di FRANCESCO STICCHI.
Spinoza sosteneva che l’essenza della vita risiedesse nel conatus, in una spinta inesauribile a esistere e a produrre relazioni. Tale tensione immanente caratterizza la natura nella sua interezza e nelle sue modificazioni parziali, pertanto, ne partecipa tutto ciò che è presente sul piano dell’esistenza. Per Spinoza non esistono esseri puri o artificiali, ma relazioni; se si ama o si odia lo si fa perché si è parte di qualcosa, perché i nostri corpi si modificano con il continuo contatto con la realtà.
È una tensione spinoziana, quindi, quella che proviamo vedendo Blade Runner 2049; nell’ultima fatica di Villeneuve, e come già annunciato in Matrix Revolutions (Lana e Andy Wachowski, 2003), non c’è bisogno di un’anima per sentire e amare; queste parole indicano interazioni, ovvero la condivisione di un piano esperienziale e affettivo. Come spettatrici/tori accompagniamo l’agente K. (Ryan Gosling), in apparenza freddo e atarassico replicante e blade runner, attraverso un doloroso e malinconico viaggio interiore in un mondo distrutto e destinato a finire. Un viaggio che è perdita delle proprie tracce e dei propri tratti distintivi, demistificazione dei segni, dal codice genetico, ai ricordi.
K. non ha un ruolo fondamentale in questo mondo, non è il super-poliziotto ubbidiente che credeva di essere né il figlio dell’amore di Rachael e Deckard prescelto per guidare l’avvento della rivoluzione dei replicanti e della vita nuova. Eppure le sue scelte, le sue relazioni affettive sono intense, sentite, e rimangono il punto cardine della narrazione. K. desidera Joi (Ana de Armas), partner digitale in grado di rispondere adeguatamente a qualsiasi desiderio del proprio cliente, ma scopre anche di amarla, ricambiato, e la perde. Crede di trovare un padre in Deckard e muore sacrificandosi per lui pur sapendo di non esserne il figlio. Già come in Arrival (Villeneuve, 2016) e in Her (2013) di Spike Jonze (forse il vero gemello di questo film), il discrimine fra umano e inumano si fa labile, la capacità di comunicare, di interagire, di scambiare emozioni, sebbene in modo imperfetto, superano qualsiasi tipo di apparente barriera bio-tecnologica. Di qui la necessità di stabilire legami, compresa la post-edipica scelta del padre da parte di K.
Con Arrival, inoltre, Blade Runner 2049 condivide anche l’attenzione per l’ambiguità e la polivalenza dei codici e della memoria. I simboli (come le sequenze di DNA) non possono raccontarci la complessità di un individuo, così come i ricordi si ricostruiscono insieme alle modificazioni della propria identità, come viene magnificamente espresso dalla sequenza che mostra la dottoressa Ana Stelline (Carla Juri), vera figlia di Rachael e Deckard, progettare memorie. Allo stesso tempo, i ricordi non esprimono solo un racconto personale, ma emozioni che possono essere condivise, vissute da altri e persino fatte proprie.
In un contesto in cui l’identità è molteplice quanto le superfici materiali che la circondano, risulta evidente la necessità del ridimensionamento narrativo che subisce K., da presunto eletto e “miracolo” a elemento secondario di questo universo distopico. Ma il viaggio del protagonista non può essere unicamente privato; l’interiorità di K. è complessa perché viene esteriorizzata su di un panorama devastante. Più che presentarci una visione “classicamente” post-apocalittica e angosciosa della modernità, il film sembra descrivere un’epoca pre-finale, in cui la vita stessa come da noi umani immaginata diviene impensabile. Come già notato da altri, la fascinazione cyberpunk per le metropoli asiatiche del film di Ridley Scott viene abbandonata in favore di una spiazzante desolazione, più simile all’immaginario futuristico del Tarkovsky di Stalker (1979) e Solaris (1972). In questo senso l’incredibile fotografia di Roger Deakins e la scenografia espressionista di Dennis Gassner sono capaci di combinare una malinconica visione decadente ad un monumentale senso tragico. Sullo sfondo anche il conflitto di classe, che è insieme scontro etnico fra umani dominatori e nuovi schiavi (replicanti e umani). È un muro a tenere l’ordine in questo mondo (morto), afferma Joshi (Robin Wright), mentre Neander Wallace (Jared Leto), spietato capitalista e demiurgico bioingegnere, cerca di rispondere alla crisi creando una colossale genia di replicanti obbedienti.
Eppure quest’ultimi due personaggi, a loro modo dei villain, sembrano fuori tempo massimo e infatti rimangono marginali. Joshi non è in grado di riconoscere un replicante come un pari, e pertanto rimane ingannata e uccisa da due di essi e, in ugual misura, il mito antropocentrico di cui si nutre il sogno imperiale di Wallace è un racconto svuotato di senso e futuro. La vera crudeltà di Wallace sta, invece, nel suo essere un padre miserabile per la sua assistente replicante Luv (Sylvia Hoeks), e nelle continue umiliazioni a cui la sottopone, rendendola così una moderna Frankenstein e un’assassina implacabile mossa dal desiderio di compiacere (e forse superare) il suo creatore. Sono dunque gli umani, con l’apparente eccezione di Deckard (in nome di un profondo legame affettivo), fatalmente non più capaci di comunicare e di comprendere il mondo che li circonda. L’universale bisogno di costruire legami associato ad un futuro di assoluta desolazione e morte, in cui l’uomo non può più trovare il proprio posto, sembrano forse dirci che qualcosa è inesorabilmente finito. Come direbbe Rosi Braidotti, il tempo dell’uomo moderno, figlio dell’illuminismo e della rivoluzione industriale è terminato; la vita forse resiste, ma altrove, in donne e uomini più umani dell’umano (appunto), capaci di intessere una nuova relazione col mondo. In questo senso il film è spietato, forse non è in grado di predire il futuro, ma parla del presente, dello stato di morte senziente in cui ci troviamo, alla quale siamo inesorabilmente condannati, ma che allo stesso tempo troviamo impossibile accettare. Eppure la speranza rimane, ma essa non si cela in presunte promesse di salvezza, o in una nuova espansione e potenziamento dell’umano. Bisogna tornare a Spinoza, al desiderio di connettersi, di generare relazione anche di fronte ad una realtà apparentemente priva di futuro. Solo in questo modo rimane possibile sperimentare nuove forme di vita e di relazione con il mondo. La mano di Deckard che tocca la cupola di vetro in cui vive la figlia postumana del suo amore per Rachael è, quindi, la stessa della linguista Louise Banks che entra in contatto con i due eptapodi in Arrival; le loro mani indicano la scoperta meravigliosa di una nuova vita possibile, forse di un popolo a venire che, come i replicanti pronti al rivoluzione, svincoli l’esistenza dalle forze che la mortificano e la ingabbiano. Se Blade Runner 2049 è un film sulla morte dell’uomo, citando Fuoco Pallido di Nabokov (menzionato anche nel film), verrebbe da dire che
La vita è una grande sorpresa. Non vedo perché la morte non potrebbe esserne una anche più grande.