di MARCO BASCETTA*. «Un testo articolato e complesso», così Carlo Formenti definisce nelle sue conclusioni La variante populista, il libro che ha recentemente pubblicato per i tipi di DerveApprodi (pp.282, euro 20). Non ha torto. Si tratta di un lavoro ambizioso che, partendo dal quadro generale del neoliberismo, passa in rassegna un gran numero di entità territoriali ed esperienze politiche, dalla Cina, all’America latina, dagli Usa all’Europa, nonché buona parte delle realtà di movimento e delle formazioni politiche che hanno popolato la scena in questo inizio di secolo. Con particolare attenzione a quelle che potrebbero rappresentare una «variante populista» della lotta di classe ai tempi del neoliberismo: dalle «rivoluzioni bolivariane» in America Latina ai sostenitori di Bernie Sanders, da Podemos ai nostri pentastellati. formenti3

L’ATTRAVERSAMENTO di un territorio tanto vasto è però appesantito dalla costante pulsione a «fare i conti» con questo o con quello. Quasi la denuncia dell’«errore» altrui e dei suoi effetti corruttori venisse prima della propria linearità argomentativa. Certo, nella tradizione marxista (e in Marx) il gusto corrosivo della polemica come strumento esplicativo aveva il suo peso e il suo fascino. Ma, col passare del tempo, quello stile ha finito col prendere d’aceto.

La modalità «reattiva» dell’argomentazione rispecchia, in realtà, una modalità reattiva dei comportamenti politici cui Formenti attribuisce un peso determinante: «il risentimento nei confronti del ceto politico (…) è una delle più potenti spinte motivazionali delle rivolte popolari degli ultimi decenni e rappresenta quindi uno strumento decisivo per raccogliere ampi consensi trasversali». Altrove, facendo riferimento al successo di Donald Trump, l’autore scrive: «il risentimento proletario nei confronti della sinistra “radical chic” che li ha abbandonati si è così trasferito anche ai migranti che “rubano” i posti di lavoro, al movimento Lgbt, agli intellettuali etc…». Trasferimento niente affatto sporadico o casuale, visto il ruolo determinante giocato dal rancore nella storia dei fascismi (a partire da Versailles).

DOMANDE INEVASE, aspettative frustrate, torti subiti, sono i fattori che, scardinando vecchie appartenenze, confluiscono nel risentimento, la cui prima caratteristica è il carattere riflesso, il contrario esatto di ogni attitudine costituente. Lungi dall’affermare in autonomia un’idea esso elegge a segno di virtù il fatto stesso di avere subito un torto. La condizione della vittima diviene così l’unica effettiva misura del Bene. Tuttavia, la convinzione di avere patito una ingiustizia e di poterne perfino indicare i colpevoli non si traduce in un conflitto se non attraverso l’affidamento a un redentore, un capo carismatico. Sempre disponibile alla delega, sempre in cerca di una guida, il risentimento si presta agevolmente ad essere politicamente mobilitato. È il potere dell’impotenza, per così dire, che si rende disponibile all’agire politico, che accampa pretese morali, parla il linguaggio della giustizia, reclama la riparazione dei torti, coltiva un irrefrenabile desiderio di punire, si traduce in una domanda normativa. In conseguenza si offre alla politica anche quando fa mostra di detestarla, di considerarla la fonte di ogni male e di ogni corruzione.

formenti1Tutto questo potrebbe essere considerato come un deficit di soggettività a cui la mitologia populista fornisce in risposta, e in sostituzione, le astrazioni classiche del Popolo, della Nazione, della Sovranità. Sulla possibilità di dirottare questi concetti e le corrispondenti realtà politiche dalle forme mostruose che hanno generato nella storia del Novecento e continuano a generare nella contemporaneità, dando loro uno sbocco democratico e anticapitalista, l’autore fa mostra di un ottimismo non proprio confortato dall’osservazione della realtà che ci circonda. Per il resto, invece, ci propone una serie di irriducibili antinomie.

LE LIBERTÀ INDIVIDUALI, (che non sono solo diritti, ma anche pratiche) sarebbero irrimediabilmente inscritte nella logica e nello sviluppo del neoliberismo inteso come un processo compatto, impermeabile a ogni deviazione interna e capace di mantenere tutto sotto controllo. È, dunque, solo trascendendole nella dimensione collettiva della comunità, intesa come unico e vero «fuori», che si potrà sfuggire alle grinfie dell’accumulazione del capitale. Di qui l’ «elogio dell’arretratezza», che comprenderebbe, però, anche un «dentro» (precari, migranti, cognitivi «declassati») tutt’altro che «arretrato» e saldamente insediato nei punti alti dello sviluppo.

Regna insomma una discreta confusione, dettata ancora una volta dalla polemica contro l’ «errore» che privilegerebbe i settori di punta in cui più immediata è la contraddizione tra forze produttive e rapporti di produzione.

Questo «fuori» dal dominio pervasivo del capitale è saldamente localizzato, tanto che Formenti pone al centro della sua analisi il seguente assioma: «se è vero che la lotta di classe è oggi guerra tra flussi e luoghi, ciò significa che se sei dentro i flussi non puoi essere contro, per essere contro la tua lotta deve partire dai luoghi». Chi nuota nel mondo liquido e fluente del capitale non può farlo controcorrente, ne è parte e docile strumento.

Così come non esisterebbe alcuna cooperazione cognitiva che non sia condizionata fin dall’inizio (e fino alla fine) dalle forme, dagli imperativi e dagli schemi dell’accumulazione capitalistica. Del resto, neanche il proletariato industriale esisteva prima del rapporto di capitale. Nondimeno non ha mai accettato di lasciarsi schiacciare docilmente sulla sua dimensione di merce. Perché dovrebbero farlo i lavoratori cognitivi contemporanei?formenti4

La risposta, un po’ debole e malevola a dire il vero, è che se la passano molto meglio, comodamente insediati nell’intendenza delle élites.

IL MONDO DESCRITTO in questo libro appare come spaccato da una profonda asimmetria. Mentre sul versante dei flussi, della mobilità globale, delle reti del lavoro cognitivo non si riconoscono né contraddizioni, né incrinature, men che meno varchi verso il superamento dei rapporti di sfruttamento, in quello dell’attaccamento al territorio, nella sua dimensione identitaria, popolare e nazionale si conserverebbe lo spirito dell’anticapitalismo e la sua etica comunitaria.

Il fatto che le numerose «piccole patrie», cresciute digrignando i denti dopo l’89, abbiano rapidamente sviluppato tratti razzisti e autoritari, che in molti casi non è errato definire fascisti, dovrebbe mettere in guardia dal concedere credito a un presunto patriottismo anticapitalista. La «priorità nazionale» va affermandosi sotto il segno della destra più aggressiva e minacciosa. Ciò nonostante Sanders e Corbyn votano (metaforicamente) i crediti di guerra (per ora fortunatamente solo commerciale) l’uno al protezionista Trump, l’altro ai nostalgici dell’impero schierati sotto la bandiera del Brexit. Il socialismo fatica a perdere i suoi vizi. Insomma se non si può non riconoscere l’egemonia neoliberista sulla mobilità globale, si dovrà altresì convenire che la destra autoritaria tiene saldamente in pugno l’idea e la pratica della sovranità nazionale. A partire da questa constatazione ciascuno potrà valutare dove si profilino le contraddizioni che permetteranno di scardinare lo stato di cose esistente. Senza precipitarci nuovamente nella tragedia che ha devastato il Novecento.

*pubblicato da il manifesto il 17 febbraio 2017

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