di BENEDETTO VECCHI.

Una carrellata di saggi, interviste, repliche a critiche che dai primi anni Cinquanta si conclude alla fine degli anni Ottanta del Novecento. È questa la scansione del libro che la casa editrice Orthotes ha meritoriamente tradotto per restituire il percorso teorico di Gilbert Simondon, il filosofo francese del tutto sconosciuto in Italia fino alla traduzione del saggio su L’individuazione psichica e collettiva svolta da Paolo Virno, che ha corredato il libro, edito da DeriveApprodi nel 2001, di una preziosa postfazione che contestualizza l’opera di Simondon all’interno della riflessione del pensiero critico attorno ad alcuni nodi – il principio di individuazione, la discussione sulla natura umana, la crisi della rappresentanza.

Il volume, curato da Antonio Stefano Caridi, ha un titolo certo generico, ma non meno impegnativo di quello sull’«individuazione», perché consente di conoscere gli elementi caratterizzanti la produzione teorica di Simondon, Sulla tecnica (Orthotes, pp. 420, € 23), non essendo stata ancora tradotta Du mode d’existance des objets tecniques, ritenuta la sua opera più importante. In questa raccolta di saggi ci sono forti echi della teoria dell’informazione e della teoria dei sistemi, della critica al determinismo economicista di una parte rilevante del marxismo «ufficiale» nella Francia degli anni Sessanta, nonché una creativa rielaborazione delle tesi di Georges Canguilhem, che molto condizioneranno Michel Foucault e Gilles Deleuze.

Sarà soprattutto quest’ultimo a sollecitare lo sviluppo dei percorsi di ricerca di Simondon, bruscamente interrotti con la sua morte, avvenuta nel 1989. Per Deleuze, Simondon era uno dei più acuti interpreti delle forme di vita e delle relazioni sociali dove la tecnica svolge il fondamentale e paradigmatico ruolo di mediazione tra l’uomo e la natura.
Va detto che il filosofo francese ha il merito di riuscire a sbrogliare la matassa delle antinomie tra natura e cultura, cultura e tecnica che scandivano la filosofia, l’antropologia e la sociologia dominanti.
Per Simondon, più che tensione e conflitto, cultura e tecnica sono dimensioni complementari della propensione umana a dare una dimensione normativa alla riproduzione della nostra specie: la cultura e la tecnica sono strumenti che gli umani utilizzano per dominare la natura, per piegarla alla proprie necessità di riproduzione. Tesi seminale, meglio anticipatrice di tanta letteratura sull’antropocene, cioè sul campanello d’allarme sulla irreversibilità dei cambiamenti introdotti dall’uomo nella natura che potrebbero portare alla scomparsa della specie umana. Non è un caso che gli ultimi scritti di Simondon, presenti in questo volume, siano dedicati alla possibilità di una filosofia «ecologista» che non rifiuti né la tecnica né la scienza.

Tecnica e non tecnologia è però il bandolo da sbrogliare. Non dunque la successione di manufatti tecnologici che hanno accompagnato lo sviluppo scientifico e industriale della modernità, bensì lo statuto della tecnica in quanto prodotto culturale e sociale è il nucleo della riflessione di Simondon, che introduce il termine «tecnofania» per indicare il surplus mitologico, simbolico, sociale, culturale svolto da un manufatto tecnologico. Il caso più eclatante è l’automobile, intesa non come agglomerato di componenti, ma come un oggetto investito di un ruolo e un significato che eccedono l’oggetto in sé. La tecnofania non riguarda ogni automobile, ma un tipo particolare di veicolo che ha avuto caratteristiche specifiche, sia dal punto di vista innovativo che dell’immaginario collettivo.

Simondon scrive diffusamente dell’evoluzione tecnica, sottolineando che essa può essere rappresentata come le onde concentriche che scaturiscono da un sasso lanciato in uno stagno. Le prime onde sono gli oggetti, i componenti stessi di un manufatto tecnico. Possono nel tempo migliorare, cambiare, ma rimangono prodotti che, solo se assemblati, avranno la capacità di trasformarsi in manufatti tecnici.
Talvolta, possono essere equiparati all’esito di un buon lavoro artigianale che riesce ad attirare l’ammirazione di gruppi professionali ristretti, ma solo le onde più esterne dell’evoluzione tecnica acquisiscono, attraverso l’uso, una «sovradeterminazione» culturale. Così è stato per alcune automobili (la due cavalli in Francia, la Cinquecento in Italia) e, si può aggiungere, di alcuni personal computer. Tanto per le automobili che per i computer la tecnofania riguarda quindi non i pistoni, le ruote, il volante, o i microprocessori, bensì la storicità psicosociale dell’oggetto tecnico nella sua unitarietà e univocità.
Simondon lo ripete più volte che l’uso non produce automaticamente la storicità psicosociale di un manufatto. Sono necessari altri passaggi, altre elaborazioni nel corpo sociale, ma tali passaggi non sarebbero possibili se non ci fosse però un innegabile valore d’uso del manufatto.

La due cavalli, in Francia, ha così rappresentato non solo un mezzo di trasporto o di lavoro in campagna ma anche un’idea di libertà di movimento: è da questa connotazione simbolica che viene tessuta la sua articolata tecnofania. Simondon distingue, infatti, la storicità psicosociale nelle aree rurali da quella metropolitana; quella dei maschi e quella delle donne. Elementi diversi, che tuttavia compongono una tecnofania riconosciuta individualmente e socialmente anche se culturalmente articolata, usando un lessico di Simondon, a seconda dei gruppi e sottogruppi sociali.
Lo stesso, si può aggiungere, è accaduto per alcuni personal computer: dal mitico Commodore 64 al più elegante McIntosh della Apple. Entrambi rappresentavano la scienza strappata agli specialisti e restituita al popolo.

Simondon non nega che le «tecnofania» abbia molti elementi in comune con la sacralità. Come la sacralità è plurifunzionale nel fornire una spiegazione, mitizzata e astratta, delle dinamiche sociali con i loro «misteri» o inafferabilità. In altri termini sono, seppur in maniera diversa, fattori che mediano il rapporto dell’uomo con la natura; e tra gli uomini. E tra gli uomini e le donne.
Come in anni recenti ha sottolineato la filosofa e psicologa Sherry Turkle, molte donne declinano i computer al maschile e fanno di tutto per umanizzarlo; così come molti maschi li declinano al femminile. È questa storicità psicosociale che costituisce un terzo tipo di alienazione che si affianca a quella marxiana e alla psicoanalisi. Simondon tuttavia non la declina negativamente, bensì la presenta come l’inevitabile esito della pervasività della tecnica nella modernità. Sulla tecnica presenta materiali scritti e elaborati in oltre quarant’anni di studio e insegnamento.
Ma nell’insieme della sua riflessione emerge con forza la connotazione sociale della tecnica. Che per questo non è mai oggettiva o neutra. La sua riflessione sulla tecnofania mantiene una attualità se applicata, ad esempio, al software: la sua progettazione, la sua traduzione in diagramma di flusso e la scrittura del codice definiscono sia come sarà usato una volta prodotto e diffuso, ma anche i principi normativi e i rapporti di potere che vuol rafforzare e legittimare. Il software manifesta cioè una vision dei rapporti sociali di produzione.

Da questo punto di vista, il software tradisce sempre la sua performatività rispetto alla realtà sociale. Oltre che codice informatico è, quindi, anche un dispositivo «politico» teso a trasformazione dei rapporti sociali mantenendone inalterati i rapporti di potere. Seguendo l’uso di Simondon della teoria dell’informazione, si potrebbe dire che il software manifesta una vera e propria ideologia dominante.
La riflessione di Simondon manifesta, inoltre, un’altra attualità quando affronta una dimensione ludico-artigianale nel tentativo di migliorare l’oggetto tecnico da parte di chi lo usa. Potremmo dire che sono gli antenati dei prosumer osannati dai cultori apologeti della sharing economy. La pagine che il filosofo francese dedica al lavoro artigianale sembrano essere state scritte come una cronaca «ragionata» della diffusione della retorica sull’artigiano digitale che tanto appassiona il mondo anglosassone. Ma perde in incisività quando relega la riflessione marxiana a manifestazione di un macchinismo fine a se stesso. E perde di radicalità teorica quando considera il craftsman – in questo le sue tesi non sono molto distanti da quelle di Richard Sennett o degli apologeti della sharing economy – una figura prometeica senza legami sociali, quasi che l’artigiano sia un individuo proprietario che accede alla tecnica per mettere a profitto il proprio capitale umano.

Il merito di questo libro sta dunque nell’aprire percorsi di ricerca che consentono di superare paralizzanti antinomie, come quelle tra natura e cultura, tra tecnica e cultura. E di aprire spazi di riappropriazione di quel sapere e di conoscenza solidificata in macchina, fattore indispensabile di una politica radiale della trasformazione che passa, appunto, per la riappropriazione del capitale fisso che non sono solo macchine, ma anche manufatti immateriali come il software.

questo articolo è stato pubblicato sul manifesto il 28 ottobre 2017

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