di RODRIGO GUÉRON e ANA KIFFER.

[Français]

 

Cari amici,

Abbiamo deciso di scrivere questa lettera indirizzata a voi, compagni con i quali abbiamo mantenuto nel mondo le relazioni più diverse – personali, professionali e politiche, colleghi con cui ci siamo relazionati in un modo o nell’altro mediante una rete, o delle reti, su temi, ricerche, preoccupazioni comuni e azioni politiche in questi ultimi anni. L’urgenza di questo testo è dovuta all’attacco alla democrazia. È quello che stiamo subendo in Brasile: il colpo di Stato parlamentare-giuridico-mediatico travestito da processo legale, la cospirazione anti-democratica che ha rovesciato la Presidente eletta Dilma Rousseff.

Quello che ci riunisce, quello che ha mobilitato il nostro desiderio di parlare con i compagni di altre terre e di altre lingue, in mezzo ad una confusione di informazioni sul Brasile che fanno il giro del mondo, è un’affinità non solo di pensiero, ma anche di produzione pratica e politica. Sotto quest’espressione generica e approssimativa, tale pratica si riferisce a ciò che è stato costruito con i nuovi movimenti sociali e con i nuovi concetti strumentali di comprensione del reale e della lotta politica in diverse parti del mondo dal 1968, e in particolare in Brasile, con la fondazione del PT come un “partito/movimento” nel 1979. Sotto un altro aspetto, più locale e attuale, ciò che ci unisce è la scommessa che enunciare, mappare, esaminare ed affrontare questo insieme angosciante di questioni, nell’atto della sua urgenza, nel momento in cui siamo veramente dislocati concettualmente dai luoghi che fino ad ora abbiamo usato per elaborare la nostra critica, è il modo che abbiamo trovato per intraprendere, tra le decisioni che interrompono lo stato democratico in Brasile, l’inizio di una possibile via d’uscita.

Per alcuni di noi, questa minaccia per la democrazia risale agli ultimi anni di lotta contro la dittatura militare e all’intensa lotta sociale che ha caratterizzato i primi anni di una democrazia imperfetta, che culminò nel processo costituzionale del 1988. Insieme abbiamo vissuto la vittoria-sconfitta di Lula e del PT nel 1989, le lotte globali che affermavano che un altro mondo era possibile: Genova, Seattle, la rivolta argentina del 2001, il Forum mondiale di Porto Alegre e l’arrivo di Lula al potere nel 2002.

L’allora nuovo governo, anche se pieno di limiti e di contraddizioni, ha avviato una serie di azioni che di solito sono raggruppate sotto la classificazione di “politica sociale”, ma che per noi hanno, o hanno avuto, una valenza economica e politica al di là di questo termine, poiché erano in realtà politiche produttive, in un certo senso parte integrante di una nuova politica economica. Ed infatti, i loro effetti economici e politici hanno reso possibile un processo di ascesa sociale, di riduzione delle disuguaglianze e di produzione delle soggettività senza precedenti nella società brasiliana. Capire questo processo in tali termini è, per noi, di una differenza decisiva: la fine della povertà è stata un’esperienza vitale per milioni di brasiliani, una sorta di alterazione d’ordine (in parte geografica ma soprattutto biopolitica, permettendo a milioni di brasiliani di iniziare a frequentare gli spazi comuni come le università, le scuole, gli aeroporti e i centri commerciali) rispetto al vecchio quadro di immensa disuguaglianza sociale, razzismo, pregiudizio di classe e violenza patriarcale. Questo quadro, dobbiamo dire, non ha subito come speravamo un dislocamento nevralgico e paradigmatico sotto i governi del PT, che in tal modo si é indebolito, visto che pur cambiando alcune punte delle sue azioni e orientamenti, non ha trasformato il nocciolo duro dove si concentravano i gruppi politici decisionali, i partiti, e gli interessi che essi rappresentavano. Tutto questo fa ritorno adesso con nuovi lineamenti, ancora da considerare, se non addirittura con la vecchia faccia sporca dell’antico patriarcato colonellista di questo Brasile1. Proprio quello che l’immagine e la figura del proprio Lula, come emblema del lavoratore rurale, migrante della siccità, contro la “Casa del Padrone” del Nord-Est brasiliano in qualche modo invertiva. Questa contestazione è adesso nelle strade, e nei gruppi che si organizzano, per motivazioni diverse, ma in un solo e grande unisono, nel “Fora Temer!”

La crisi, diremmo paradigmatica, della sinistra, é di essersi divisa tra il pragmatismo delle alleanze e il purismo degli anni di opposizione senza esercizio del potere. Da ciò é nato un groviglio complesso da cui spesso il governo e il PT non hanno saputo come uscire. E una restrizione della governabilità, esercitata dai politici che erano da sempre già lì, in agguato per il ritorno al potere esecutivo, e da coloro che nel corso degli anni del governo del PT sono insorti col desiderio di tornare alle origini di quel partito o di agire come “il suo specchio inverso”. Questa affermazione di ritorno alle origini della ‘sinistra’ indica una certa impotenza della stessa. Nel caso dell’attuale Brasile, essa si è unita alla routine del gioco sporco istituzionale, al “prendere lì mettere là” delle relazioni con il potere legislativo, e in generale alle strutture di rappresentanza, il cui gioco è stato cinicamente richiesto al PT inizialmente come una prova di ” maturità politica “e di “impegno rispetto alle regole democratiche “– condizione sine qua non perché fosse accettato il loro arrivo al potere. È proprio questo che adesso gli si rinfaccia: in forma di accuse di corruzione che, da un lato, faceva parte della regola del gioco (di un gioco dove la corruzione è spesso la regola), dall’altro, faceva parte di ciò che il PT ha sempre designato come una delle sue principali piattaforme politiche di lotta. Oggi dobbiamo rileggere, ascoltare ed affermare che dietro al generico e cinico discorso contro la corruzione, ipocritamente diretto quasi integralmente contro il governo del PT, vi erano le forze politiche che, oltre ad utilizzare questo tipo di espediente, erano le stesse che hanno strutturato schemi mafiosi di tutti i tipi nei rapporti tra imprese economiche e rappresentanza politica: schemi che si impongono a qualsiasi gruppo che salga al potere.

Al tempo stesso, fin dai primi anni del governo Lula, abbiamo potuto percepire l’odio e la violenza materiale e simbolica contro il processo di ascesa sociale che stava iniziando in Brasile. In questo contesto, ha avuto luogo uno dei primi tentativi di eliminare Lula e il PT negli anni 2005/2006. In quel momento abbiamo cercato di organizzarci e alcuni di noi hanno creato il “Forum per la radicalizzazione democratica e contro la destabilizzazione al governo Lula”. Ma non era solo una dimensione di difesa di Lula che ci univa. La “radicalizzazione democratica” è stata per noi una mobilitazione per l’approfondimento di alcune politiche che incontravano un’opposizione proveniente dai più svariati tipi di conservatorismo e di forme di potere, espresso perfino nelle stesse alleanze del governo. Così ci organizzammo, per esempio, per sostenere all’interno delle università una battaglia per nulla facile proposta dai nuovi movimenti sociali: l’applicazione delle politiche di quote per neri e poveri. Una lotta non senza potenti e mistificanti avversari, anche all’interno di un certo marxismo ortodosso. Ma questo movimento è stato ampiamente vittorioso ed è stato realizzato in una delle più importanti vetrine di ascesa sociale. L’ampliamento e la costruzione di nuove università, l’apertura di nuovi posti, le politiche di democratizzazione dell’accesso si sono aggiunte alla difesa di programmi sociali come la “borsa famiglia”, gli assegni familiari, il supporto per l’agricoltura familiare, l’istituzione di un piano nazionale per gli insegnanti, la politica di valorizzazione del salario minimo, i punti innovativi della cultura, tra tante altre politiche che sono state determinanti per permettere al Paese di vivere perfino un circolo virtuoso di crescita macroeconomica, anche se questa ha continuato ad essere valutata a partire dagli standard di “rispetto ai contratti”, “crescita del mercato” e i patti fatti internamente e esternamente con il grande capitale.

Generalmente questo processo è descritto come un’”ascesa sociale finalizzata al consumo”, in un discorso che, su questo punto preciso, ha unito neo-liberali e “sviluppisti”2. Per noi, tuttavia, c’é stato in questo processo un elemento di produzione di soggettività decisivo, qualsiasi sia la comprensione della politica e dell’economia, o dell’economia-politica, che si possa avere: sia quella che ci é più cara, sia pure una prospettiva più pragmatica della gestione del capitalismo contemporaneo. Sappiamo bene che il capitalismo, nelle sue operazioni di riappropriazione, tenta di spostare tutto il desiderio nell’acquisizione dei beni, e qui si potrebbe si parlare di “consumismo”. Si tratta di svuotare la dimensione produttiva del proprio desiderio, che supera il consumo di merci, soggettività e modi di vita che ci attendono pronti negli scaffali del supermercato. Tuttavia, molte cose sfuggono alla tradizionale operazione di ridurre tutta la produzione alla forma mercantile e alle quantità monetarie astratte. La dislocazione sociale é avvenuta in Brasile, in particolare tra il 2003 e il 2013, producendo un’esperienza materiale e vitale di non accettazione della povertà da parte di milioni di persone e di diversi gruppi sociali. Abbiamo così osservato’ la liberazione di un desiderio sociale che ha aperto i limiti delle nicchie del “consumo” e del “mercato del lavoro”. Un desiderio che ha permesso di parlare di nuovo di politica, in spazi che prima erano strettamente teorici o tecnici. Senza che cio’ avesse l’odore della dottrina. Parlare di politica nel seno della lingua, della poesia, dei corpi in movimento, senza che questo avesse l’odore del vecchio e ben educato cliché dell’impegno politico, del partito e della bandiera: una goccia rossa, un’idea comune. Qualcosa che é andato diluendosi in modi di percezione e di affetti. Ma non la diluizione che neutralizza. Quell’altra: quella che prolifera. Un po ‘di quell’impalpabile che abbiamo sentito solo nell’atmosfera. Tutto questo oggi ritorna, con altre caratteristiche.

Così, sia dal punto di vista più pragmatico, sia da quello delle conquiste politiche che ci mobilizzano, non é stata nessuna politica di tipo keynesiano o “sviluppista” che ha tentato un patto sociale riformista; al contrario, sono stati gli effetti delle cosiddette politiche sociali che hanno trainato il pieno impiego e gli anni di prospera crescita economica. Due discorsi costanti dell’ex presidente Lula spiegano brevemente cosa è successo: 1) Includere i poveri nel bilancio, 2) Dare i soldi direttamente ai poveri.

Qui sarebbe opportuna un’analisi approfondita sul come le scelte di sviluppo, che iniziarono a dominare l’alleanza di governo a metà del secondo governo Lula, hanno rappresentato poco a poco uno strangolamento per questa strategia, che sin dall’inizio ha fondato il suo governo come uno che “dà il pesce, ma insegna pure a pescare ‘. In altri termini, questa direzione intercettava il nostro desiderio sulla necessità di fare in modo che la politica di lotta contro la povertà e le disuguaglianze proliferasse in azioni micropolitiche di crescita di questi stessi gruppi: economia agricola comunitaria, presa a carico di una voce indigena capace di bloccare le delimitazioni di aree e gli attacchi ai territori, articolazione dei gruppi di salute nella cura di donne maltrattate o violentate e nel monitoraggio dei cambiamenti di sesso, azioni che potessero ripercuotersi sulla legge sull’aborto, sul matrimonio e l’adozione omoparentale, come esempio di molti altri collegamenti tra la micro e la macropolitica.

Da notare che non si tratta qui di un dibattito limitato ad una concezione dell’economia che domina la scena politica, ma di capire un’operazione che, più che ideologica, ha cominciato a produrre una serie di slogan e di enunciati di potere che si sarebbero imbattuti prima o poi con la propria mobilizzazione sociale che i programmi governativi stavano aiutando a promuovere.

Al centro di questo cambiamento vi era la strategia di puntare su grandi eventi come i Mondiali di calcio e le Olimpiadi, con la presentazione di un programma di cantieri infrastrutturali senza nessun dibattito con la società civile, intensificando all’estremo il gioco sporco di scambio tra gli imprenditori e i partiti politici; al di là delle sovvenzioni ai grandi gruppi economici nazionali in una strategia che per (presumibilmente) “creare posti di lavoro”, è costata miliardi al bilancio. Non a caso è proprio in quel momento che si é rafforzata l’alleanza del PT con il partito che oggi é a capo del colpo di Stato contro Dilma, accoltellandolo alla schiena: il PMDB. La logica tecnocratica che sapeva ciò che era meglio per il popolo ha facilitato la coesistenza felice tra i vecchi dirigenti della destra, alcuni pure provenienti dal regime militare, e gli economisti e intellettuali storici dello sviluppo di sinistra. Nelle città, tra cui Rio de Janeiro è forse il più chiaro esempio, é stata imposta una politica aperta di privatizzazione di ciò che era pubblico, di rimozioni e di “gentrification”, di forte speculazione immobiliare e l’inizio di un processo inflazionistico che ha colpito i poveri e la classe media.

Così, i rapporti sempre più pericolosi con le vecchie oligarchie stava creando una strana zona grigia e una somiglianza nelle pratiche che, a poco a poco, stava rendendo ingenuo il fatto di dire che “Lula, Rousseff, il PT e la sinistra erano gli ostaggi delle alleanze che avevano fatto per governare “: una dichiarazione che non ha mai cessato di essere in parte vera, ma che é diventata l’espressione di un cinismo espresso da alcuni dirigenti e apparati di sinistra, che stavano apprezzando il gioco autoritario e generatore di ricchezza delle relazioni tra capitale e Stato.

Ma la speranza non era più una caratteristica del discorso pubblicitario ufficiale del lulismo, essa si esprimeva adesso socialmente nelle nuove soggettività che non avrebbero più sopportato una vita limitata dai nuovi accordi di potere. In qualche modo, sembra che il gigantesco movimento del giugno 2013 fu anche l’espressione di ciò, un desiderio sociale che non poteva e né voleva più essere controllato. Non vogliamo cadere nella presunzione autoritaria degli intellettuali che disputano tra di loro le versioni e le teorie per affermare “Noi si, che abbiamo capito cio’ che é stato il movimento del 2013”. Tuttavia, pensiamo che almeno due aspetti meritano di essere sottolineati. In primo luogo, la partecipazione decisiva di una nuova generazione di giovani che sono entrati all’università per la prima volta, o che in un certo modo stava vivendo le trasformazioni sociali del Paese: i figli del lulismo e del PT, che furono in quell’occasione trattati come figli bastardi. In secondo luogo, un’insoddisfazione sociale, che in un certo modo ha reagito al risultato delle politiche adottate dopo l’alleanza con il PMDB, all’ideologia e agli enunciati di potere “sviluppisti” che, nella pratica, ha avuto a che fare con la lotta contro gli oligopoli mafiosi che dominano la rete di trasporti urbani, con la violenza delle rimozioni effettuate da uno Stato servile alla speculazione immobiliare, con i massacri commessi, in particolare dalla Polizia Militare, contro la popolazione povera e nera, e tutto il modello predatorio che calpesta le comunità, le vite, le economie, riducendo il processo di ascesa e di produzione sociale a una riappropriazione statistica: la nuova “classe C”. Ma qualsiasi cosa si dica è sempre poco per spiegare la potenza dei movimenti del 2013: si tratta di mutazioni che hanno aperto profonde fessure nelle certezze politiche e nelle strutture della rappresentanza.

Gli intellettuali e gli accademici hanno avuto paura, perché nulla sembrava incastrarsi perfettamente nelle loro scatole concettuali ben definite. Le oligarchiche imprese di comunicazione hanno cambiato la loro posizione almeno quattro volte in meno di un mese: in primo luogo, come di consueto, hanno criminalizzato il movimento, poi, tentando un’operazione di riappropriazione, hanno voluto trasformarlo in una grande mobilitazione “anti-PT” e “anti Dilma “, poi hanno tentato una divisione moralistica tra i propri manifestanti (i cittadini pacifici versus i vandali), ed infine, sono ritornati alla solita criminalizzazione. Il governo, i partiti di opposizione e quelli al potere, si sono pure loro barcamenati nelle versioni e interpretazioni fino ad unirsi, sfortunatamente, al coro unisono della criminalizzazione e della repressione. Malgrado molti di coloro che avevano sostenuto Lula partecipassero al movimento, l’apparato del PT e i governi alleati non hanno resistito alla seduzione facile e vigliacca di demonizzazione e di sostegno alla repressione.

In un certo senso, però, è stato sempre nel campo della soggettività e del desiderio che questo conflitto fin dall’inizio si é materializzato in contenzioso economico e politico. Il semplice segnale di un qualsiasi tipo di riforma e di cambiamento sociale, era già sufficiente, ancora nel 2003, a provocare l’intensificazione e la diffusione della paura e dell’odio nella società brasiliana. “L’odio per i poveri”, “l’odio per il PT,” l’odio per Lula “,” l’odio per il Nord-Est “, il razzismo, il sessismo, l’omofobia, sono usciti allo scoperto e sono passati ad essere proclamati apertamente, debitamente intensificati da parte delle imprese di comunicazione dominate da cinque o sei famiglie, paradigma delle nostre strutture, vere e proprie piantagioni virtuali. In una società in cui la cultura dei privilegi unisce l’élite e le vecchie classi medie bianche, queste non si preoccupavano più di dissimulare che la possibilità stessa dell’universalizzazione dei diritti, anche se in un orizzonte ancora lontano, gli era insopportabile. E così, prendere lo stesso aereo con un dipendente, o vedere i propri figli studiare all’Università con un giovane di colore della periferia cominciarono a essere qualificati di “comunismo” o “progetto di una repubblica bolivariana”.

D’altra parte, questa specie di onda conservatrice si stava diffondendo pure all’interno dell’alleanza di governo e della sua propria base. L’inversione del desiderio in paura, e della paura in odio, è diventata una strategia politica: paura comprensibile di coloro che hanno avuto un passato da povero come spauracchio, paura del salto nel buio, delle nuove forme di vita, delle nuove composizioni famigliari, della sessualità vissuta in modo diverso, senza parlare della paura per niente astratta della morte per coloro che vivono in zone della città dove la vita vale molto poco e dove migliaia di giovani neri e poveri sono uccisi prima di raggiungere i 20 anni. E così, l’economia della speranza del cambiamento è entrata in conflitto con l’economia della paura. Questo conflitto prendeva toni drammatici e una temeraria organicità, unendo a volte, in un’unica onda, il conservatorismo della violenta opposizione a Lula/Dilma al conservatorismo della propria coalizione di governo. E così le potenti strutture delle chiese neo-pentecostali e delle imprese di comunicazione, legate tra loro o no, sono state decisive per organizzare, migliorare, rafforzare, sistematizzare ed agire in modo strategico a livello statale, avanzando azioni politiche contro i diritti, tentando un’istituzionalizzazione e una legalizzazione dell’omofobia, del sessismo e dello Stato poliziesco con il suo razzismo e classismo. D’altra parte, i movimenti sociali mai più sono stati gli stessi dopo il 2013; e qui si parla di nuovo di speranza, di produzione politica che si reinventa in tanti luoghi in Brasile oggi. Le nuove forme di organizzazione, le nuove forme di lotta, i collettivi politici, i collettivi culturali, la creatività e le lotte nelle periferie e nelle favelas, un’impressionante disseminazione del movimento femminista al di là della classe media intellettuale, la strenua resistenza del movimento nero contro uno Stato poliziesco in recrudescenza, il rifiuto dei vecchi apparati e delle vecchie pratiche di potere. In tutti questi movimenti, forse il più potente è stato l’occupazione delle scuole di Sao Paolo da parte degli studenti delle scuole superiori nel 2015 contro un progetto che aveva per obiettivo la chiusura delle scuole e la riduzione del numero di classi. Occupazioni simili si svolgono oggi a Rio de Janeiro, nel Ceara, nel Pernambuco e nel Rio Grande do Sul.

Ma alle forze conservatrici dai connotati fascisti e schiavisti tipici del Brasile poco importava che il governo del PT non fosse più in grado di proporre e di condurre delle trasformazioni sociali, poco importava che il secondo governo Dilma, schiacciato dalla crisi economica – che le scelte di sviluppo e il sabotaggio sistematico dell’opposizione ha aiutato ad approfondire – si avvicinava sempre di più al ricettario neoliberista. Il PT rimaneva un partito di sinistra solo nei deliri paranoici dell’odio politico e dell’azione golpista, e una cospirazione politica, con le vesti di una procedura legale, già avanzava senza il minimo rispetto per le conquiste democratiche e la costituzione. In un certo modo questa situazione concerne tutti noi, o quasi tutti noi, che facevamo opposizione al governo Dilma. La polarizzazione che, in una certa misura, conveniva al governo di Dilma per esercitare un ricatto sull’intero campo della sinistra e dei movimenti sociali, la logica del “male minore”, ha finito per schiacciare il governo stesso ed é andata trasformandosi in una vera e propria minaccia per la democrazia e le conquiste sociali degli ultimi anni.

Il 2015 ci ha fatto assistere così alle grandi manifestazioni di piazza che, anche se hanno fatto inizialmente da portavoce ad un’insoddisfazione legittima della popolazione, hanno assunto un aspetto sempre più profondamente conservatore, sono state promosse apertamente da parte delle imprese di comunicazione, hanno esibito senza nessuna vergogna parole d’ordine di natura fascista e schiavista ed hanno mostrato i sostenitori di un processo apparentemente legale di “impeachment” marciando senza vergogna a fianco di gruppi che difendevano l’intervento militare.

Senza avere la stessa copertura mediatica – e addirittura stigmatizzati – ci siamo mobilitati per la democrazia. Le nostre manifestazioni sono andate crescendo in un modo che ha sorpreso molti, compresi noi stessi. In qualche modo ci siamo incontrati di nuovo lì, anche solo per abbracciarci, per parlare del tipo di terrore psicologico che ci é caduto addosso, per poter gridare in mezzo a un’ondata di odio che ci stava lasciando intrappolati, spaventati, non sapendo come agire. Molti di coloro che hanno preso posizione si dicevano contrari alla caduta di Dilma Rousseff, anche se erano opposti al governo. Nonostante i tentativi di controllo delle manifestazioni da parte dell’apparato filo-governativo, molte azioni difendevano la democrazia, la legittimità del governo eletto, senza sottrarsi dal criticare apertamente, e a volte con durezza, anche da parte dei suoi stessi membri, molte delle sue politiche. Il culmine di questo spettacolo é stato forse vedere una comunità indigena, a capo di 80.000 persone nel centro di Rio, prendere posizione contro il colpo di Stato, chiedendo al tempo stesso le dimissioni della Ministra dell’Agricoltura, rappresentante di un agro-business ostile e violento contro i popoli indigeni; una delle principali vittime del modello di sviluppo del governo Dilma.

Questo é il punto in cui ci troviamo, con l’imminenza della conferma definitiva della caduta della Presidente Dilma, in un colpo di Stato già incontestabile, poiché anche i ‘puristi’, anche quei ‘nemici’ che il governo ha creato con le sue scelte, i suoi successi e i suoi numerosi errori, non possono più nascondere l’orrore che significa difendere questo governo illegittimo che in poche settimane ha operato il più grande smantellamento della storia politica brasiliana. Tacere oggi di fronte al colpo di Stato sembra quasi più violento che difenderlo. Siamo pochi, purtroppo. Certamente il tempo ci racconterà questa storia per adesso in atto. Pertanto, in questo momento ogni parola prende il senso di una manifestazione, da un lato fisica (a volte aggressiva o inopportuna), altre volte piena di gioia, di incontri, di questa carne che sta creando una zona alternativa: occupazioni, adulti, vecchi, giovani, bambini, poveri, alcuni ricchi, cani sciolti, un poco selvaggi, macchine celibi che popolano quest’atmosfera che si trova oggi in Brasile. E anche Dilma sale sul podio, per parlare ma anche per ascoltare; con una modalità che non si é verificata nel corso del suo governo. Modalità oggi agita dalla forza del movimento femminista, senza nessun falso decoro; un passo di lato rispetto all’identificazione autoritaria con il fallocentrismo, là dove è possibile essere “cara”, senza per questo aver bisogno di essere pudica3.

La litania religiosa della TV Globo mostra il suo monopolio sul senso, il suo senso unico mai rivelato, ma quotidianamente venerato. E in un modo così brutale che guardiamo due mondi aprirsi sotto i nostri piedi: uno, di ritorno alle origini, desiderio fascista, di inquisizione, di intercettazioni considerate come legittime (e peggio, veritiere!) ed il giudizio! – desiderio del giudizio finale.

Un altro, ancora un po’ informe, popolato da queste occupazioni, dai nuovi dissensi, dai nuovi disaccordi, dagli incontri e dalle perdite rielaborate: molte perdite che chiedono di passare, che dobbiamo lasciare andare. Ma da li’ da dove ascoltiamo, sembra che la novità sia che siamo chiamati non solo a parlare, pratica che ci ha isolati, e che per molti ha trincerato in se stessi. Siamo ora chiamati a sentire.

Questo lungo testo, un poco lettera aperta, un poco manifesto, un poco articolo di analisi politica, un poco pamphlet affettivo e militante, esprime la propria difficoltà di classificazione. Frutto delle nostre incertezze. Abbiamo voluto dare un segnale ai nostri amici di tutto il mondo, a molti di coloro che ci hanno inviato messaggi chiedendoci di spiegare cosa stesse succedendo, volendo capire: preoccupati per noi. Sì siamo stati vittime di un colpo di Stato (di questo siamo sicuri!), in molti sensi e ben oltre il semplice dibattito legale (anche se centinaia e centinaia di esperti legali dicono che si tratta di un processo incostituzionale). Agli amici di tutto il mondo chiediamo solidarietà e preghiamo di far circolare questo testo e questo sentimento il più possibile, nelle reti, nelle strade, nelle case, nelle università e in tutti i luoghi di lavoro e di festa.

Per il ripristino immediato della democrazia in Brasile!
Nessun diritto o politica sociale in meno! Fora Temer!

Rio de Janeiro, inverno 2016

Traduzione: Viviana Lipuma

 

 

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  1. Il « coronelismo » (colonellismo) é stato il sistema politico del Brasile vigente sotto la «Vecchia Repubblica» (1889-1930). Il potere locale era affidato ai latifondisti fideli al governo, i coroneis. 

  2. In America Latina, lo “sviluppismo” (“desenvolvimentismo”), a volte chiamato anche “nazional-sviluppismo”, é stata la proposta di un modello nazionale di sviluppo che aveva come obiettivo l’industrializzazione dei Paesi di economia agricola, attraverso un modello di “sostituzione di importazioni”, sussidi alle industrie locali, investimento pubblico per infrastrutture e formazione di un mercato interno forte. Le proposte sviluppiste sono elaborate da economisti e ricercatori in scienze sociali legati al Cepal (Commissione Economica per l’America Latina e Caraibi, organo dell’Onu), tra i quali spiccano Celso Furtado, Raul Prebicsh e Maria da Conceição Tavares, e si sono trasformate in una specie di bandiera, di ideologia, da una parte considerevole del movimento di sinistra latino-americano. 

  3. Come parte della campagna per rovesciare Dilma Rousseff, la destra ha iniziato a diffondere lo slogan “Ciao cara”. Il termine “cara” ha qui una connotazione tipicamente sessista, forma di superiorità con cui gli uomini trattano le donne quando vogliono di squalificarle, per esempio, in un dibattito politico. Parte del movimento di difesa del mandato di Dilma, nel frattempo, ha cercato di recuperare la dimensione affettiva del termine diffondendo lo slogan “Resta cara.”