di ALBERTO DE NICOLA.

«La verità è che non si può scegliere la forma di guerra che si vuole»: così scriveva Antonio Gramsci nei Quaderni dal carcere discutendo di strategie militari. Negli ultimi mesi, e ancora di più dopo i fatti di Macerata, mentre ci si ritrova di fronte alla stessa amara e realistica constatazione secondo la quale non possiamo sceglierci il terreno di battaglia che vogliamo, ci si chiede in quale “forma di guerra” siamo precipitati.

A pochi giorni dall’attentato fascista e dal surreale dibattito politico-mediatico che ne è scaturito, si rincorrono in rete analisi che sembrano ricondurre la situazione attuale al puro e semplice “sdoganamento” istituzionale e mediatico dei gruppi neofascisti. In altri casi, il consenso riscosso dall’ordine del discorso razzista viene trattato come il disvelamento di una qualche natura inconfessabile degli italiani (e dei poveri) rimasta latente e riemersa ora come conseguenza estrema dell’impoverimento economico prodotto dalla crisi.
Di fronte a queste interpretazioni più o meno implicite, lo spazio disponibile per l’azione politica rimane confinato dentro perimetri stretti: al pur necessario antifascismo militante si finisce per attribuire una valenza “eroica“ nella stessa misura in cui cresce il senso di isolamento e accerchiamento nei confronti della società; a medio termine a sinistra si confida nella formazione di governi di larghe intese in grado di frenare l’avanzata della destra più estrema; sul lungo periodo, si invita alla virtù della pazienza, consapevoli che il peggio deve ancora venire e che solo dopo che sarà arrivato, potremo sperare di rialzarci.

Da cosa si riconosce un ciclo politico reazionario

L’ipotesi preliminare è che quel fenomeno variamente denominato “ritorno del fascismo” o “fascistizzazione della società italiana”, debba essere collocato all’interno di uno spazio più ampio e di un tempo più lungo. Che la vicenda italiana possa quindi essere meglio compresa solo se confrontata con quel ciclo politico reazionario che recentemente ha assunto dimensioni globali.
La Brexit e l’elezione di Trump sono stati solo i due eventi che hanno gettato la luce su una tendenza più articolata che tiene insieme, tra i casi più rilevanti, la crescita delle forze neofasciste in tutta Europa, il riassetto conservatore di molti paesi sudamericani, dell’India e dei paesi dell’Europa dell’est.
Questo ciclo politico è al contempo l’effetto della “crisi di egemonia” delle élite e dell’ordine del discorso neoliberale, e la reazione organizzata all’ondata dei movimenti anti-austerità e democratici degli anni centrali della crisi economica. Il ciclo consiste in una serie di mutamenti che convergono nel riallineamento autoritario delle istituzioni statali, in un rafforzamento della balcanizzazione della società e del mercato del lavoro sulle linee della razza e del genere, e nella “rifeudalizzazione” dei rapporti sociali ed economici, anche quelli più minuti e molecolari. Per l’essenziale, questa tendenza si presenta come “non-inclusione” di una parte crescente dei subalterni.
L’espressione è provvisoria e probabilmente troppo generica: “ciclo” qui è inteso nel suo senso strettamente politico, come parte di un “gioco” fatto di tendenze e contro-tendenze, movimenti e contro-movimenti, azioni e reazioni. Nonostante questa torsione riguardi in modo estremamente differenziato e disomogeneo i differenti paesi, questa si presenta in ogni caso come una tendenza convergente che origina da una matrice comune. La difficoltà che abbiamo nel parlarne non deriva tanto dall’individuazione del fenomeno in sé (già ampiamente segnalata da altri negli ultimi anni) quanto dal fatto che, come ha affermato lo storico Enzo Traverso, questo va inteso piuttosto come un “regime di storicità” transitorio, che non ha ancora assunto una forma definita e stabilizzata. Il cosiddetto «blocco di Visegrad» nella parte orientale del continente europeo si presenta da questo punto di vista come una polarità attrattiva: nonostante siamo stati abituati a pensare, dopo l’89, che l’ovest era l’inevitabile destino dell’est, dovremmo cominciare a prendere in considerazione la possibilità che la tendenza si stia invertendo.
Sempre in Europa, il ciclo trae origine dal fallimento dei movimenti moltitudinari e democratici che raggiunsero la loro massima intensità nel 2011 ma non riuscirono a far corrispondere alla loro espansione una differente configurazione politica europea; in Italia, dalla sconfitta delle mobilitazioni studentesche del 2008-2010 e del movimento dei “beni comuni” che aveva segnato un punto di svolta con la vittoria del referendum per l’“acqua pubblica” nel 2011. Ma se proprio si dovesse individuare lo spartiacque che segna il passaggio, questo bisognerebbe cercarlo in due eventi accorsi nell’anno 2015. Il primo è la débâcle greca, quando l’Unione Europea, con una specie di atto di guerra in tempi di pace, costrinse alla disonorevole capitolazione il tentativo di rinegoziazione del debito della Grecia sostenuto dalla maggioranza della popolazione. Il secondo è quella che viene impropriamente denominata “crisi dei rifugiati”: nonostante la moltiplicazione di esperienze di solidarietà attiva della popolazione, a quella crisi seguirono un insieme di misure dell’UE volte al rafforzamento dei confini e all’esternalizzazione delle frontiere. Questi due fatti hanno aperto la strada alla ri-nazionalizzazione aggressiva delle politiche comunitarie: da quel momento in poi, il “nazionalismo” si è presentato come un’opzione profittevole per le classi dirigenti e l’unico lemma disponibile nel vocabolario dei subalterni.

Lo stato in miniatura

In un saggio del 1993 intitolato “Tesi sul nuovo fascismo europeo”, il Collettivo Luogo Comune con straordinario anticipo sui tempi aveva posto l’attenzione sulle caratteristiche specificamente post-fordiste del nuovo fascismo. Differentemente da quello degli anni Venti e Trenta, nel quale militarizzazione del lavoro salariato, corporativismo e iperstatalismo avevano anticipato, nel contesto europeo e in forma autoritaria, la diffusione del modello fordista-keynesiano, quello attuale sembra invece registrare il disallineamento crescente tra stato, mercato e società. Questa nuova natura la si potrebbe vedere nel trattamento ambiguo che la torsione autoritaria intrattiene con tutto ciò che è “informale”, sub-legale e sommerso. Le nostre città sono divenute il teatro di un doppio processo, solo apparentemente contraddittorio: mentre da una parte imperversa una guerra senza quartiere contro le forme di vita e le economie informali dei poveri (quando queste esprimono forme di sopravvivenza e socialità alternative a quelle del mercato e dello stato); dall’altra parte assistiamo alla legittimazione crescente di quelle forme di mobilitazione della “società civile” che puntano alla moralizzazione e securitizzazione della vita e dello spazio pubblico. Assieme a questo, assistiamo sotto i nostri occhi alla creazione e alla tolleranza di zone di abbandono controllate, caratterizzate da una raffinata gestione degli illegalismi criminali. Bisognerebbe vedere nell’insieme di questi processi per nulla incompatibili una dialettica programmata che fa sorgere l’ordine dal disordine; nella diffusione della criminalità più o meno organizzata, l’embrione di una nuova polizia; negli eserciti civili del decoro, la riproduzione di uno stato in miniatura. Invece di limitarsi ad un confronto tra partiti e gruppi dell’estrema destra, il ciclo reazionario si sostiene e si rafforza nella dimensione societaria, quella stessa dimensione dove i movimenti sociali collocano gli esperimenti dell’isituzionalità autonoma e comune: differentemente da questi ultimi però, in questo caso il conflitto di competenze tra stato, società e mercato si risolve temporaneamente in una militarizzazione delle leggi della domanda e dell’offerta e in una socializzazione e diffusione informale delle funzioni dello stato.

Lumpen-borghesia e delirio proprietario

Secondo un’idea particolarmente diffusa, la cosiddetta fascistizzazione del corpo sociale sarebbe da interpretare come l’estrema conseguenza dell’impoverimento economico innescato dalla crisi. La logica è tanto ferrea quanto lineare: questo spingerebbe i poveri a un’inevitabile “guerra” con i propri simili, laddove la povertà porterebbe a galla una specie di loro “stato di natura”. Nonostante le concezioni “naturalistiche” e “antropologiche” della povertà contenute in questa logica appartengano al più tradizionale repertorio delle scienze sociali reazionarie, questa teoria implicita è straordinariamente diventata senso comune anche presso gli ambienti di sinistra. Sempre più spesso si va a cercare nella “lotta per la sopravvivenza” degli ultimi – o, con maggiore raffinatezza, dei penultimi contro gli ultimi – la “questione sociale” che si nasconde dietro l’adesione di parti crescenti della popolazione ai valori microfascisti: il fascismo sembra essere divenuto il destino dei poveri tanto quanto la deprivazione materiale ne sarebbe la misura.
Eppure, l’impoverimento in quanto tale produce risposte variegate per nulla riducibili a quelle indicate. Bisognerebbe invece cercare altrove: il microfascismo non è l’effetto lineare della crisi della riproduzione sociale, ma il contraccolpo di un altro processo, la “democratizzazione” della proprietà privata. Spesso il neoliberalismo viene strettamente identificato con la figura dell’”imprenditore di sé”, ci si dimentica invece l’altro immancabile polo, l’affermazione dell’”uomo proprietario”. Dalla Thatcher in poi, in Europa, la diffusione del neoliberalismo si è associata al grande progetto di estendere a tutte le classi sociali l’accesso alla proprietà privata e a tutti gli ambiti della vita la logica patrimoniale: la “popolarizzazione” della proprietà è stata al tempo stesso il potente mezzo per de-proletarizzare il corpo sociale e la contromossa attraverso la quale i neoliberisti hanno accompagnato la progressiva distruzione di un’altra forma di proprietà incarnata dai sistemi di Welfare moderni (quella che Robert Castel chiamava “proprietà sociale”).
Finanziarizzazione, autonomizzazione del lavoro e indebitamento, sono indissociabili dalla demoltiplicazione del paradigma proprietario.
Ora, con la recessione economica questo modello entra in crisi per una parte significativa di popolazione: il capitale accumulato perde di valore e gli investimenti falliscono. Più che una “perversa” lotta per la sopravvivenza, gli enunciati microfascisti sono l’espressione di un delirio proprietario che trasforma relazioni sociali e i beni in “oggetti” privati da preservare e difendere (le “nostre donne”, i “nostri figli”, il “nostro territorio”…). Le moltiplicazione delle ”identità” non è altro che l’espressione culturale di un regime di proprietà.
Questa particolare angolazione, permette di dire qualcosa di diverso sulla composizione sociale del post-fascismo: nonostante questo interessi molti gruppi sociali, il suo protagonista – quello che ne forgia gli enunciati – non è affatto l’”escluso” o il “penultimo”, ma quella che Alberto Prunetti ha efficacemente chiamato Lumpen-borghesia, ovvero quel ceto arricchitosi a partire dagli anni Ottanta e Novanta nel capitalismo “molecolare” e rimasto escluso dalla nuova accumulazione di ricchezza seguita alla crisi del 2007. In Italia, il ruolo della Lega, con le trasformazioni interne al suo discorso politico e sociale, è da questo punto di vista esemplificativo. Sempre da questa angolazione, si dovrebbe quindi vedere il crescente consenso che l’ordine del discorso reazionario riscontra sui gruppi sociali più poveri ed esclusi dalla politica di diffusione della proprietà, come l’effetto di un assemblaggio sociale, o se si preferisce dirla in termini gramsciani, come la formazione di un “blocco storico” specifico. Presto o tardi, vedremo tutta l’instabilità di questo consenso, laddove i discorsi che vengono ora testati sulla popolazione migrante, saranno estesi anche alla plebe autoctona.

Guerra civile simulata

Pensare che il ciclo politico reazionario possa essere arginato, frenato o contenuto da una qualche soluzione di governo moderato di centro, rischia di sottostimare il carattere sistemico della tendenza in atto. Sistemico qui però non vuol dire “storicamente necessario”, quanto piuttosto “politicamente adeguato alla situazione presente”. In altre parole, si tende a sottovalutare l’intensità raggiunta dalla crisi di egemonia delle élite neoliberali, e la radicalità delle contromosse che queste stesse élite sono disposte ad adottare per tentare di porvi un qualche argine.
In Italia l’evento che ha mostrato l’esistenza di una convergenza reazionaria tra l’”alto” e il “basso” è stato soprattutto il caso delle Ong inaugurato dalle dichiarazioni dell’onorevole Luigi Di Maio e rimbalzato nei commenti della rete. Con il dibattito sulle Ong è emersa, per la prima volta in tutta la sua evidenza, una sorta di ragionevole e socialmente diffusa disponibilità ad accettare la morte e la negazione del diritto di esistenza per migliaia di persone che lottavano per la sopravvivenza. Questo “salto”, non sarebbe stato possibile senza la trasformazione istituzionale di questi enunciati micro-fascisti in un ordine del discorso “ufficiale” e fatto proprio dagli apparati dello stato. L’impegno del ministro degli Interni Marco Minniti si è del resto appoggiato ad una trasformazione delle politiche dei confini già ampiamente testata a livello europeo. Quello delle Ong è però solo il primo capitolo di un mutamento che con Macerata, e soprattutto con il dibattito assolutorio che ne è seguito, ha mostrato tutta la sua evidenza.
La questione riguarda solo lateralmente un fenomeno politico come Salvini. Il problema primario riguarda il posizionamento dei soggetti di tradizione liberale e socialdemocratica. Bisogna poter dire che una parte significativa dell’élite dirigente e dei maggiori gruppi editoriali del nostro paese è disposta ad accettare dosi misurate e controllate di “guerra civile” pur di recuperare la “crisi di legittimità” a cui è esposta. Questa disponibilità è molto più di una affannosa rincorsa verso un presunto “senso comune popolare”, né un mero calcolo di natura elettoralistica: è la possibilità di riordinare i rapporti sociali attraverso una linea di forza generale.

Contro-movimento

Pensare in termini di ciclo comporta evidentemente dei rischi: tra tutti, quello di credere che non avendo ancora esaurito il suo carico di negatività, il ciclo debba essere portato alle sue estreme conseguenze in attesa dell’arrivo di un qualche punto di rottura. Questa posizione di attesa, mentre ci dispone all’immobilità, nasconde in realtà l’idea che quella che stiamo attraversando sia una tendenza lineare e ineluttabile: come se la completa colonizzazione del corpo sociale fosse l’unica premessa al sorgere del proprio contravveleno.
In realtà, queste tendenze, oltre ad essere contingenti e provvisorie, oltre a non aver trovato alcuna “forma” compiuta e stabilizzata, agiscono sul corpo della società per fratture e polarizzazioni. Sarà bene prendere atto che non c’è più alcun popolo né alcuna tensione unitaria da invocare: “99 contro 1%” è la formula efficace di un’epoca passata. Una politica trasformativa dovrebbe invece prendere atto dell’esistenza di questa divisione rendendola massimamente visibile e lavorando ad assemblaggi sociali alternativi.
La percezione diffusa di accerchiamento che ci si ritrova a vivere in questi ultimi mesi non deriva affatto dalla pervasività di questa tendenza, ma dalla mancanza di forme discorsive e modelli antropologici adeguati a quella parte della società che resiste alla torsione reazionaria. L’immaginazione politica dovrebbe ripartire da qui, da nuove forme di appropriazione comune capaci di rompere la paranoia proprietaria.
Se il fascismo è il rovescio della soppressione sistematica delle alternative di vita, non ci sono “fronti” popolari, democratici o costituzionali che reggano, né l’antifascismo militante potrà da solo invertire la rotta: c’è il bisogno di reinventare dei movimenti di massa in grado di politicizzare la vita.
Le attuali ondate del movimento femminista e dei movimenti dei migranti ci dicono che sono già in corso lotte a livello globale contro questa santa alleanza tra neoliberalismo, nazionalismo e autoritarismo. Nella stessa misura con cui il ciclo politico reazionario tenderà a radicalizzarsi, le linee di frattura si approfondiranno. Siamo ora spinti a pensare che questi siano gli unici movimenti sulla scena, dobbiamo invece pensare che sono solo i primi: altri ne verranno. Prepariamoci. Prepariamoli.

questo testo è stato pubblicato anche su Dinamo Press

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