Di MARCO BASCETTA
Mentre l’Europa tace o balbetta, in stato confusionale, a «una sola voce», confondendo le sue ragioni politiche con quelle della Nato, quel poco che resta della sua «differenza» e autonomia di pensiero è tenuto in vita da Amineh Kakabaveh, deputata di origini curdo-iraniane del parlamento svedese, decisamente contraria all’ingresso della Svezia nell’Alleanza atlantica. Con il suo voto di astensione ha infatti salvato dalla sfiducia il governo.
Deciso ad abbandonare la storica neutralità svedese, di Magdalena Andersson, ma a un patto. Che Stoccolma non si pieghi al diktat del sultano turco il quale pretende, per dare il suo consenso all’ingresso della Svezia nella Nato, l’estradizione degli esuli curdi in quel paese (tra i quali figura la stessa Amineh Kakabaveh), nonché la rinuncia di Stoccolma a sostenere la resistenza curda nel Rojava contro l’aggressione turca e la politica di annientamento condotta da Erdogan nel nord della Siria. Il regime di Ankara, in nome della sicurezza, occupa militarmente territorio straniero, sebbene in misura per il momento minore a quella praticata da Putin e si prepara comunque a una nuova offensiva nella tollerante indifferenza delle democrazie occidentali.
CHE L’EUROPA non proferisca verbo contro un «autocrate» (la qualifica non è esclusivo appannaggio di Putin) che pretende da un paese sovrano il fiancheggiamento delle proprie politiche di repressione è già una miserabile porcheria. Ma, agli antipodi dalla limpida presa di posizione di Kakabaveh registriamo anche l’opportunistico cedimento di Ursula von der Leyen, disposta a sbloccare i finanziamenti comunitari destinati a Varsavia in cambio di un compromesso sull’autonomia della magistratura che si configura come una risibile caricatura dello stato di diritto, in un paese che si accinge a istituire il registro poliziesco delle gravidanze. Mentre a Victor Orbán viene consentito, oltre che di rifornirsi del petrolio russo, di depennare dalla lista dei sanzionati uno dei principali pilastri del regime putiniano: il patriarca omofobo, zarista e guerrafondaio Kirill. L’Unione europea non era caduta mai così in basso.
Questa è l’Europa dei “von” contro quella degli esuli e dei partigiani della democrazia e dei diritti umani. L’Europa che sovvenziona la dittatura di Ankara per scaricare il peso degli esuli e dei migranti, fornendo così al regime di Erdogan un potente strumento di ricatto e una massa di manovra da impiegare nelle sue mire espansioniste.
ED È UN’EUROPA moribonda, la cui retorica sui «valori» è inversamente proporzionale alla pratica cinica e opportunista che la caratterizza. Senza risparmiare nessuna forza politica. A cominciare dalla conversione bellicista dei Verdi tedeschi. Questo relitto in balia degli eventi, l’Unione europea, è assediato, per restare su questa riva dell’Atlantico, da almeno tre nostalgie imperiali tutte tradotte più o meno direttamente in politiche attive. La prima è evidentemente quella russa, tesa a recuperare egemonia sull’est d’Europa e a non subordinare più il proprio processo di accumulazione a modelli, forme e «buone maniere» di provenienza occidentale. Mosca prende commiato dall’Europa, troppo atlantica, per costruirsi uno spazio autonomo e autoritario dentro lo squasso della globalizzazione. La scorciatoia della guerra dimostra però quanto accidentato, improbabile e gravido di imprevedibili rischi, sia questo percorso.
La seconda è quella ottomana. La Turchia di Erdogan ha cessato di bussare alla porta della Ue e di esibire stitiche credenziali democratiche per condurre una propria politica di potenza nel Mediterraneo, dalla Siria, alla Libia, al mare Egeo. Sempre più simile alla Russia di Putin con la quale coltiva intensi rapporti e reciproci favori. Forte della sua appartenenza alla Nato e della sua decisiva posizione geografica, sfrutta la guerra in Ucraina per occupare un ruolo centrale, consolidare la natura autoritaria del regime e allargare la sua sfera di influenza. Al colmo della prepotenza si sente in diritto di dettare legge in Svezia e Finlandia.
LA TERZA, CHE PUÒ anche apparire folcloristica, tanto più quando si manifesta nelle sgangherate esibizioni di Boris Johnson, nel giubilo di once, yarde, pollici e pinte, è quella britannica. Ma non conviene prenderla troppo alla leggera. Londra va sviluppando nell’Est europeo una propria politica del tutto distinta da quella europea, e sta spingendo per una escalation della guerra in Ucraina che tende a forzare e sopravanzare la relativa prudenza dell’Unione, accreditandosi come partner più affidabile, deciso e solidale in molti paesi dell’ex blocco sovietico con l’intento, assai poco velato, di soppiantare l’ingombrante presenza tedesca che ha dominato la scena negli anni di Kohl e di Merkel. Sempre più chiaro è il fatto che Brexit non costituiva solo una uscita dalla Ue, ma l’esordio di una politica contro di essa (come dimostra del resto la crescente discriminazione nei confronti dei cittadini comunitari). Mettendo perfino ideologicamente in conto di subire qualche serio danno da questa separazione conflittuale.
Il fatto che il Vecchio continente venga indebolito e destabilizzato dalle ambizioni imperiali che lo circondano, potentemente alimentate dalla guerra, può anche non dispiacere a Washington, ma si tratta di un azzardo spericolato e non sarebbe la prima volta che gli Usa sbagliano i conti, dal Vietnam all’Afghanistan. E questa volta potrebbe perfino costare molto più caro.
Questo articolo è stato pubblicato su il manifesto il 9 giugno 2022.