva per speculare sui regimi di solidarietà nella crisi, quelli spuri delle ipoteche sussidiarie, dei prestiti, e così via.
Se il movimento municipalisita, le maree e Podemos sono stati modi diversi di abitare questo nuovo mondo, radicati fin dalle giornate delle piazze spangole, nell’articolazione mentale, sociale e politica della molteplicità (ognuno con i propri limiti), viceversa il processo di polarizzazione nazionalista ESP/CAT costituisce una occupazione di questo stesso spazio ma in senso opposto, di governo totale della mobilitazione.
Di fronte all’articolazione del significante vuoto di Podemos, della trasversalità sociale delle maree, dei processi di istituzionalità territorializzata delle piattaforme municipaliste, contraddittori appunto e legittimamente in contrasto tra loro, ci scontriamo con una strategia che si relaziona in termini disciplinari con l’agitazione sociale: cercando di ridurre quell’agitazione sociale a schemi pregressi, per esempio attraverso la binarizzazione nazionale delle molteplicità sociali, espresse nelle piazze del 15M; accelerando il corso mediatico-politico e spostando continuamente il dibattito dal presente verso il futuro illusorio (la nazione!), rompendo il ritmo delle “maree” istituenti; e infine, rendendo le politiche pubbliche un questione di appartenenza nazionale, buone o cattive a seconda del lato della frontiera – svuotate della forza critica rispetto alla funzione pubblica aperta dall’invasione istituzionale.
In questo quadro, credo, molte cose stanno avvenendo per cercare di rimettere in campo una intenzione istituente a partire dalla concreta passione per una democrazia radicale che, fino a pochi mesi fa, era ben più forte nella società iberica. Bisogna ricostruire ponti per parlare, tra chi sta in basso e a sinistra, come dicono gli zapatisti, mettendo da una parte a valore quelle pratiche istituzionali, sociali e comunicative che in questi ultimi anni hanno inciso profondamente sulla vita delle città “ribelli” e “senza paura”, mettendole in rete.
Si tratta, soprattutto, di aprire uno spazio in cui queste pratiche possano parlarsi in modo trasversale e diventare un fronte comune per disarticolare il più in fretta possibile il risorgere di un caratterizzazione fortemente autoritaria del dibattito pubblico, incalzato dalla destra, alimento dalla frustrazione e dalla frammentazione, ma purtroppo sempre più vivo nel quotidiano. Proprio in questi giorni, è nata una nuova app, Parlem/Hamblemos: una specie di tinder del proces per tornane a parlare insieme, tra persone che non sono d’accordo, e rompere lo scontro e la separazione tra fronti nel dibattito sulla questione catalana. Un esercizio di trasversalizzazione di tipo guattariano, potremmo dire, per riuscire a rompere il transfer verticale della soggettività politica, dal basso verso l’alto, racchiuso e governato della forza fantasmatica della nazione.
Credo che questo pezzo d’Europa, quella oltre i Pirenei, possa oggi interrogarsi in modo concreto sul modo in cui le destre populiste stanno riuscendo in tutto il continente a ridefinire gli assi del dibattito pubblico, a riallineare gli interessi delle élite, e rompere le confluenze sociali di cambiamento. E credo che le città di queste province d’Europa, possano farlo con strumenti che altrove non esistono: con l’esperienza comune dei movimenti degli ultimi anni, con la forza istituzionale dei governi locali, con il peso e la forza della voce pubblica che i movimenti hanno conquistato, in mille modi, negli ultimi anni.
Le storie di ieri sono purtroppo la storia quotidiana nella maggior parte del nostro continente; credo che la questione catalana debba essere allora un laboratorio attorno al quale rimetterci in campo per sfuggire alla paura e provare a scrivere una storia diversa, di cui il 15M è stato forse l’inizio, ma che dobbiamo continuare a immaginare ogni giorno, soprattutto nei momenti più difficili, stretti come siamo nella depressione ciclonica della coscienza del mondo.