di FANT BANCARIO PRECARIO.
Ma una testa oggi che cos’è?
E che cos’è un nemico?
E una marcia oggi che cos’è?
E che cos’è una guerra?
Si marcia già in questa santa pace
con la divisa della festa.
Senza nemici né scarponi e
soprattutto senza testa!
Per l’Italia, il cambio di paradigma produttivo (l’entrata nel postfordismo) può essere fatto risalire al 1979 [meglio: alla c.d. legge Prodi n. 95 del 3 aprile 1979 (quante coincidenze)]. Da quel momento finanziarizzazione, derelizione del welfare, privatizzazione e mutazione del proletario in consumatore e produttore di se stesso, procedettero a tappe forzate.
In questo periodo (per quanto a mia conoscenza, e senza pretesa di esaustività) si sono susseguiti numerosi provvedimenti che – nella vulgata di consumatori-imprenditori-politicanti (tutti immancabilmente e falsamente) traditi – sono entrati nella (cattiva) coscienza comune come salva banche:
- la disciplina della fideiussione omnibus limitata nell’importo risale al 1992, che “salvò” dalla nullità le fideiussioni di tale tipologia che non recavano indicazione del limite massimo garantito (indicazione oltre un decennio dopo, estesa dalla Cassazione alle lettere di patronage)
- il decreto legislativo 342/1999, che reintroduceva la capitalizzazione trimestrale (pur a condizione di reciprocità), tentando anche di sanare i pregressi rapporti dichiarati nulli da Cass. 2374/1998 (ma a Savona, la nullità era ritenuta da un decennio)
- la legge 24/2001, tendente a scongiurare le ipotesi di usurarietà cd sopravvenuta (e quindi “salvare” le operazioni di cartolarizzazione, allora, assai diffuse)
- l’art. 2 comma 61 della legge 10/2011 (secondo il quale, in ordine alle operazioni bancarie regolate in conto corrente, l’art. 2935 del codice civile si interpreta nel senso che la prescrizione relativa ai diritti nascenti dall’annotazione in conto inizia a decorrere dal giorno dell’annotazione stessa), che tentava di pervenire per altra via al risultato cercato con il citato D.Lgs. 342/99 poi fulminato dalla Corte Costituzione (per la cronaca anche il ridetto art. 2 c. 61 non si sottrarrà a identica sorte).
Ora è il turno del provvedimento che dovrebbe “salvare” specificamente alcune banche in stato di pressoché conclamata insolvenza: a spese (i) delle altre banche per taluni, (ii) degli azionisti e degli obbligazionisti per altri, (iii) del popolo (il connotato lepenscista del popolo che si fa comunità appare preponderante nelle sguaiate lamentele) quanto ai più (la vecchia maggioranza silenziosa, ora urlante).
Analizzando lo svolgersi dell’attività legislativa (sempre più tormentata, dispersa in mille rivoli, figlia – più che dell’attività di lobbisti in gessato – del vorticoso affannarsi di assessori e portaborse) e dell’opera della magistratura, non si può che rilevarne l’aspetto ambiguo e contraddittorio: il progressivo finanziarizzarsi dell’impresa (ma anche il progressivo distacco dell’azienda della produzione, ormai produttiva solo di se stessa) ha visto accrescere l’importanza delle banche, e al contempo l’accanimento, in odio alle stesse, di un corpo giudiziario che ha tentato di impedire in ogni modo il dispiegarsi di ogni attività recuperatoria, attraverso l’individuazione di nullità (più o meno di rilievo officioso), vizi e decadenze. Il tentativo era quello di impedire che l’attività creditizia, tanto agevolata dal punto di vista fiscale e sviluppata attraverso il consumo coattivo di massa, giungesse alle estreme conclusioni – a porre il diritto a sanzionare definitivamente l’impresa.L’impresa è cullata, difesa, adorata come feticcio, quale creatrice di ricchezza fittizia.
In realtà l’attività dell’imprenditore, dipendendo la sopravvivenza del capitale dalla costituzionalizzazione dello statuto d’impresa (una vera istituzione del comune in negativo), è assunta nell’immortalità. Il capitale generale è individuato nella pluralità dei piccoli fantasisti dell’affermarsi imprenditori a debito. Continue riforme stravolgono mensilmente la legge fallimentare: dal 2006 non si contano tagli, ceselli, impunture, emendamenti, tutti volti ad istituzionalizzare una sorta di bancarotta legalizzata.
Insomma, si dà alla banca il mitra ma non la licenza di uccidere, perché il feticcio deve restare. Peraltro la banca, come la serva, serve al perpetuare di un sistema di produzione insensato e insensatamente non produttivo, quindi singolare tubolarità nella disciplina a favore e contro l’erogazione del credito.
Se vorrete fare un piccolo sforzo di fantasia, vedrete accomunati in questa ricostruzione i magistrati convinti che la banca sia il Palazzo d’Inverno e l’imprenditore tarocco, il generale Ciukov, il sindacalista che freme per la salvezza di posti di lavoro a servizio di aziende decotte e dispensatrici di morte, l’assessore gaudente perché sono stati rifatti a credito (meglio: a debito) i marciapiedi del paesello che ebbe ad eleggerlo. Tutti questi strani figuri (né di destra, né di sinistra) sono i colpevoli di 282 miliardi di crediti in sofferenza: tutti, anche quelli che ora inveiscono contro la ministra spumeggiante.
Tutto questo flusso di denaro, però, non esiste. La banca, in sé, non esiste: esistono promesse (in fondo il “credito” trova fonte nella capacità restitutoria che il richiedente denaro promette, un’economia della promessa fondata sulla negazione della stessa) non rispettate – da qui la truffa unica e assorbente, essendo l’inadempimento genetico, dato sin dal momento dell’assunzione dell’obbligo.
È palese che, quando qualcuno – la Germania, la Consob, il Fondo Monetario, Basilea, il destino cinico e baro – pone una richiesta semplice (mi ridai quello che ti ho prestato?) salta il banco.
È qui che arriva il governo, che fa quello che può. Oppure arriva chi ha il cash e compra.
Mi si dirà: è sempre stato così. Vero – ma l’acquisizione è ora direttamente di vita, non più pignoramenti di sedie e televisori, espropriazione di immobili, lavoro coatto al tornio: il capitale 3.0 punta direttamente all’acquisto della vita. Ecco perché si “salvano” le banche. Ben si potrebbe lasciarle al loro destino: in fondo abbiamo visti derelitti interi comparti industriali, città, nazioni. Le banche no: le banche si salvano.
Pensare che tutto questo sia fatto per favorire il papà del ministro è come credere che Mussolini abbia invaso l’Albania per andare a fare enduro a Valona (e non è poi difficile sbarazzarsi di banchieri divenuti “scomodi” – la storia, anche recentissima, ce lo insegna).
Dicevo del rampante finanziarizzarsi da una certa data in poi: ma il post fordismo è stato anzitutto stravolgimento di sensi e concetti riconducibili a termini, un tempo chiari e individuati in una realtà accertabile, incontestati.
Si prenda ad esempio il concetto di libertà dal lavoro salariato, sogno confessato (e successivamente s-confessato) di tanti di noi, giovani sottoproletari giovanili, e l’uso che il saggio capitale ne seppe fare a partire dalla creazione della figura dell’imprenditore di se stesso (libero da vincoli di orario e subordinazione), oggetto di una lunga marcia che avrebbe condotto al lavoro gratuito di chiara matura dEXPOtica. Più in generale: si è cercato e ottenuto di connotare da destra la libertà (di fare quello che si vuole e come si vuole, senza lacci e lacciuoli), e di orientare la sinistra in chiave esclusivamente legalitaria, così finendo per relegare quello che fu il più grande partito comunista dell’occidente a cane da guardia delle moltitudini proprio per consentire al capitale di fare quello che vuole (come del resto fa), senza che qualcuno lo disturbi con graffiti e occupazione di immobili abbandonati.
Mi direte: ma questo cosa rileva nella disamina della legge che dovrebbe salvare le banche?
Si, rileva – e molto, perché la comprensione di un provvedimento legislativo presuppone l’individuazione dei soggetti interessati (sia emananti o ispiratori, sia destinatari).
Nel caso che ci occupa, ogni individuazione è divenuta impossibile – meglio: è resa parziale, distorta e talmente contaminata da impedire l’assunzione di responsabilità di alcuno nei confronti di chicchessia. E forse è proprio questo il senso della legge e il nuovo, ennesimo, trionfo del capitale.
Senza alcuna pretesa di esaustività, quale senso rivelano termini quali:
(i) investitore – e chi è? Il neo pensionato che depone la scadente liquidazione? Il fondo avvoltoio? L’ente pubblico che si dà alle speculazioni, salvo poi pietire il riconoscimento della propria inconsapevolezza davanti al Tribunale di Padova?
(ii) capitale di rischio – affermare questo concetto era come dire: l’hai voluta la bicicletta? Non credo però possa il detto dirsi valido e corretto (soprattutto) per il piccolo azionista (inconsapevole?) convinto dall’amico a così investire sulla scorta di una inveritiera natura “popolare” di alcune banche, della territorialità (o del’italianità) delle stesse, del fatto che la coop sei tu (e l’enorme crisi del settore cooperativo con fallimenti a catena rivela effettivamente questa comunione tra la cooperativa edilizia e il socio della stessa, uniti nella buona e nella cattiva sorte);
(iii) rischio d’impresa – e chi rischia più? Forse l’imprenditore (inconsapevole forse del danno che arreca, tronfio della partecipazione attiva all’espropriazione di vita che ogni giorno il capitale attua) che apre srl “a nastro” lasciandosi dietro una scia di debiti fra INAIL, INPS, banche e fornitori?
(iv) e, attenzione che siamo al punto, banca – ma cos’è una banca? È l’istituto di credito di beneduciana memoria, il saldo appoggio a imprenditori saggi, famiglie vogliose di immobili in proprietà? Oppure la banca aggressiva moltiplicatrice, attraverso il debito, di denaro fittizio? O ancora il comodo rifugio di assessori, sindacalisti cui la privatizzazione aprì le porte dei consigli d’amministrazione? La banca è inconsapevole strumento di welfare sostitutivo, sempre attraverso il debito, dello stato sociale abortito.
Fermo restando che tutti i dati sopra forniti fanno riferimento all’inconsapevolezza dell’operato di ciascuno, quasi inebriati nell’insensatezza dal capitalista collettivo, come si può dare un giudizio su un provvedimento reso necessario da responsabilità che appartengono a tutti, tutti non punibili per avere agito in manifesto stato di necessità?
E ancora: riprendendo i termini di cui sopra, l’inconsapevole piccolo azionista era poi tale quando investendo in tal modo sperava di ottenere “qualcosa di più” (un posto per il figlio magari come fattorino della banca o la figlia già sognata quale segretaria)? dell’assessore/amministratore, ovvero adagiata nella comoda sedia di un CAF? quanto di suo ha impiegato per stringersi il cappio intorno al collo, gongolante per la partecipazione al rito del risparmio (fintamente) garantito?
E i vari assessori/amministratori/sindacalisti avrebbero potuto rivelare tanta generosità verso imprenditori amici, in difetto di una stratificazione tanto densa dei concetti?
È significativa la perdita di riferimento al concreto anche nel concetto di mercato: mercato era dove si esponeva la merce, ma anche dove le mamme chiacchieravano dei figli e dei mariti toccando e annusando. Mercato era un concetto “attivo” che trovava soggettivazione nella vita dei frequentatori che erano oggetto delle attenzione dei venditori (dal pizzicagnolo a Henry Ford, senza dimenticare Valletta) ma anche potenza che attraverso la merce conquistava un benessere in precedenza inesistente.
E anche dopo, mercato era l’insieme della comunità di consumatori, comunque qualcosa di vivo, lato passivo di una crescita effettiva e di un miglioramento delle condizioni di vita, cessione di rivolta verso riconoscimento della qualità di possessore di merce e quindi di titolare di diritti.
L’emissione sul mercato dei prodotti finanziari è finalizzata alla regolazione del mercato, non certo alla tutela dei consumatori: se si cerca di evitare il bidone è per non scoraggiare quanto al futuro, non certo per spirito di giustizia calata nell’attualità. Allora il mercato non è più il consumatore, l’investitore, l’azionista, il trader: mercato è il capitale complessivo che si pone in autotutela, regolandosi come meglio può.
L’identità fra soggetto potenzialmente dannoso e soggetto tutelato è singolare, ma non troppo – come già evidenziato dalla disamina del conflitto banca/impresa. Tutto procede dal venire meno di ogni capacità capitalistica di creare ricchezza, attraverso la produzione. In un primo momento, la finanziarizzazione attivò la proprietà immobiliare, la distruzione di quanto prodotto in precedenza (oggetto delle prime attenzioni del capitale finanziario furono le aree industriali dismesse), poi anche questo escamotage (perché di espediente si tratta) risultò insufficiente, occorreva superare il pur flebile collegamento con la merce che comunque rendeva responsabili e riduceva la possibilità di rendita in quanto l’accumulazione continuava a restare vincolata a processi che interessavano altri (e altro) rispetto al capitale.
Le case si possono occupare, il consumatore può indebitarsi e “scoppiare”, gli sfratti li puoi bloccare. Mentre il capitale si inceppava, la “naturale” produttività delle singolarità connesse in reti comunicative e di vita perpetuava. Di qui lotte, magari spurie, scomposte, invisibili, ma che portarono il capitale a ricercare l’autonomia assoluta, e quindi la possibilità per sé di estrarre vita e ricchezza indipendentemente dalle condizioni (come si sarebbe detto una volta) “oggettive”. Anche questo processo, successivo all’insorgere della crisi del 2008, si è rivelato infruttuoso e comunque limitativo della possibilità di crescita: è vero, le borse macinavano, i titoli, ancorché spazzatura erano oggetto di valorizzazione, e poi c’era da opporre alle moltitudini il debito (la colpa, comunque la vergogna del non avere più credito) privato e pubblico.
La scusa del aver troppo goduto in passato ha, invero, trovato ampi consensi e miserabili plaudenti – ma, come dicevano a 90° minuto a proposito della Samp di Heriberto: vince ma non convince.
Arriviamo alla crisi attuale delle banche nostrane – ben più di quattro – che disvela un capitale finanziario 3.0 molto più composto (nel senso di compostezza mortifera, tipo Scelba a un rave party), che ha compreso come non sia sufficiente palesare un simulacro di “imprenditore in sé” per affermare l’esistenza dell’impresa produttiva (nei suoi modi e termini, ovvio, non in quelli ben differenti di istituzione continua del comune che la vita si dà) e soprattutto procedere nel comando che deve essere correttamente e non casualmente affermato nei confronti delle popolazioni.
La crisi delle banche è crisi di liquidità. La raccolta del denaro è sempre più complicata (anche perché il denaro dov’è?). Diceva un amico bancario: vendo ancora due telefonini è ho raggiunto il budget, ma Di Caprio dov’è finito? E la spregiudicata gagliarda goliardia del CEO di Goldman Sachs che si definiva banchiere di Dio (non era il primo, ma qui il contatto era diretto con il Supremo, non con il Vaticano)? Le sofferenze, in Italia, superano i 200 miliardi, quasi 10 finanziarie. E, fidatevi, non sono sofferenze, sono insolvenze belle e buone, con impossibilità di recupero certa, senza considerare che gran parte delle posizioni problematiche sono tenute per anni a frollare per non minare i bilanci, per evitare fallimenti, per scongiurare l’arrivo di quei signori con le mostrine gialle.
Quindi la crisi italiana è crisi vera, crisi di banca, bancaria nel senso old school del termine, non indotta da prodotti inadeguati, sintetici, frutto dell’invenzione di qualche maligno d’oltremanica (evocare la perfida Albione funziona sempre) o peggio a stelle e strisce.
Ma da dove rinviene questa crisi? L’inizio e la fine della banca tradizionale sono nell’impresa al cui servizio dovrebbero operare. La nascita e la morte della banca coincidono nel fare credito, pervertito da funzionale alla crescita a strumentale alla giustificazione dello sfruttamento.
Se si fa credito a un soggetto (sia persona fisica, sia giuridica) che produce (armi o panettoni, non importa cosa) il credito può essere rimborsato. Se si fa credito al nulla, l’insolvenza è data per scontata. Ma se il nulla è l’attuale sistema di produzione? L’attuale crisi bancaria rinviene dalla consapevole e inevitabile gestione a babbo del credito.
Così si è andati avanti per trent’anni:
- non è colpa del bancario che vendeva titoli di cui forse comprendeva la debolezza: il più delle volte i venditori erano ex dipendenti a tempo determinato cui si affidava il compito dell’allocazione, ma – non dimentichiamolo mai – in regime di autonomia, indipendenza, costi a carico del tapinello, riorganizzazione degli organici, sfoltimento degli esuberi (e i sindacati a festeggiare che nessuno è stato licenziato)
- non è colpa dell’imprenditore di se stesso, che forse avrà guadagnato qualche giorno da leone a Montecarlo, ma ha vissuto indebitato e aggredito, costretto a recitare la parte che il capitale gli assegnava: il problema è che non creava ricchezza, la distruggeva;
- non è colpa di chi ha fatto debiti per pagare assicurazioni sanitarie o tasse scolastiche;
- non è colpa degli amministratori pubblici che hanno stipulato mutui per mandare avanti città e campagne, magari garantendosi dalla variazione dei tassi con swap falsi come la faccia dei leopoldi;
- non è colpa degli amministratori delle stesse banche che hanno consentito vita agiata ad amici e parenti, realizzando uno stato sociale “privato” (e Siena o l’Emilia ne sono ottimo esempio, ma il pensiero a Tanzi e al modello Parmalat, pre-crisi è indiscutibilmente calzante), che dispensava dalle squadre di pallacanestro alle erogazioni alle scuole bisognose a seguito dei tagli operati da governi di ogni colore;
- non è colpa degli organi di vigilanza, perché il loro compito è vigilare sul mercato (come sopra inteso) e il mercato è in ottima salute, come si vedrà di seguito.
Si poteva fare di meglio?
(i) il denaro è finito;
(ii) le famiglie mostrano un impoverimento ogni giorno più evidente;
(iii) lo Stato non poteva fare fronte all’insolvenza di quattro banche, si pensi se a queste aggiungiamo quelle altre (almeno altre quattro note e di ben più rilevanti dimensioni);
(iv) attendere il regime UE avrebbe comportato il tracollo dell’intera economia nazionale.
Lo Stato non poteva reggere il modello Banco Ambrosiano: una Bad Bank garantita dallo Stato comporterebbe la perdita di ogni possibilità di recupero dei crediti, laddove possibile. E poi chi garantirebbe? Lo Stato del ponte sullo stretto, della TAV? Allora, accontentiamoci di salvare il denaro depositato sui conti correnti e guardiamo lieti al futuro. Nel frattempo, come già per l’industria derelitta, cerchiamo di sciacallare la morte della banca tradizionale.
Uno squarcio di futuro: c’è voglia di cartolarizzazione:
«secondo Jupiter-Cerved gli sconti sono sempre più importanti: il ribasso medio per aggiudicazione è del 39%, in crescita del 1.11% rispetto al 2007 (il Sole 24 Ore – Casa Plus, 1 marzo 2012, parlando di vendite all’asta di immobili pignorati).
«Opicons rileva che, dal 2011 al 2014, le aste di immobili, sono aumentate del 57.94 per cento: è molto difficile che l’aggiudicazione arrivi al primo colpo – dice Gerardo Paterna, consulente immobiliare e autore dell’indagine insieme a Cristian Pastorino – anche perché spesso le perizie che stabiliscono i valori sono vecchie e l’utente aspetta il ribasso che, di asta in asta, può arrivare al 50-60 per cento» (il Sole 24 Ore, 13 luglio 2015).
«Mutuo in Asta nasce per dare risposte concrete sia al trend crescente di aste deserte (30% sul totale 2013) che al conseguente abbattimento del valore dell’immobile (il ribasso medio rispetto al prezzo di bando si aggira intorno al 40%» (nota agosto 2014 di UniCredit Credit Management Bank citata in Il Fatto Quotidiano, “Aste immobiliari, dalle banche mutui ad hoc per liberarsi del “mattone” pignorato”, 6 agosto 2014).
«Da un’analisi condotta da CRIF su un portafoglio di posizioni in default nel Nord Italia, emerge che il 95% dei casi di credito in sofferenza è soggetto a pignoramento, con successiva vendita dell’immobile dato a garanzia. Nel 97% dei casi si procede con la vendita all’asta, con conseguente svalutazione del valore del bene in garanzia che può arrivare a un deprezzamento del 50%» (tratto da “Aste addio? Un nuovo approccio per la gestione dei mutui non performing”, Flavio Padoan, consultabile in www.bancaforte.it).
«Un segnale drammatico della crisi del settore edilizio lo si può avere andando a consultare uno dei tanti siti di aste immobiliari. In alcuni casi si riescono a trovare immobili a un terzo del costo di costruzione. Ovviamente si tratta di case o capannoni che sono già stati messi all’asta più di una volta e quindi hanno visto successivi ribassi, che possono arrivare anche al 40%» (Milano Finanza, 23 agosto 2013).
«Prezzi inferiori anche del 50% rispetto ai valori dell’Orni, l’Osservatorio del mercato immobiliare che fa capo all’Agenzia delle entrate. A tanto ammontano, secondo uno studio di Confedilizia, gli sconti con i quali ci si può aggiudicare all’asta una casa, un box, un terreno, o un ufficio» (Simonetta Scarane, 17/02/2014, consultabile su www.italiaoggi.it).
C’è quindi un eccesso di merce, un enorme quantitativo di mattoni tirati su senza costrutto solo per occultarne l’inutilità. C’è eccesso di debitori, certi, chiari, conclamati, cinguettanti. Ma c’è anche un eccesso di denaro; fuffa, direte, bolle. Certo – ma occorre pur sempre impegnarlo per vivificarlo, renderlo idoneo alla valorizzazione del comando capitalistico.
Nel novembre 2015 Cassa Depositi e Prestiti ha concluso un investimento di cartolarizzazione di crediti alle PMI italiane: un cambio di passo che discende dalle politiche europee e apre nuovi scenari sulle politiche d’investimento. Si tratta infatti di uno strumento mai utilizzato finora, e che potenzialmente potrà vedere grandi masse di liquidità impegnate. Potrebbe essere il primo di una lunga serie di operazioni di questo tipo.
Apprendiamo poi che nei primissimi giorni di dicembre gli studi Allen & Overy e CBA hanno prestato assistenza nell’ambito dell’operazione di cartolarizzazione di crediti derivanti da mutui chirografari e ipotecari concessi a PMI da Banca Carige, Banca Carige Italia, Banca del Monte di Lucca, Cassa di Risparmio di Carrara e Cassa di Risparmio di Savona (poi incorporata in Banca Carige) per un valore superiore a Euro 700 milioni.
Mediocredito Europeo ha perfezionato un’operazione di cartolarizzazione revolving di un portafoglio di crediti assistiti da cessione del quinto dello stipendio e della pensione, o in alternativa, da delegazione di pagamento, fino a 250 milioni di euro di valore nominale.
Sempre a novembre 700 Banche di credito cooperativo (quelle dove il Potere Assessore ha dispiegato la maggiore potenza) cedono altri 120 mln di Npl. «Nel dettaglio, scrive Milano Finanza, Cassa Centrale Banca, partecipata al 25% da DZ Bank, ha chiuso ieri la sua quarta operazione di cessione di non performing loans per 120 milioni di euro originati da dieci banche di credito cooperativo nei confronti di clienti retail e corporate». Più o meno negli stessi giorni, Gruppo Bancario Cassa di Risparmio di Ravenna e una società di investimento facente parte del gruppo americano HIG Capital hanno raggiunto un accordo per la cessione di un portafoglio di crediti in sofferenza ipotecario. L’operazione si è conclusa e le tre banche facenti parte del Gruppo Cassa di Risparmio di Ravenna – e cioè Cassa di Risparmio di Ravenna, Banca di Imola e Banco di Lucca e del Tirreno – hanno ceduto il portafoglio ad una società veicolo, in conformità alla legge italiana sulla cartolarizzazione. L’operazione è il terzo investimento in portafogli NPL, portato a termine da HIG in Italia negli ultimi ventiquattro mesi.
«La Ue vuole rilanciare le cartolarizzazioni, utili all’economia reale»: il 30 settembre «è stata annunciata la riforma della normativa sulle cartolarizzazioni volta a rilanciare questo strumento di finanziamento delle aziende (e quindi della cosiddetta “economia reale“), che gode di pessima reputazione da quando proprio alcuni prodotti finanziari cartolarizzati, estrmamente complessi e oscuri, i “subprime”, hanno provocato nel 2007-2008 un collasso del sistema finanziario, prima negli Stati Uniti e poi trasmesso all’Europa e al resto del mondo. Il presidente della Bce, Mario Draghi sta spingendo da anni per il rilancio delle cartolarizzazioni “buone” [e qui ritorna, nell’ottica finanziaria, la distinzione fra economia buona e cattiva, laddove l’economia “cattiva” per antonomasia – la finanza – porta con sé, come “buona” i semi per una ricrescita, attraverso la distruzione, dell’economia reale] come strumento per raccogliere investimenti per le imprese, in un contesto in cui le decisioni di politica monetaria non riescono ad essere trasmesse efficacemente all’economia reale [e questo non è che un primo riconoscimento del fallimento, conclamato proprio questa sera in cui la FED annuncia l’aumento dei tassi]. Il sistema che immagina la Commissione (sulla base di input venuti innanzitutto dalla Bce, dall’Eba – l’Autorità bancaria europea al di fuori dell’Eurozona – e dalla Bank of England) implica anche che gli investimenti nell’Ue diventino meno dipendenti dalla agenzie di rating, spesso additate come responsabili non secondarie della crisi dei “subprime”, dei quali non avevano minimamente segnalato l’estremo rischio. Con le informazioni sulle imprese standardizzate e verificate secondo i criteri “Sts”, saranno le imprese stesse a fornire una sorta di “rating” di sé stesse, interno, hanno spiegato fonti della Commissione. Questo sistema, inoltre, permetterà un relativo allentamento, adeguandolo al contesto Ue, del giro di vite che era stato dato con la revisione delle norme prudenziali di Basilea, a seguito della crisi dei “subprime”».
La nascita di una finanza dal volto umano (slegata da agenzie di rating, propedeutica alla spinta dell’economia reale) comporta anche sostanziali modifiche nell’assetto delle società che dovranno poi valorizzare i crediti ceduti “in blocco”. Non dimentichiamo che gran parte del crediti cedendi sono non solo non performing, ma del tutto inesigibili.
Prendiamo il caso del credito al consumo: occorrerà agire sul costo d’acquisto (lontanissimo da quello delle cartolarizzazioni anni ’90) e sull’attività capillare dei recuperatori, più repo man che sussiegosi legali. Minacciare al povero la deprivazione anche di quello strumento minimo di benessere (cellulare, televisore) che aveva acquistato a credito. Montagne di case da significare, evitandone l’utilizzo collettivo, unendo nella miseria il lavoratore precario che rassegna la cessione della vita al sommovimento finanziario. Sarà un’offensiva terribile, attuata con draconiana ferocia, in nome della produzione reale. Dare un valore al debito, colmando così la cesura che aveva portato al 2008.
Il sistema bancario italiano avrebbe potuto continuare a generare fuffa e benessere: perché si è voluto salvarlo? Le pezze che porteremo al culo ce lo spiegheranno.