di GIROLAMO DE MICHELE.
L’ultima pubblicazione di Bifo, Ultimi bagliori del Moderno. Lavoro, tecnica e movimento nel laboratorio di Potere Operaio, è la riedizione , 25 anni dopo, del libro dedicato a Potere Operaio, “il laboratorio politico del Sessantotto italiano”, come recitava il sottotitolo. Una riedizione che provoca una sorta di “effetto Pierre Menard”: come il critico letterario inventato da Borges che riscrive parola per parola parti del Don Chisciotte, Bifo ripubblica (al netto di due variazioni) un libro che la distanza cronologica dall’originale rende molto diverso, pur essendo identiche le parole di cui è composto. Il libro partecipava a un dibattito molto vivace (del quale Bifo fu, assieme ad Antonio Caronia, uno dei promotori) sull’ampiezza della trasformazione sociale e antropologica causata dalla progressiva affermazione dei processi informatici nella produzione e circolazione delle merci e della comunicazione; e alle soglie di un ciclo espansivo di lotte che si distese da Seattle e Genova fino all’elezione di Trump. Il titolo era tratto, con un velo di ironia, da un articolo di Giorgio Bocca, che nel marzo 1979 definì “nefasta utopia” quella che non era né nefasta, né un’utopia: una definizione che pochi giorni dopo l’impianto accusatorio del bliz contro quella parte dell’autonomia erede di PO avrebbe fatto propria, risemantizzandola come dottrina criminale. Lo stesso Bocca avrebbe poi assunto posizioni garantiste: ma fondandole sull’affermazione che PO era un “gruppuscolo effimero e pasticcione”, e i suoi dirigenti “professori grafomani, attivisti e casinisti”. Ed è in realtà contro questo peloso innocentismo che Bifo polemizzava, mostrando come, pur nelle sue contraddizioni (che ne determinarono lo scioglimento), PO agì da catalizzatore di una fitta trama di esperienze filosofiche, politiche, esistenziali. Nell’introdurre il testo, Bifo scriveva che questo non è un libro di storia, e auspicava che qualcuno si facesse carico di una ricerca storica. Perché nel 1998 il lettore che avesse voluto ricostruire il lungo Sessantotto italiano aveva ben poco a disposizione: L’orda d’oro di Moroni e Balestrini, e la silloge Settantasette. La rivoluzione che viene. 25 anni dopo il panorama è del tutto diverso: sono oggi a disposizione ricostruzioni storiche, saggi, biografie, raccolte di documenti non solo di/su PO, ma sull’intera area della sovversione sociale cui PO partecipava (con un deprecabile codazzo di gatekeapeer e autoproclamati custodi della memoria). Sullo sfondo di questi materiali vivi, il libro di Bifo può oggi essere considerato una ricostruzione storica che, afferrando uno dei possibili fili interpretativi, ricostruisce non la cronologia degli eventi, ma la genesi creativa di un sapere politico a partire da alcuni nodi densi di possibilità: “enzimi utili per lavorare chimicamente il corpo sociale, disgregandolo e ricomponendolo, e reinventandolo”. Abbiamo dunque una storia che si dipana a partire dal background filosofico degli anni Sessanta, attraverso le riviste, fino alla breve e intensa estate di PO come organizzazione; e poi, dopo il suo scioglimento e la sua ripartizione in rivoli differenti, la narrazione si allunga, attraverso il 77, fino alle soglie del terzo millennio. Quel che muove la scrittura di Bifo è la comprensione del processo storico come “intersecarsi, sovrapporsi, districarsi, comporsi, separarsi di flussi”, senza “soggetti centrali portatori di volontà univoche”. La storia non ha un télos, una direzione: è questo a rendere possibile la narrazione dei flussi di immaginario e depressioni dell’umore collettivo. Un metodo “composizionista” che nel 1998 funzionava, al netto della forse troppo insistita polemica contro l’opzione organizzativa “leninista” che contraddiceva le intuizioni illuminanti e l’anticipata comprensione della dottrina neoliberale come dottrina dell’impresa alla base dell’intero ciclo della produzione sociale (epperò quello dell’organizzazione è un problema di cui non s’è ancora trovata la quadra). Come cambia questo libro, 25 anni dopo? Bifo si chiedeva nel 1998, e ne faceva oggetto di una conclusione aperta, cosa di questa storia fluida potesse servire non per rifondare, ma per “comprendere il piano nuovo sul quale si muove il movimento reale, e di scoprire quali sono le possibilità di liberazione che si aprono”. Queste “Varie conclusioni”, nella riedizione del 2023, non ci sono. C’è invece una nuova introduzione, dal tono cupo e disperante, che dalla sconfitta del proletariato cognitivo globale trae la conclusione che “il moderno si è concluso senza liberare la potenza produttiva dell’intelletto generale dalla forma distruttiva dell’astrazione capitalistica”. Siamo entrati, secondo questo Bifo, nell’epoca dello schiavismo e della guerra civile globale, “senza universalismo e senza speranza”; come nel romanzo di Conrad, l’umanità entra nel cuore di tenebra della fine della storia: una notte nella quale tutte le lotte appaiono nere, dunque impercepibili. Ma in questo modo non si reintroduce quel teleologismo che operaismo, composizionismo e post-strutturalismo avevano scacciato? La storia non diventa un percorso nel quale, alla fine, si realizza un disegno conclusivo? Starà dunque al lettore militante applicare a Bifo il metodo composizionista, far proprie le intuizioni che possono illuminare le tenebre del presente, e giocare, nelle lotte, Bifo contro e oltre lo stesso Bifo.
questo testo è stato pubblicato, in versione più breve, sul manifesto del 7 aprile 2023