di GIUSEPPE ALLEGRI.
In queste brevi note si prova a interrogare l’attuale stallo dell’integrazione continentale evitando di cedere alle “retoriche”, tra l’apocalittico e lo sciovinismo, che attraversano l’opinione pubblica europea a una settimana dal referendum britannico del prossimo 23 giugno.
1. La Gran Bretagna: «qualcosa di assolutamente unico»
Nella sua enciclopedica Storia d’Europa Norman Davies ci ricorda che, in un celebre dibattito di metà anni Ottanta del Novecento intorno alla possibile definizione di una “storia europea”, «uno studioso ungherese indicò l’eccentrica abitudine britannica di distinguere la storia “europea” da quella “britannica”. Secondo questa distinzione “europeo” vuol dire “continentale”, mentre la Gran Bretagna appare come qualcosa di assolutamente unico»1
Questa, per certi versi arcinota, propensione storiografica a distinguere le sorti d’Europa dalla “eccezionalità” britannica ha a che fare con la plurisecolare vocazione imperiale, atlantica, globale, ben oltre il “proprio” Commonwealth, della Gran Bretagna. E non serve andare alla memoria corta delle diffidenze britanniche sul progetto di integrazione continentale: dalle ricambiate antipatie golliste, all’“europessimismo” di Margaret Thatcher. Né forse è troppo utile risalire alla già precedentemente ricordata memoria lunga della dottrina dell’equilibrio tra gli Stati d’Europa, «trapassata nella pubblicistica europea con Francia e Spagna “piatti” ed Inghilterra “ago della bilancia”»2
Si tratta di una tendenza che dall’isolazionismo espansionistico a vocazione marittima si spinge al protagonismo, al contempo continentale e globale, di una potenza mondiale, come a lungo è stata la Gran Bretagna, successivamente influenzata dal rapporto confidenziale con gli Stati Uniti d’America, nel corso del “lungo” Novecento. E l’Europa?
2. L’Europa “divisa e indivisa” è sempre in crisi
Già oltre sessanta anni fa il produttore e commerciante di vini e cognac Jean Monnet, “padre fondatore” del vecchio Continente attraverso le pratiche comunicative e relazionali del “dolce commercio”, sosteneva che l’Europa si sarebbe fatta come risposta alle sue crisi. E si è da sempre parlato della «fecondità delle crisi», in particolar modo proprio nella costruzione europea3 Perché “Europa” è da sempre intesa come un’idea, un progetto inconcluso, una pratica collettiva sottoposta a permanente correzione, una “unione di altri”, prodotto di crisi, anche e soprattutto oggi. Che si riparta dalla “grande Europa” dell’Unione a 28 Stati o dall’Eurozona, con la necessità di tornare a identificare le divisioni d’Europa, un’«Europa divisa e indivisa», come è stata tra il 1945 e il 1991 e come sembra essere tuttora4
Perché l’eventuale vittoria “Brexit” del prossimo 23 giugno è anche l’azzardo che l’integrazione continentale riparta da 27 Stati membri, o non riparta per nulla. E quest’ultima ipotesi sembra essere il vero incubo di classi dirigenti nazionali ed europee al momento in debito di immaginazione istituzionale per uscire dalle oramai “tradizionali” e “concentriche” «tre crisi dell’Europa»5 post-2008 – economico-finanziaria, istituzionale e demografica, sull’invecchiamento della popolazione – cui si aggiungono altre di altrettanto difficile gestione: dai conflitti ai confini meridionali ed orientali, al terrorismo fondamentalista jihadista, passando per la prolungata incapacità di gestione comune di condivise politiche di accoglienza migratoria6
3. Ancora una volta contro il “nazionalismo metodologico”
Eppure ci sentiamo di concordare con chi ha giustamente argomentato che se si procedesse con obiettività al bilancio della partecipazione britannica al progetto europeo, dal 1° gennaio 1973, «ci si renderebbe facilmente conto che il Regno Unito ha sempre impedito l’approfondimento istituzionale delle Comunità prima e dell’Unione poi»7 Allora è il caso di fare a meno dello shock da attesa per il risultato del referendum britannico, uscendo dalle strettoie mentali e istituzionali di un’Europa sospesa tra le pulsioni di discordanti nazionalismi: quello anglosassone a vocazione atlantica e quello dei partiti tradizionalisti, autoritari, xenofobi e nazionalisti che minano dall’interno gli assetti statali continentali, di un’Europa ancora pensata come Europa di nazioni e di popoli in lotta tra di loro per la propria egemonia. E provare quindi a recuperare l’eredità culturale di sinceri e radicali europeisti come il compianto Ulrich Beck, visionario europeo, rispetto al necessario superamento del “nazionalismo metodologico” e di tutte quelle connesse “categorie zombie”, per pensare le possibilità di un’Europa intesa come spazio politico globale, fuori dai fondamentalismi “sovranisti” degli Stati-nazione d’Europa, come dall’idea di un super-Stato europeo, eretto su una monolitica identità collettiva. E il paradosso potrebbe essere che per tornare a immaginare e praticare Europa come spazio di invenzione istituzionale, che tenga insieme maggiore solidarietà continentale e apertura al mondo, si debba proprio ripartire dai fondamenti, anche simbolici, di un’integrazione continentale che è da sempre attraversata da un “deficit simbolico”, ancor prima che dal tanto sbandierato “deficit democratico”.
4. Europa oltre Europa
Per questo, con la scusa di “approfittare” dell’“occasione britannica”, non basterà tornare alla pur necessaria valorizzazione della plurisecolare tradizione parlamentarista anglosassone e delle libertà e garanzie dei singoli per innervare il processo di integrazione continentale di una nuova, accogliente, visione istituzionale. Come non si potrà ancora una volta rimuovere il fatto che lo scenario millenario del “mito di Europa”, quel Mediterraneo orientale dal quale partì il leggendario viaggio di Europa, prima di essere rapita da Zeus travisato in toro, «è lungi dall’essere pacificato», ieri come oggi8 È l’Europa oltre le sue promesse istituzionali, spesso disattese, e il suo abituale spazio politico, altrettanto troppo spesso pensato esclusivamente all’interno delle burocrazie nazionali in conflitto.
Comunque andrà il referendum britannico, il passo falso dell’attuale integrazione continentale è certificato da un lato dalle ennesime concessioni riconosciute al Governo Cameron con il “compromesso di Tusk”, nel solco di privilegi che la Gran Bretagna ha sempre ottenuto nel percorso Cee e Ue, che fungeranno da ulteriore precedente per altri Paesi. Dall’altro il passo falso è evidenziato da una gestione della “crisi” economico-finanziaria che ha contribuito ad aizzare, in diversi Stati d’Europa, intolleranti nazionalismi, odiose lotte tra poveri e pericolosi sciovinismi di lotta (Francia e Gran Bretagna su tutte) e di governo (il caso ungherese e quindi quello polacco).
5. Europa molteplice
Servirà allora recuperare quelle promesse disattese di emancipazione individuale e solidarietà collettiva che hanno attraversato la storia millenaria del vecchio Continente, magari proprio a partire dalle pieghe spesso dimenticate nei pensieri e nelle pratiche anglosassoni. Dall’idea di contratto liberamente scelto e sottoscritto da liberi cittadini, nei pressi di Putney, nell’autunno del 1647 della “rivoluzione inglese” che fonda una parte della democrazia dei moderni9 All’importanza della simpatia e generosità umana nel pensiero di David Hume che immagina le istituzioni pubbliche e sociali come modello di azioni umane positive, per il soddisfacimento individuale e collettivo (Trattato sulla natura umana, 1739-40), fondandole sulla naturale socievolezza dell’essere umano. Fino al Thomas Paine protagonista attivo in ambedue le “rivoluzioni atlantiche”, instancabile sostenitore dei diritti dell’uomo e degli spazi di solidarietà sociale a partire dalla previsione di una «dotazione universale», da concedere incondizionatamente a ciascun uomo e donna che abbia raggiunto la maggiore età, per redistribuire la ricchezza della rendita agraria anche ai non-proprietari terrieri, perciò intesa come meccanismo di equità sociale e potenziamento delle persone (empowerment si direbbe oggi) e non come strumento assistenziale o caritatevole (in Agrarian Justice, 1797). E poi la Londra città accogliente di esuli “quintari”, oltre il terzo e quarto stato, in fuga dalle maledizioni dei sovrani statali, nel lungo Ottocento di sperimentazioni internazionalistiche: il repubblicano radicalmente democratico Giuseppe Mazzini, a fianco del rivoluzionario letterato e cospiratore Aleksandr Ivanovič Herzen, con il papà di tutti i libertari, Michail Bakunin, per citarne solo alcuni.
Sono i germi positivi e creativi di un’Europa politica e sociale, federata e libertaria, che investa sulla tutela delle individualità e del pluralismo come strumenti di inclusione e promozione sociale. Che tenga insieme lo ius existentiae di un reddito di base e una nuova solidarietà paneuropea. Perché l’Europa è da sempre la possibilità di accostare elementi disparati, nel solco di invenzioni collettive. Un po’ come successe con la ricostruzione di Londra dopo il terribile incendio del 1666, quando l’opera architettonica di Chistopher Wren realizzò l’impensabile: «che l’Inghilterra, tradizionalmente più portata verso il neoclassicismo, venga contaminata dalle lusinghe della varietà barocca mostra la forza della dinamica del pluralismo»10
Per far sì che il presente e il futuro delle persone che vivono e attraversano il vecchio Continente non rimangano schiacciati da pericolosi e odiosi incendi (metaforici o reali), alimentati da ottuse classi dirigenti, ma siano prodotti dall’invenzione quotidiana di quella “forza dinamica del pluralismo”, aggregante della socialità e garantista dell’individuo, in grado di formare un’idea di Europa molteplice, «una e nello stesso tempo multanime»11
* pubblicato anche su EuropaInMovimento
N. Davies, Storia d’Europa, Bruno Mondadori Editore, Milano, 2001 (1996), p. 50: lo studioso ungherese in questione è E. Haraszti coinvolto in un dibattito con altri storici su What is European History?, pubblicato in History Today, del gennaio 1986. ↩
Riprendendo ancora una volta il classico studio di F. Chabod, Storia dell’idea di Europa, a cura di E. Sestan e A. Saitta, Laterza, Roma-Bari, 1964 [1961], p. 53, da un precedente intervento cui si rinvia: G. Allegri, Brexit, questione sociale, sovranismi: ever loser Union, in Federalismi.it, 23/2015. ↩
H. Gelas, De la fécondité des crises. Le rôle des crises dans la construction européenne, in Droits. Revue française de théorie, de philosophie et de cultures juridiques, n. 45, 1/2007, pp. 35-46. ↩
Così ancora N. Davies, Storia d’Europa, cit., pp. 1189 e ss. ↩
Secondo un’analisi proposta da R. Hansen & J.C. Gordon, Deficits, Democracy, and Demographics: Europe’s Three Crises, in West European Politics, 37, 2014, pp. 1199-1222, a proposito della quale sia consentito rinviare alle prime pagine di G. Allegri, Quale democrazia europea? Alla ricerca di ipotesi, proposte e sperimentazioni, in P. Marsocci (a cura di), Partecipazione politica transnazionale, rappresentanza e sovranità nel progetto europeo. Atti degli incontri del Progetto EUPoliS, Vol. II, Napoli, Editoriale Scientifica, 2016, pp. 41 e ss. Riguardo le “crisi europee” si veda l’interessante progetto collaborativo di ricerca collettiva Europe/Crisis: New Keywords of “the Crisis” in and of “Europe”. New Keywords Collective, in http://nearfuturesonline.org, march 2016. ↩
Si rinvia a G. Allegri, Dentro l’interregno. Appunti per una Repubblica europea, in A. Guerra, A. Marchili (a cura di), Europa concentrica. Soggetti, città, istituzioni fra processi federativi e integrazione politica dal XVIII al XXI secolo, Sapienza Università Editrice, Roma, 2016 (in corso di stampa). ↩
Così C. Curti Gialdino, “To be or not to be together…”. Il compromesso di Tusk per mantenere il Regno Unito nell’UE: una prospettiva ragionevole per l’integrazione europea?, in Federalismi.it, 3/2016, spec. p. 19. ↩
Si veda questa ricostruzione nel fondamentale lavoro di L. Passerini, Il mito di Europa. Radici antiche per nuovi simboli, Giunti, Firenze, 2002, p. 27, dalla quale si è ripreso anche il riferimento a quel “deficit simbolico” di cui si parla poco sopra. ↩
M. Revelli (a cura di), Putney. Alle radici della democrazia moderna. Il dibattito tra i protagonisti della “Rivoluzione inglese”, Baldini&Castoldi, Milano, 1997. ↩
Così il classico lavoro di M. Maffesoli, Nel vuoto delle apparenze. Per un’etica dell’estetica, Garzanti, Milano, 1993 (1990), p. 197. ↩
Come ricostruì tempo addietro Walter Maturi, a partire dall’idea di Europa in Federico Chabod: W. Maturi, Chabod storico della politica estera italiana, in Rivista storica italiana, Federico Chabod nella cultura e nella vita ↩