di BENEDETTO VECCHI. Un lento, ma sicuro declino attende il capitalismo se gli spiriti animali del mercato saranno lasciati liberi di scorrazzare indisturbati. È questa la tesi di due libri dedicati allo stato di salute dell’economia mondiale e all’altrettanto febbricitante situazione dell’Unione europea. Il primo raccoglie saggi e interventi curati e introdotti da Mariana Mazzucato e Michael Jacobs. Ha come titolo un programmatico Ripensare il capitalismo (Laterza, pp. 368, euro 24) e presenta materiali scritti, oltre che dei due curatori, di Joseph Stiglitz, William Lazonick e Colin Crouch, solo per citare autori che hanno visto i loro testi tradotti in Italia. Il secondo volume è del premio Nobel per l’economia Joseph Stiglitz. Il titolo, anche in questo caso, è un didascalico Euro (Einaudi, pp. 452, euro 21) ed è dedicato al fallimento della moneta unica considerata, quando fu introdotta, la leva per dare vita agli Stati Uniti d’Europa.

Testi complementari, dunque, perché se la prima collettanea considera la globalizzazione neoliberista un virus capace di determinare la fine del capitalismo, il secondo vede nella crisi di un progetto nato proprio per rispondere alle sfide della globalizzazione la manifestazione più evidente di una necessaria inversione di rotta per uscire finalmente da una crisi planetaria, ritenuta da Stiglitz ben più radicale della «grande depressione del ’29». Per tutti gli autori, l’obiettivo, oggi come allora, è di salvare il capitalismo da se stesso.
L’affresco del presente è reso più fosco dall’assenza di politiche finalizzate all’innovazione, dalla crescita esponenziale delle disuguaglianze sociali, dall’aumento della povertà e da una democrazia svuotata al suo interno a favore del libero mercato. Per affrontare questa vera e propria emergenza planetaria c’è bisogno di un rinnovato e riqualificato intervento statale nel correggere, modificare una rotta, evitando sia il ritorno alla centralità dello stato nazionale o la perpetuazione di un pericoloso stato delle cose. Due differenti gironi infernali perché il primo coinciderebbe con un astorico isolazionismo, mentre il secondo alimenterebbe una politica di potenza, anticamera di una guerra mondiale dagli esiti catastrofici.

Il neoliberismo non è stato tuttavia un incidente di percorso, una deviazione dalla retta via, ma un progetto politico di società risultato vincente per oltre quaranta anni. Ora non si tratta di riprendere la strada maestra abbandonata, ma di «inventarne» un’altra. Da questo punto di vista, i due volumi sono pervasi dal timore che il tempo per fermare la corsa verso il baratro sia ormai agli sgoccioli. Il recente fallimento del G7 e la confusa e arrogante politica di potenza espressa dal presidente statunitense Donald Trump per imporre nuovamente al mondo un muscolare Washington Consensus non fa che dare conferma ai timori degli autori.

Una volta definito il rosario da sgranare, emergono le divergenze sui modi e le priorità da seguire. In Ripensare il capitalismo, la centralità è assegnata all’innovazione e al rifiuto di miopi politiche economiche incardinate su una suicida dimensione temporale di breve periodo. Se tutto viene svolto in base alle oscillazioni delle quotazioni in borsa, sui dividendi degli azionisti e sulla trasformazione dei servizi sociali in attività economiche imperniate sulla logica del profitto, il collasso del capitalismo è garantito. Servono quindi, scrivono Mazzucato e Jacobs, politiche lungimiranti di lungo periodo. Le tecnologie che hanno portato allo sviluppo economico degli anni Novanta – il cosiddetto capitalismo delle piattaforme, la formazione di nuovi settori produttivi come le biotecnologie e le energie rinnovabili – sono state preparate nel precedente trentennio che ha visto gli stati nazionali (dall’Europa agli Stati Uniti), oltre che agire come imprenditori, investire nella ricerca di base e nella formazione scolastica, elementi indispensabili per la la creazione di una infrastruttura «cognitiva» propedeutica all’innovazione. A gestire i costi sociali dello sviluppo capitalistico è stato delegato un solido – seppur diversificato nelle sue forme istituzionali – welfare state.

Il neoliberismo ha solo sfruttato ciò che era stato preparato anche attraverso la crescita del debito pubblico. Una volta che la spinta propulsiva avviata negli anni Cinquanta del Novecento si è esaurita – assieme alla riduzione ai minimi termini dei diritti sociali di cittadinanza – la crisi si è manifestata con virulenza. Servono perciò «capitali pazienti», scrive Mariana Mazzucato, che non puntino a fare cassa e profitti nel breve periodo. Allo stesso tempo servono investimenti per riqualificare il sistema della formazione. Non lo sviluppo di una economia della conoscenza, termine che Mazzucato non ama, ma scuole e università di qualità senza barriere all’ingresso.
Il limite più evidente di Ripensare il capitalismo è quello di circoscrivere l’analisi all’Europa e agli Stati Uniti, guardando alle società emergenti con una rovesciata ottica «orientalista» di elogio alla saggezza e alla lentezza dei governanti – quel che appariva in passato un limite è visto ora come un punto di forza, ignorando però le logiche identitarie, il feroce sfruttamento del lavoro vivo, la crescente povertà -, ma gli autori colgono il segno quando sottolineano la crescita di realtà da «terzo mondo» in Europa e Stati Uniti.

È questo il rovello di Joseph Stiglitz nel volume Euro. Il premio Nobel dell’economia 2001 sta costruendo un puzzle sulla globalizzazione dove ogni tassello – i precedenti sono La globalizzazione e i suoi oppositori, Bancarotta, Il prezzo della disuguaglianza, La grande frattura, tutti pubblicati da Einaudi – affronta un tema con rilevanza globale. Questa volta esamina la crisi dell’Unione Europea. Stiglitz è considerato un critico della moneta unica europea. Critica che l’autore non respinge, ma dalla lettura del libro non emerge una sua opposizione pregiudiziale all’Unione europea. Semmai ne sottolinea gli errori, gli errori letali di valutazione compiuti dai diversi governanti, con la loro ottusa convinzione che l’Unione europea si potesse costruire a partire da una moneta unica e non da condivise regole che prevedessero la gestione delle specificità nazionali.

L’Unione Europea, scrive Stiglitz, soffre di un deficit democratico intollerabile. I governi nazionali devono infatti sottostare ai diktat decisi da uomini, donne e commissioni che rispondono solo a se stessi e non ai governati. L’assenza di un ethos condiviso ha portato a umiliazioni come quella imposta alla Grecia e a parametri da rispettare «senza se e senza ma» che hanno fatto crescere una ostilità diffusa verso l’Unione europea. Inoltre l’austerità, propagandata come tavola della legge imposta dal dio mercato, sta strangolando l’economia reale europea, favorendo la superfetazione di una vorace finanza globale. I paesi europei hanno visto crescere la povertà, le disuguaglianze , la democrazia è diventata un simulacro utile solo a perpetuare un regime oligarchico che di democratico ha ben poco: queste le condivisibili diagnosi di Stiglitz. Eppure niente è perduto, aggiunge il premio Nobel. Si può immaginare una Europa a due velocità, oppure di uscite consensuali dall’euro. Oppure, e questa sembra la soluzione caldeggiata da Stiglitz, di un maggiore intervento politico dell’Unione europa per compensare le disuguaglianze sociali, aumentando significativamente il bilancio europeo per attivare politiche industriali e sociali che affrontino una stagnazione più che decennale. Nessun paese ne è immune, compresa la Germania. Insomma, quel che serve è un keynesismo continentale che rende la sua proposta compatibile con quella di Yanis Varoufakis, l’ex-ministro dell’economia greca verso il quale Stiglitz spende parole di elogio, a differenza della demonizzazione di cui è stato oggetto da parte di altri economisti e esponenti politici del vecchio continente.

Due libri, dunque, segnati da inquietudine e tuttavia lucidità. Non sono certo materiali che propongono il superamento del capitalismo, bensì manifesti politici di un rinnovato e riqualificato riformismo. E come tali da leggere e discutere. Non c’è nessun invito a sovvertire i rapporti di forza tra le classi – il capitalismo è ritenuto comunque il miglior sistema sociale -, ma le loro tesi e analisi vanno in una direzione che sarebbe sciocco liquidare con sufficienza. In una congiuntura politica dove tutto è in movimento, serve infatti lucidità e preveggenza. E se a livello globale, sono evidenti radicate resistenze al perdurare del neoliberismo, nel vecchio continente un buon riformismo non dovrebbe preoccupare chi invece tesse pazientemente la tela di un superamento del capitalismo.
Il keynesismo continentale di Stiglitz è un terreno nel quale misurare la capacità politica di questa tela che viene tessuta contro l’austerity. A partire dai movimenti contro la deregolamentazione del mercato del lavoro, di opposizione alla distruzione dell’università pubblica, degli scioperi sociali, dell’attivismo transnazionale dei migranti, del mutuo soccorso e della costruzione di iniziative produttive non segnate dalla logica del profitto, della riqualificazione ecologica del territorio. Ai governanti il keynesismo continentale, ai movimenti la sovversione dei rapporti sociali e la costruzione di nuove istituzioni del vivere in società. E chi avrà più tela, meglio tesserà.

questo testo è stato pubblicato sul manifesto il 31 maggio 2017

Download this article as an e-book