di MARCO BASCETTA.

Gli studi volti a definire il romanticismo, a elencare i requisiti che ricadono sotto questa definizione, a delimitarne l’arco temporale e la sfera di azione, a metterne in luce le contraddizioni e le metamorfosi sono innumerevoli e vari. Anche i moventi che li sottendono sono molteplici: dall’affezione estetica all’interesse storico, dal purismo accademico al furore ideologico, dall’interpretazione filosofica all’afflato mistico. Di certo sotto il cappello della cultura romantica incontreremo nostalgia del passato e proiezione verso il futuro, comunitarismo e individualismo estremo, sete di libertà ed esaltazione della tradizione, passione e rassegnazione, utopie egualitarie e concezioni gerarchiche, reazione e rivoluzione.

Singoli autori e perfino singole opere attraversano ripetutamente queste linee di confine che qualsiasi principio d’ordine e di coerenza tenderebbe a ritenere invalicabili. C’è chi sulle tracce del romanticismo si spinge fino a Orazio e Virgilio, chi si arresta alle soglie del XVIII secolo, chi lo insegue fino ai giorni nostri e chi ne constata il definitivo naufragio nell’orrore nazifascista cui i romantici avrebbero aperto la strada. C’è chi si arresta alle forme estetiche, chi allarga il raggio della sua indagine alle sensibilità filosofiche e chi si spinge fino alle dottrine politiche. Che farsene insomma di una scatola che contiene Jean-Jacques Rousseau come Edmund Burke o Thomas Carlyle, Heinrich Heine e Joseph De Maistre, dove un certo Marx trova accoglienza insieme a Jean Charles Léonard Sismondi, John Ruskin insieme a Rosa Luxemburg e il maggio ’68 convive con Ezra Pound e Gottfied Benn, senza escludere beninteso gli ecologisti contemporanei?

Una volta tolta di mezzo l’opposizione secca alla ragione illuminista che non regge notoriamente alla complessità storica del fenomeno, una volta accantonata la contesa ideologicamente semplicistica tra razionalismo e irrazionalismo, nonché la rassicurante contrapposizione alle forme e agli stilemi del classicismo, come conferire un senso, sia pure contraddittorio, a un continente culturale tanto vasto e meticcio? Michael Löwy e Robert Sayre nel recente Rivolta e Malinconia (Neri Pozza, pp.347, € 25) tentano precisamente di dare una risposta politico-culturale a questo interrogativo.

I due autori, sulla scia della sociologia culturale di uno studioso marxista come Lucien Goldmann, propongono di ricondurre il multiverso romantico a una Weltanschauung, una visione del mondo che lo sottende fungendo da sostrato comune alle diverse (e non di rado contraddittorie) versioni che, nei più diversi campi dell’arte, della cultura e della politica, ne daranno i suoi interpreti. Questo sostrato si sedimenta in una precisa fase storica: quella della modernità. Come è noto i confini di quest’ultima non sono meno mobili e discussi di quelli del romanticismo, ma Löwy e Sayre si concentrano sui due secoli che ne segnano il pieno dispiegamento: lo sviluppo dell’industria, l’organizzazione produttivista della società, la perdita di egemonia culturale ed etica dei valori tradizionali, il cambio di ritmo del processo storico e della vita quotidiana.

Il romanticismo avrebbe dunque come suo bersaglio critico la modernità nella forma nella quale si è data in Occidente, quella dell’accumulazione capitalistica e della mercificazione con tutti i fenomeni culturali che la accompagnano: disincanto, quantificazione, meccanizzazione, astrazione razionalista, dissoluzione dei legami sociali. Dunque la visione romantica del mondo è nella sua essenza anticapitalista. E, in quanto critica del presente, incline a rivolgere lo sguardo al passato (dal Medioevo alle comunità primitive), sovente idealizzato e rimpianto, ma altre volte ripercorso come principio di autocritica calato nel pieno della modernità stessa. Una sorta di preistoria di quella «modernità riflessiva» e cioè intenta a meditare sui guasti che ha prodotto, teorizzata da Ulrich Beck negli anni Ottanta del secolo scorso.

Ogni critica radicale del presente, del resto, non può che prendere le mosse dalla sua relativizzazione, dal rifiutarne le pretese di assolutezza e di definitivo compimento. E questo non può che essere fatto mettendolo a confronto con il passato, con una storia altra e con il corso diverso, controfattuale, che avrebbe potuto prendere.

Si intrecciano dunque, nella Weltanschauung romantica, nostalgia e speranza (a Ernst Bloch è dedicato un lungo capitolo) proiezione utopica e Kulturpessimismus, «rivolta e malinconia», come recita il sottotitolo del libro. Senza la cui miscela, come ha argomentato Enzo Traverso nel suo recente Malinconia di sinistra, non si darebbe nessuno slancio rivoluzionario, nessun nuovo tentativo di raccogliere la bandiera dalla polvere in cui è caduta. Si può naturalmente sostenere, avvalendosi di non pochi esempi storici, che proprio questa chimica sentimentale della rivoluzione la abbia votata ripetutamente alla sconfitta. La tragica fiaba della Comune di Parigi del 1870 è tra le più frequenti messe in scena di questa parabola. Il romanticismo, insomma, che si sia dato nella forma di un impossibile ritorno all’età dell’oro, o in quella dell’«assalto al cielo» e dell’edificazione del mondo nuovo, è un universo culturale geneticamente predestinato alla sconfitta. Ma proprio l’incompiutezza e la caduta gli garantiscono una sorta di immortalità come principio critico e motivo di rivolta.

In questa chiave è assai sensato riproporre oggi, fuori dal passaggio storico che il canone gli impone, il tema del romanticismo come visione anticapitalista. Come sappiamo gli effetti destabilizzanti della controrivoluzione liberista e le dinamiche di crisi che determinano la fisiologia della globalizzazione hanno alimentato formidabili processi di esclusione e un esteso rifiuto delle democrazie liberali sempre più strettamente imbrigliate dalle oligarchie finanziarie. Questi sviluppi hanno condotto alla diffusione di un anticapitalismo che si richiama a presunti «valori perduti» e a forme di organizzazione sociale che nel respingere l’«individualismo borghese» ripropongono una concezione organicistica, e necessariamente gerarchica, (oggi si dice meritocratica) della società. Lo sguardo è apparentemente rivolto a un passato, più «valoriale» che storico, più mitico che effettivo, a valori quali l’etnia, l’identità giudaico-cristiana, la patria, la nazione, la famiglia, la proprietà intesa nella sua dimensione precapitalistica, la comunità omogenea con le sue usanze, i suoi ruoli codificati e le sue funzioni di controllo sociale della devianza. Sebbene lo sviluppo capitalistico abbia addomesticato e parzialmente integrato quel che di reale vi era in questo catalogo di tradizioni immaginate non vi è dubbio che esse rientrino a pieno titolo nella definizione che gli autori danno del romanticismo. Come vi rientrano senza troppi problemi buona parte di quei partiti e movimenti (quelli più orientati a destra) che oggi vengono definiti populisti.

Se il fascismo storico, con i suoi miti scientisti e modernisti non combacia perfettamente, come scrivono Löwy e Sayre, con l’antimodernismo romantico, il fascismo postmoderno nel tempo della globalizzazione sembra adattarvisi assai meglio.

Il problema è che l’anticapitalismo reazionario, o almeno alcuni dei suoi temi, esercitano una certa forza di attrazione su una parte di quella che fu la sinistra radicale che tende a colorarsi di rosso-bruno. Cosicché, non potendo rinunciare alla linfa romantica della rivolta a favore di un oggettivismo statico e ingannevole, converrà disporsi a spaccare quella «casa comune» della Weltanschauung romantica che gli autori ci hanno condotto ad esplorare in tutte le sue articolazioni. Si tratta, insomma, di guardarsi da quelle derive dell’anticapitalismo ben peggiori del male che pretendono di combattere.

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