di MARCO BASCETTA.

 

«Tumulto», a dire il vero il titolo scelto dall’autore per il singolare montaggio di scritti che compongono il volume di Hans Magnus Enzensberger datato 2014 e oggi tradotto da Daniela Idra per Einaudi (pp. 236, euro 19,50, già recensito su Alias della domenica da Roberto Gilodi il 1 maggio scorso) è piuttosto fuorviante. Il tumulto nasce, si approfondisce e si esaurisce in uno spazio e in un tempo suoi propri, intensi, circoscritti, perfettamente identificabili. Nell’arco temporale che gli è concesso e nello spazio che racchiude il suo svolgersi muterà la natura e il senso dei luoghi, la percezione e l’autopercezione dei soggetti che li attraversano. Seppure non rappresenta, come vorrebbe la dottrina rivoluzionaria, la tappa di un percorso verso il mondo nuovo, lascerà comunque il segno di una possibilità, un principio di correzione o un tarlo nell’impalcatura dell’ordine dominante.

Per queste sue caratteristiche, dunque, il tumulto poco si attaglia a quella sorta di Grand Tour attraverso il mondo in subbuglio degli anni Sessanta e Settanta che Enzensberger ricostruisce tramite frammenti di memoria, appunti di viaggio e la finzione del vecchio autore (classe 1929) che intervista il sé stesso di cinquant’anni prima. Tra i due, malgrado alcune domande insidiose e qualche benevola insofferenza, sembra permanere una sostanziale sintonia.

Un lucido flâneur

Dai tumulti, in realtà, Hans Magnus si tiene piuttosto alla larga. Non è a Parigi nel maggio ’68, non in Germania durante i disordini della «settimana di Pasqua» che seguirono l’attentato contro Rudi Dutschke, né a Praga nei giorni dell’invasione sovietica. Nessun attraversamento delle insorgenze che scossero violentemente gli Stati Uniti in quell’anno. Di tutto questo filtra nella sua memoria una eco piuttosto attutita, sommaria, talvolta addirittura sbiadita. Eppure dai ricordi di questo acuto flâneur che si sposta dall’Unione sovietica di Krusciov (di cui ci offre un memorabile ritratto dal vivo) alla Cuba degli anni Sessanta, dalla Cecoslovacchia alla Cambogia, da Londra agli Usa, tra la prigionia soporifera dei convegni culturali «progressisti», continui tentativi di fuga e incontri straordinari con i più importanti intellettuali e scrittori del tempo, prende forma il mosaico di un mondo che l’ordine di priorità degli storici non ci saprebbe restituire altrettanto vividamente. In realtà il filo che collega questo lungo e tortuoso peregrinare attraverso le frontiere della guerra fredda è più un amore in cerca della sua dimora che non un progetto di conoscenza o di formazione politica. Amore irrequieto, ma anch’esso narrato con un distacco privo di sentimentalismi.

Singolarmente è proprio la Germania a rimanere ai margini di questa narrazione, a suscitare quasi una pudica ombra di fastidio nell’autore considerato tra le voci più importanti dell’intellighenzia critica tedesca del dopoguerra e un ispiratore decisivo della rivolta antiautoritaria. Alla rivista da lui fondata nel 1965, che fu guida imprescindibile del movimento in Germania, Kursbuch, è dedicato solo qualche sporadico accenno. In quella radicale frattura generazionale, con la sua baldanza e le sue tragedie, che fu il ’68 tedesco, Enzensberger non intende addentrarsi eccessivamente.

Nella sua memoria di quel tempo sembra prevalere molta diffidenza e la pulsione, già allora dominante, a non lasciarsi troppo coinvolgere, a restare piuttosto in disparte. Dà una mano a compagni delle cui illusioni sorride, ma non se ne lascia invadere la vita. Tumulto, Wirrwarr, baraonda, tutto quello che volete, ma non certo la Rivoluzione di cui molti fantasticavano si trovasse dietro l’angolo. Gli innumerevoli gruppuscoli marxisti leninisti che si accapigliavano a colpi di citazioni tratte dai sacri testi, ciascuno autoproclamandosi solennemente «Il Partito» erano uno spettacolo piuttosto comico già all’epoca. Così come lo erano le teatrali provocazioni della Kommune 1 di Kunzelmann, Langhans e Teufel che del mondo cambiarono soprattutto le prime pagine indignate della stampa popolare tedesca. Eppure, tanto la «carnevalata» (così De Gaulle aveva definito il maggio francese) dei comunardi, quanto i dogmatici ricettari della Rivoluzione marxista leninista e perfino la vocazione sacrificale della Rote Armee Fraktion in Germania avevano molto a che fare con la reazione estrema, talvolta ingenua o scomposta, a quella frana catastrofica dell’eticità borghese che era stato il nazionalsocialismo. Mai una generazione aveva potuto percepire così nitidamente la contiguità tra le buone maniere e il crimine. E votarsi senza mediazioni a tutto quello che il terzo Reich aveva inteso combattere e annientare o, al contrario, avversare ciò che aveva coltivato.

Antichi spettri

Enzensberger, a suo modo, è partecipe di questo imperativo morale, ma lo esercita, per così dire, in termini di sottrazione. La sua memoria trattiene il seguente episodio: siamo nel 1966 a Francoforte sulla piazza del Roemerberg. La grande coalizione tra Spd e Cdu intende approvare i Notstandsgesetze, una insidiosa legislazione di emergenza che permetterà in larga misura la sospensione dei diritti politici e democratici e che passò in Parlamento nel maggio del 1968 (ai tempi di Hollande non desterebbe più stupore). Ad opporsi restano solo il movimento extraparlamentare e il sindacato metalmeccanico Ig Metall. Enzensberger parla dal palco del Roemerberg di fronte a 25mila persone, ma non appena percepisce l’effetto trascinante delle sue parole sui manifestanti subito gli appare con disgusto lo spettro di Joseph Goebbels che nel celebre discorso dello Sportpalast nel febbraio del 1943 chiamava il popolo tedesco alla «guerra totale». Si ripromette allora di non salire mai più su una tribuna. E avrebbe sempre mantenuto questa promessa. Non importa che l’appello fosse quella volta in difesa della democrazia, è nel carisma mobilitante delle parole rivolte dall’uno ai molti che si annida il male. Una simile sensibilità poteva appartenere solo a un intellettuale tedesco cresciuto nel dopoguerra. Rappresenta una scelta morale ben diversa dalla appassionata oratoria di Rudi Dutschke, ma altrettanto legittima e schierata in qualche modo dalla stessa parte. Ma questi anticorpi, che la generazione del ’68 aveva iniettato con la sua insubordinazione priva di tatto nella società tedesca, denunciando il labile confine tra anticomunismo, morale borghese e politica autoritaria, sono considerati oggi da una opinione pubblica che va progressivamente scivolando verso la destra come una insopportabile remora politica.

Qual è la parola d’ordine «culturale» che risuona con sempre maggiore insistenza dalle tribune di Alternative fuer Deutschland, l’astro nascente della destra nazionalista tedesca? «Facciamola finita con la Germania sessantottina!». Il che significa anche per i vari Thilo Sarrazin (l’esponente socialdemocratico che si è assunto la difesa, tramite best sellers, dell’identità tedesca contro la minaccia straniera), per buona parte di un’opinione pubblica bisognosa di orgoglio nazionale e di una società desiderosa di perseguire senza vincoli i propri interessi: «facciamola finita con l’espiazione delle colpe del terzo Reich!». Dalla Germania, insomma, non può essere ancora preteso un di più di democrazia e solidarietà in conseguenza della sua storia, né il pudico trattenimento della sua potenza. Cosicché della scomparsa della «Germania sessantottina» c’è poco da rallegrarsi.

Attori diversi

Degli esiti del «tumulto» Enzensberger esprime un giudizio tanto diffuso quanto assai poco brillante: «l’opposizione al sistema è diventata il semplice relè della modernizzazione. Ha accelerato il processo di apprendimento della società capitalistica più decisamente dei suoi sostenitori». Fatto sta che nel 2014, quando il volume è stato messo insieme, era ben chiaro che questo «processo di apprendimento» aveva preso tutt’altra direzione. L’odiata socialdemocrazia «traditrice» che i maldestri rivoluzionari avrebbero loro malgrado condotto alla vittoria si sgretola, ormai irriconoscibile, in uno scialbo tramonto; i sindacati ai quali gli estremisti avrebbero insegnato, contestandoli, a colmare le proprie lacune, hanno continuato a perdere forza contrattuale e presa sulla società; la democratizzazione dell’università di massa è andata a farsi benedire e gli psicofarmaci hanno riguadagnato terreno sulla pedagogia antiautoritaria. Insomma anche gli effetti «deviati» del movimento, la sua stessa «normalizzazione» scompaiono così dalla scena.

Nella logica del tumulto, l’esaurirsi di ogni suo effetto, compresi quelli «indesiderati», richiama la necessità del suo ripetersi. In altre forme, certo, in altri contesti. Il riaffacciarsi di una possibilità, accompagnata, chissà, da inevitabili illusioni, ma forse più aderente agli obiettivi che si prefigge. Enzensberger dichiara il suo ritiro (dal movimento?) e si compiace della libertà che questa decisione gli procura. Ma non fa mancare un pensiero ai «perdenti», ai diversi attori di quell’ormai remoto «tumulto» («non riuscivo e non riesco a sbarazzarmi di un residuo di complicità»). La sua commemorazione, tuttavia, provoca un brivido di disagio: «Li annovero tutti, non importa da quale parte stessero; tanto il manovale Josef Bachmann – che fu condannato a sette anni di carcere per tentato omicidio e in cella si soffocò con un sacchetto di plastica – quanto colui che voleva uccidere, Dutschke, che nove anni dopo in Danimarca è affogato nella vasca da bagno. Il radicalismo non conosce misericordia». Misericordia forse no, ma qualche distinzione gli è pure dovuta. Dall’imbianchino psicolabile imbottito di furore anticomunista che sparò i tre proiettili contro il leader dell’Sds discendono, infatti, i neonazisti, probabilmente altrettanto disturbati e manipolati, che incendiano gli alloggi destinati ai migranti o massacrano per strada chi ha la pelle di un altro colore. Da Rudi Dutschke, piuttosto, i cittadini e le cittadine, i movimenti e le associazioni che ai migranti hanno portato aiuto e solidarietà, battendosi per i loro diritti.

Anche i «perdenti», se di questo si tratta, non sono tutti uguali. A riprova del fatto che, in fondo, «ritirarsi» non è affatto possibile e la memoria non può mai sottrarsi al confronto con il presente in cui viene raccolta.

Questo articolo è uscito su il manifesto il 24.05.2016

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