di MARIA ROSARIA MARELLA*.

Introduzione

L’interlocuzione dei giuristi con gli urbanisti si è tradizionalmente sviluppata sul terreno di quella specifica branca del diritto che è appunto il diritto urbanistico. Ma recentemente due elementi di novità hanno investito il campo di indagine del giurista rendendo il dialogo con gli urbanisti, gli architetti, ma anche i geografi, meno settoriale e al tempo stesso più urgente: mi riferisco tanto all’avvento della c.d. svolta spaziale nelle scienze sociali e nell’analisi giuridica, in particolare, quanto al crescente prendere piede degli urban commons come elementi ricorrenti nell’attuale configurazione dello spazio urbano e come oggetto di riflessione teorica. Rispetto ad entrambi questi filoni di ricerca, la riscoperta del pensiero di Henri Lefebvre e del suo “diritto alla città” costituisce l’orizzonte politico di riferimento di molti discorsi, sebbene certamente non l’unica prospettiva teorico-politica che abbia senso per il giurista coltivare nell’approcciarsi al tema dello spazio urbano.

Quanto al primo degli elementi menzionati, in questa sede mi limito a dedicarvi pochi cenni, solo per ricordare che lo spatial turn ha interessato le scienze sociali e le discipline umanistiche almeno a partire dagli anni Sessanta del secolo scorso trovando in Foucault compiuta espressione con il riconoscimento dello spazio quale cifra dell’epoca presente, in quanto epoca della simultaneità, della giustapposizione, del vicino e del lontano, della prossimità, della dispersione, l’epoca in cui la nostra percezione del mondo è sostanzialmente quella di una rete che connette punti sparsi nello spazio1. Nella cultura giuridica la svolta spaziale si consolida a metà degli anni Novanta con l’affermarsi di un filone di studi che prende il nome di legal geography e che consente una comprensione più sofisticata e profonda delle interrelazioni fra diritto e società, mettendo finalmente in luce in maniera chiara la proiezione spaziale della efficacia performativa del diritto, non un semplice strumento che passivamente riflette le scelte dello stato e delle sue articolazioni circa il governo del territorio, ma piuttosto una forza creatrice in grado essa stessa di modellare lo spazio fisico e lo spazio sociale, nonché la percezione soggettiva degli stessi2. Emerge in tal modo il rapporto di mutua influenza e dipendenza che intercorre fra diritto e spazio. Il diritto pubblico e il diritto privato, tanto direttamente (ad es. con la pianificazione urbanistica, la disciplina delle immissioni, ecc.), quanto indirettamente (ad es. attraverso incentivi e agevolazioni fiscali, disciplina delle ipoteche, ecc.), strutturano lo spazio così come le identità e le condizioni di vita di coloro che lo abitano. A sua volta lo spazio, tanto quello fisico, quanto quello sociale, incide sulla produzione normativa – sia essa legislativa, regolamentare o giurisprudenziale – che cerca di rispondere con regimi adeguati ai bisogni indotti di volta in volta dalla conformazione del territorio, dalle condizioni climatiche, ecc., ma anche alle forme architettoniche che determinano i modi dell’abitare (disciplina del condominio, problemi giuridici posti dalle gated communities, ecc.). Per tacere di quelle inesauribili fonti di norme giuridiche che sono lo spazio sovranazionale, per un verso, e lo spazio virtuale e internet, per l’altro3.

Anche sul fronte dei commons urbani, del resto, il ruolo che il diritto può giocare attraverso i suoi usuali meccanismi di funzionamento costituisce la prima, imprescindibile questione che si prospetta a chi intraprenda una riflessione giuridica sul tema, una questione che dunque si presenta preliminare anche rispetto ai profili della qualificazione e della (possibile) disciplina delle risorse che di volta in volta si individuino come beni comuni. In questo breve contributo intendo dar conto, sia pur succintamente, degli orizzonti che il tema dei commons, dei commons urbani in particolare, apre per i giuristi, dei problemi che pone, ma in primo luogo del possibile impatto dell’uso del diritto su questo terreno.

 

1. Il diritto dei beni comuni. Problemi e prospettive

Si è parlato e si parla del diritto dei beni comuni come di una prospettiva possibile nel momento presente, a dispetto dell’indiscussa fortuna di cui gode oggi la proprietà, quale modello egemone di allocazione delle risorse4. Ma ci si potrebbe chiedere, e in effetti qualcuno si è chiesto, se questa sia anche una prospettiva auspicabile5. E ciò per due differenti ordini di motivi. In primo luogo per il rischio che la giuridificazione delle esperienze di autogoverno maturate intorno alla rivendicazione/conquista/creazione dei beni comuni6 addomestichi le lotte che le sostengono fino a far loro perdere di forza propulsiva. In secondo luogo per la supposta impossibilità, politica, innanzitutto, di tradurre nel linguaggio del diritto vigente il comune, le spinte antiproprietarie, le esigenze di autorappresentazione – intesa come superamento della mediazione politica affidata alle istituzioni della rappresentanza – che si legano al commoning e alla gestione dei commons urbani, in particolare. Quest’ultimo punto di vista si lega per solito ad una visione del diritto come un insieme coerente di regole prodotte dal capitale per perpetuare se stesso e le forme di accumulazione e sfruttamento che gli sono proprie. Per questo motivo, sebbene il diritto non sia rimasto uguale a se stesso nell’ormai lunga vicenda che connota “la fase capitalistica della storia del mondo”7, esso conserva pur sempre delle costanti che impedirebbero al comune di trovare compiutamente voce al suo interno. Fra esse la dicotomia pubblico/privato, che costituisce il grande spartiacque intorno al quale si organizza il diritto moderno. La stessa costituzione repubblicana si limita a contemplare la proprietà pubblica e la proprietà privata. Per il comune sembrerebbe dunque non esserci spazio. Se tuttavia si assume un altro punto di vista capace di mettere in crisi l’idea del diritto come un tutto coerente8 è possibile far tesoro delle pratiche di decostruzione messe in opera dalla teoria critica e femminista9 non solo per far cortocircuitare una distinzione che oggi soprattutto e, in particolare, nella produzione dello spazio urbano, perde di efficacia ordinante (la proprietà privata che diventa spazio pubblico, come nel centro commerciale, gli strumenti pubblicistici di pianificazione del territorio che vengono contrattati coi privati), ma anche per cogliere le opportunità che l’incoerenza e l’indeterminatezza delle regole giuridiche ci offrono. In questa diversa cornice possiamo allora cogliere come il comune si inserisca e si sviluppi in modo interstiziale fra pubblico e privato, nel pubblico e nel privato, per lo più senza trovare una qualificazione giuridica adeguata. Su questo sfondo le pratiche del comune si producono e diffondono in una tensione costante fra informalità e bisogno di formalizzazione e di riconoscimento.filangieri1

Il diritto dei beni comuni si fa spazio proprio in questi interstizi. E in questi termini apre ad un orizzonte di possibilità. La sua percorribilità politica e il suo appeal si legano di fatto al riconoscimento della capacità del diritto di distribuire potere (economico, sociale, simbolico) nelle forme che gli sono consone e con gli strumenti che gli sono propri. A cominciare dall’operazione di qualificazione giuridica di una risorsa come bene comune, su cui tornerò a breve. In sostanza, del diritto dei beni comuni ha senso parlare nella misura in cui esso corrisponda – sia, cioè, funzionale – ad un progetto di empowerment. È in questa luce che il rapporto fra lotte per il comune e diritto può essere riproposto. Come è stato opportunamente notato, tutta la fascinazione di cui le visioni spontaneiste sono capaci non esime dal fare <<adeguatamente i conti con un passaggio istituzionale ineludibile: il riconoscimento giuridico di una destinazione propria a tali beni, procedimento tecnico che in taluni momenti della storia interviene con quella forza decisoria che le lotte politiche e le nuove acquisizioni conoscitive sono in grado di suscitare e le costruzioni formali provvedono poi a tutelare. Contrariamente a un certo marxismo dal sapore tralatizio, la “forma” giuridica non spegne, ingannandola, la prassi sociale, ma ne rappresenta un’articolazione di pari livello e sovente più attrezzata>>10. Non stupisce perciò che pur muovendo da un approccio critico sia stato possibile leggere nella ‘lotta per il diritto’ che i movimenti per i beni comuni hanno ingaggiato in Italia a partire dal 2011, anno del referendum sulla ripubblicizzazione dell’acqua, un momento di soggettivazione politica11, nella misura in cui si ambiva a saldare il legal change alla pratica politica oltre la mediazione della rappresentanza.

Non per questo i limiti del diritto vanno sottaciuti: continuamente il giurista avvertito fa i conti con il suo stesso disincanto verso il diritto come sistema di ingegneria sociale (L’impressione, peraltro, è che un’attitudine analoga caratterizzi il rapporto dell’urbanista con l’architettura). E resta pur sempre viva la preoccupazione di non delegare al diritto gli obiettivi dell’azione politica. Per tacere del fatto che non poche volte lo stesso dialogo fra diritto e pratiche del comune indica la via dell’informalità come strategia preferibile al riconoscimento attraverso la formalizzazione giuridica. Ciò accade ad esempio quando sia il diritto di proprietà la forma deputata al riconoscimento legale di un uso collettivo di risorse date, per lo più urbane12.

Tuttavia proprio il tema dei beni comuni ha messo in chiaro come la forma dominicale non sia affatto ineludibile nella disciplina del godimento in comune delle risorse. In proposito possiamo davvero far ricorso all’ottimismo della ragione e affermare che il diritto privato vigente non è unicamente informato all’individualismo proprietario13. Ancor più radicalmente dobbiamo riconoscere che la stessa fondatezza dell’espressione ‘individualismo proprietario’, al di là della sua indiscussa efficacia retorica, è messa in dubbio dalla irriducibile indeterminatezza delle regole giuridiche e dunque dalla loro strutturale ambivalenza e flessibilità. La storia delle forme giuridiche di appartenenza – quella più antica e quella più recente – mostra che il dominio individuale, anche all’apice della sua celebrazione quale fulcro dell’organizzazione sociale, è sempre stato inciso, contrastato e/o controbilanciato da diritti d’uso collettivo riconosciuti a vario titolo (dalle res publicae, sacrae o religiosae del diritto romano14 agli usi civici15 ovvero dall’interesse pubblico o generale nelle sue varie declinazioni. La stessa ‘compattezza’ del dominio individuale è stata sottoposta a critica, quindi disarticolata in un fascio di situazioni soggettive (bundle of rights)16 scomponibile e variamente allocabile a soggetti diversi dal proprietario17. E dunque non ci sono ragioni che impediscano oggi, nell’era della globalizzazione neoliberale del diritto, di pensare forme di accesso e godimento in comune delle risorse. In particolare, forme di cooperazione che passino attraverso la relazione con le cose comuni e si articolino sul terreno giusprivatistico18.

Allo stesso tempo questa prospettiva deve essere coltivata evitando ritirate nostalgiche nel bel tempo che fu. I beni comuni, almeno per come la nozione è andata configurandosi nel recente dibattito italiano – da considerarsi peraltro una punta avanzata in Europa – fanno capo a pratiche politiche e a teorizzazioni filosofiche e giuridiche che trovano nel conflitto sociale la loro cifra. Lungi dal celebrare un ritorno a idilliaci scenari premoderni di cui gli usi e i demani civici ancora esistenti costituirebbero il retaggio, i beni comuni sono l’esito di pratiche di resistenza alle politiche neoliberali di spossessamento del comune che trovano oggi anche e forse soprattutto nel pubblico, in considerazione delle massive operazioni di privatizzazione poste in essere dagli stati nazionali, un fattore cruciale di avanzamento. Questo chiarisce l’aspirazione del discorso dei beni comuni a porsi su un piano altro rispetto alla critica scontata alla sempre più pervasiva commodification delle risorse un tempo liberamente accessibili. Un piano che, come chiarito, non esclude il ricorso a dispositivi giuridici di diritto pubblico e soprattutto di diritto privato per il riconoscimento, la gestione e la tutela di ciò che si assume comune 19 e che nelle pieghe del sistema intende radicarsi e crescere, diffondendosi interstizialmente come spazio di resistenza e di trasformazione.

La più efficace definizione giuridica dei beni comuni si deve alla ormai celebre Commissione Rodotà, insediatasi presso il Ministero della Giustizia nel 2007 per riscrivere quella parte del codice civile dedicata ai beni pubblici (Capo II del Titolo I del Libro III del Codice Civile), la quale li ha individuati come quei beni che, a prescindere dall’appartenenza pubblica o privata, si caratterizzano per un vincolo di destinazione, essendo funzionali alla realizzazione dei diritti fondamentali di tutte e tutti, delle generazioni presenti e di quelle future. L’opera di qualificazione e classificazione propria del giurista ha sin qui condotto pertanto a identificare i beni comuni con quelle risorse

a) strettamente correlate alla comunità di riferimento e, in un certo senso, costitutive delle comunità stessa e dei legami sociali al suo interno,

b) gestite – o da gestirsi – collettivamente, o quanto meno in modo partecipato

c) a prescindere dal titolo di appartenenza formale (proprietà pubblica o privata).

Una tale definizione prescinde dunque da dati naturalistici e si presta ad accogliere gli esiti delle pratiche sociali di creazione/individuazione del comune.

Partendo da qui è allora possibile ordinare l’eterogeneità dei beni comuni secondo la seguente tassonomia: 1) le risorse materiali come l’acqua e l’ambiente, il patrimonio culturale ed artistico del Paese, ecc.; 2) le risorse immateriali – la conoscenza e le sue applicazioni, le creazioni artistiche, i saperi tradizionali e le culture popolari, le informazioni genetiche, ecc. – oggi interessate da un imponente fenomeno di ‘recinzione’, the second enclosure movement 20, attraverso le varie forme di proprietà intellettuale (diritto d’autore, brevetto, ecc.) che ne consentono l’appropriazione esclusiva, e di converso rivendicate (si pensi alle varie pratiche di resistenza contro l’enclosure poste in essere in rete) come risultato della produzione collettiva; 3) lo spazio urbano, bene comune per eccellenza in quanto “cosa umana per eccellenza”21, prodotto della cooperazione sociale, spazio nel quale l’andamento delle nostre vite si definisce22, oggetto di uno spossessamento che è frutto della partnership fra pubblico e privati e fonte di disgregazione sociale, di costruzione di identità svantaggiate, di distruzione di spazi di democrazia23; 4) infine le infrastrutture (dalle strade, a internet, alla ricerca di base), in quanto funzionali alla produzione di altri beni e utilità, e le istituzioni erogatrici di servizi pubblici finalizzati alla realizzazione di diritti fondamentali come l’istruzione e la salute: dunque università, scuola, sanità, ecc. Quanto alle prime, declinarle in termini di beni comuni significa reclamarne la libera accessibilità su basi non discriminatorie. Le seconde, nella ricostruzione giuridica corrente, sono messe in relazione ai diritti sociali riconosciuti dalla costituzione e tipici del welfare state: la sfida del definirle beni comuni sta nel reclamare per esse una gestione diversa, partecipata, soppiantando il modello tradizionale che vede l’ente pubblico erogatore del pubblico servizio e il cittadino/suddito portatore della pretesa alla prestazione.

 

2. Gli Urban Commons. Metropoli e produzione fra comune e ‘questione proprietaria’

Molti dei profili ora toccati, dal carattere conflittuale dell’individuazione dei beni che si qualificano come comuni, al ruolo e all’efficacia della loro tutela giuridica, fino alla possibile (dis)articolazione della proprietà nel sistema giuridico vigente, riguardano con particolare intensità gli urban commons, ovvero lo spazio urbano stesso inteso come commons.

Il tema non ha sinora trovato grande attenzione presso i giuristi ‘benecomunisti’ nostrani24. Il dibattito anglo-americano dedica invece una ricca letteratura – anche giuridica – agli urban commons: le piazze, le strade, i parchi, i giardini pubblici sono pacificamente riconosciuti come commons, in quanto facenti parte di quello spazio pubblico in cui la pubblica opinione ovvero la partecipazione politica democratica ha preso forma. Questo punto di vista è peraltro in linea con la definizione di beni comuni che abbiamo adottato: innegabilmente lo spazio pubblico è funzionale al libero svolgimento della personalità umana e all’esercizio dei diritti fondamentali. Sulla base di queste premesse si giustifica anche la presa in cura dei suddetti commons da parte di gruppi di cittadini ove le amministrazioni locali non lo facciano o non lo possano fare: si tratta peraltro di una condizione diffusa che ha generato ovunque nel Nord del mondo i c.d. orti urbani, usualmente in condizioni di informalità, ovvero ha dato luogo a gestioni partecipate istituzionalizzate come le park conservancies negli Stati Uniti25.

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Tuttavia la forza trasformativa del discorso dei beni comuni riesce a esprimersi compiutamente solo se la prospettiva si amplia e si assume l’intero spazio urbano come commons. Le città, come si diceva, sono dopo tutto prodotti umani e collettivi. Differenti visioni sociologiche e filosofiche della città – rectius: della metropoli – dall’idea della metropoli come luogo principale di produzione del valore26 alla sua identificazione con il dispositivo biopolitico per antonomasia27, confortano e arricchiscono la nostra lettura dello spazio urbano come commons. Se assumiamo lo spazio urbano come il teatro dei conflitti sociali che si accendono intorno all’appropriazione del valore prodotto collettivamente dalla cooperazione sociale, la nozione di comune (e di spazio urbano-commons) diventa la parola chiave di una strategia che si oppone all’accumulazione per spossessamento28, ovvero alla cattura di valore che attraversa le dinamiche produttive/riproduttive dentro la metropoli29.

Ovviamente la lettura dello spazio urbano come commons non è neutra dal punto di vista giuridico. Al contrario essa solleva questioni tanto complesse quanto delicate che impattano direttamente sulla nozione di proprietà che si assuma come vigente nel sistema attuale. Questioni che in questa sede possono soltanto essere accennate30. In primo luogo è legittimo chiedersi se la stessa concettualizzazione dello spazio urbano complessivamente inteso e delle sue porzioni – ad es. i quartieri – quali commons sia compatibile con la proprietà urbana, ossia con la proprietà privata del suolo urbano. L’assunzione di questo punto di vista comporta sul piano strettamente giuridico la possibilità che la proprietà possa essere disarticolata in un fascio di diritti variamente assortiti e attribuibili affinché delle utilità che genera nel contesto produttivo della metropoli possano godere anche soggetti diversi dal proprietario31. Per comprendere il tipo di ricadute dell’adozione di tale ipotesi ricostruttiva si pensi alle occupazioni ‘illegali’ di immobili lasciati in stato di abbandono da proprietari assenteisti ovvero dagli stessi sottratti alla loro destinazione culturale o altrimenti collettiva per scopi speculativi – dinamiche oggi assai comuni nei nostri contesti urbani. Oppure ai fenomeni di gentrificazione che comportano la cattura del valore culturale (l’atmosfera) creato dagli originari residenti e la sua mercificazione nel mercato immobiliare. Ebbene può la qualificazione dello spazio urbano come bene comune comportare la compressione delle prerogative dominicali sino a sottrarre al proprietario il potere di destinare il proprio bene a un certo uso o non-uso quando questo contrasta con la realizzazione dei diritti fondamentali altrui? O può condurre addirittura a scorporare il diritto alla rendita dal bundle of rights quando essa è chiaramente una forma di cattura del valore prodotto dalla cooperazione sociale32? Qui insieme con lo schema ricostruttivo prescelto è ovviamente in ballo anche la funzione della proprietà urbana quale fattore determinante delle relazioni sociali nella metropoli.

In realtà le rivendicazioni politiche dei movimenti sociali che si traducano in occupazioni di luoghi fisici o le iniziative di comunità locali che altrimenti contestino la legittimità di certi comportamenti proprietari possono tradursi in pretese giuridiche fondate giacché in tutti gli ordinamenti esistono meccanismi legali – la tutela dell’affidamento, l’usucapione, ecc. – in grado di tenere nella debita considerazione l’investimento di una comunità nella manutenzione, cura, gestione di un bene altrui. In virtù di tali dispositivi le manifestazioni di attivismo sociale apparse in un primo momento come illecite sono ricondotte dentro l’alveo della legalità delle forme di appartenenza. Di converso, il principio della funzione sociale della proprietà previsto dall’art. 42 della costituzione italiana conduce a ritenere illegittime quelle condotte proprietarie attuate in spregio all’interesse generale, sicché un proprietario che abbia lasciato un immobile in stato d’abbandono non dovrebbe ricevere tutela contro una sopravvenuta occupazione ‘virtuosa’, cioè contro un’attività di cura che restituisca l’uso del bene alla collettività, accrescendo il benessere sociale33. Particolarmente ove la funzione sociale della proprietà sia vista in relazione alla realizzazione degli altrui diritti fondamentali la qualificazione di un bene quale bene comune giustifica il riconoscimento di diritti collettivi di accesso e uso34.

Un ordine di problemi parzialmente diverso, ma pur sempre connesso al tema della città come commons, ruota intorno alla consistenza degli effetti redistributivi generati dall’azione collettiva in ambito urbano e sollecita qualche necessaria distinzione fra commoning e commoning. È infatti importante riconoscere che non tutti i commons urbani hanno la medesima capacità trasformativa con riguardo alle relazioni di potere che attraversano la metropoli. Tuttavia una certa retorica della comunità si accompagna di frequente al discorso sui beni comuni tendendo a dipingere l’attivismo dei cittadini nei quartieri, il fai-da-te, le iniziative volte alla cura di porzioni di spazio o al ripristino del decoro urbano come buoni in sé. Le condizioni per un rilancio dell’azione delle comunità nella gestione dello spazio urbano sono in realtà poste dalle modalità stesse in cui si articola il governo neoliberale del territorio. Com’è noto, oggi la governance delle città è nei fatti affidata a partnership pubblico/privato che assumono coloriture e funzioni diverse a seconda degli obiettivi che perseguono e del tipo di spazio che di volta in volta gestiscono. In alcuni casi al ritirarsi del pubblico dal governo diretto del territorio corrisponde il profitto del gruppo privato e qui allora prevale la formalizzazione dell’affare in assetti giuridici adeguati che prevedono il trasferimento della proprietà del suolo urbano o invece soltanto un titolo formale di godimento. Dallo shopping mall a molti esempi di common interest communities (CIC) i meccanismi legali sottostanti sono più o meno di questo tenore. In altri casi, invece, i tagli al bilancio dei governi locali producono semplicemente l’affidamento di fatto della proprietà pubblica alla buona volontà dei cittadini, che talora si organizzano spontaneamente per prendersene cura con modalità che restano molto spesso nell’informalità. È questo il contesto in cui fioriscono ad es. i community gardens, gli orti urbani, ma anche le park conservancies come nel caso di Central Park, a Manhattan35. In un sistema giuridico come il nostro, questa eventualità viene riconosciuta, se non incentivata, a livello costituzionale attraverso i meccanismi della c.d. sussidiarietà orizzontale (art. 118, 4° co. cost.); il che significa che la gestione spontanea e condivisa di un parco cittadino da parte di una comunità non si pone di per sé fuori dal modello gestionale basato sulla partnership pubblico/privato, ma ne rappresenta semmai una modalità meno costosa (per il proprieta_privatapubblico).

Nel discorso dominante, del resto, l’attivismo delle comunità svolge comunque un ruolo salvifico rispetto al degrado e al malessere sociale che caratterizza certe aree, cosicché non è infrequente che i programmi pubblici di rigenerazione urbana individuino nelle comunità locali i partner ideali nel perseguimento del comune obiettivo di ripristinare il decoro di un quartiere. Quel che si trascura è che queste stesse dinamiche sono tali da contribuire alla creazione di aree di segregazione sociale (e razziale) e a sollecitare nelle comunità la tendenza a chiudersi e a escludere i non residenti. Anche perché il successo dei programmi di rigenerazione, tanto pubblici quanto gestiti in partnership dal governo locale e dall’iniziativa dei cittadini, è molto spesso affidato al livello reddituale dei residenti. In molti casi, dunque, la partecipazione e il commoning non producono alcun effetto redistributivo; al contrario rafforzano le disuguaglianze nella distribuzione della ricchezza fra quartiere e quartiere. Ciò anche per effetto della capacità ‘naturale’ della proprietà di assorbire le esternalità positive trasformandole in rendita: un parco pubblico più bello aumenterà ulteriormente il valore di mercato degli immobili privati circostanti tenendo ben lontani i gruppi sociali meno abbienti che non possono permettersi di acquistarli o prenderli in locazione. Il che dimostra una volta di più che le comunità non sono tutte uguali e la retorica comunitaria non è di per sé capace di innescare il cambiamento. Al contrario l’organizzazione delle comunità può talora dar luogo a nuove ‘recinzioni’ dello spazio urbano favorendo l’omogeneità sociale al loro interno e disincentivando mobilità e scambi.

Diverso il discorso laddove si tratti di pratiche del comune in senso proprio, cioè di azioni che si propongano come obiettivo la restituzione alla collettività di risorse urbane precedentemente sottratte all’accesso pubblico, magari per effetto della gestione pubblico-privatistica del suolo urbano. In questo caso prendono forma dei commons urbani aperti a una comunità ben più ampia di quella che direttamente li gestisce e dunque capaci di redistribuire utilità e creare legami sociali oltre gli angusti confini della CIC o del vicinato. Le dinamiche redistributive fra aree urbane diverse possono però innestarsi solo in una dimensione collettiva dinamica, fluida e inclusiva nella quale alla cura dei beni comuni corrisponda innanzitutto il riconoscimento del diritto di ognuno di non essere escluso nei confronti di amministrazioni locali, comunità e gruppi. Questa prospettiva può essere autenticamente promettente purché siano soddisfatte alcune condizioni: sia garantita l’effettività della partecipazione ai processi decisionali includendo tutti i possibili interessati; la produzione e distribuzione di welfare ‘dal basso’ legata alla gestione dei beni comuni trovi riconoscimento sociale e possibilmente giuridico; sia preservata, dove occorra, l’informalità delle occupazioni urbane e delle gestioni in comune e, per converso, sia data loro adeguata veste giuridica, ove ciò maggiormente convenga.

Due ‘regole di chiusura’ sono poste a salvaguardia dell’accesso e dell’uso dello spazio urbano a vantaggio di tutti: il rispetto dei diritti fondamentali di chi voglia abitarlo o attraversarlo, e la funzione sociale della proprietà che – come recita la costituzione brasiliana – diventa funzione sociale della città stessa.

 


* Una versione breve di questo contributo è in corso di pubblicazione in S. Munarin, L. Velo (a cura di), Italia ’45-’45. Radici, condizioni, prospettive, Donzelli, Roma, 2016.

 

 

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  1. M. Foucault, Des espaces autres, 1967, Eterotopie in Archivio Foucault Feltrinelli 1998 

  2. Y. Blank e I. Rosen-Zvi, The Spatial Turn in Legal Theory, in “HAGAR Studies in Culture, Polity and Identities” Vol. 10 (1) 2010: 37-60. Come noto, l’articolazione analitica in spazio percepito o fisico, spazio concepito o sociale e spazio vissuto o mentale-soggettivo si deve a Henri Lefebvre, Il diritto alla città, Verona, ombre corte, 2013; Id., La produzione dello spazio, Milano, 1976. 

  3. Y. Blank  e I. Rosen-Zvi, cit. 

  4. M.R. Marella, Introduzione. Per un diritto dei beni comuni, in M.R. Marella (a cura di), Oltre il pubblico e il privato. Per un diritto dei beni comuni, Verona, Ombre corte, 2012, pagg. 9-28; Ead., Beni comuni. Oltre l’opposizione natura/cultura in Lettera internazionale, 113/2012. 

  5. Per es. T. Negri, Il recinto dei beni comuni, recensione a Oltre il pubblico e il privato, cit.,in “Il manifesto”, 14 aprile 2012 [può leggersi anche in http://www.ombrecorte.it/rass.asp?id=304, ultima visita 14 aprile 2016] 

  6. Sulla ‘genesi’ dei beni comuni v. infra e M.R. Marella, Bene comune. E beni comuni: le ragioni di una contrapposizione, in F. Zappino, L. Coccoli, M. Tabacchini, Genealogie del presente. Lessico politico per tempi interessanti, Milano-Udine, Mimesis, 2014, pp. 25-39. 

  7. Così Du. Kennedy, Three Globalizations of Law and Legal Thoughts, in D. Trubek & A. Santos (eds.) The New Law and Economic Development. A Critical Appraisal, Cambridge: Cambridge University Press, 2006, pp. 19 – 73. 

  8. Du. Kennedy, A Critique of Adjudication [fin de siècle], Harvard University Press, 1997. 

  9. Cfr. ex multis F. Olsen, Constitutional Law: Feminist Critique of the Public/Private Distinction,  10 Const. Comment. 319 (1993), e per una sintesi, M. Albertson Fineman, Feminist Legal Theory, 13 J. Gender Soc. Pol’y & L. 13 (2005). 

  10. P. Napoli, Indisponibilità, servizio pubblico, uso. Concetti orientativi su comune e beni comuni, in Politica & società, 2013, 403, 408 s. 

  11.  M.R. Marella, Pratiche del comune. Per una nuova idea di cittadinanza, in Lettera internazionale, 2013, 116, 40-44. Più in generale M. Spanò, Azioni collettive. Soggettivazione, governamentalità, neoliberismo, Napoli, ES, 2013. 

  12. Jorge Esquirol, Titling and Untitled Housing in Panama City, 4 Tennessee Journal of Law & Policy (2014). 

  13. Per una discussione A. Negri, Il diritto del comune, in A. Negri (G. Roggero cur.), Il comune in rivolta. Sul potere costituente delle lotte, Verona, ombre corte, 2012, 144. 

  14. Su cui è fondamentale l’approccio realista di Yan Thomas, Il valore delle cose, a cura di Michele Spanò, Quodlibet, Macerata, 2015 e le osservazioni di Paolo Napoli, op. cit., e Id., Un patrimonio che non appartiene a nessuno, ne <<L’Indice dei libri del mese>>, 1.11.2015. 

  15. Classicamente P. Grossi, Un altro modo di possedere. L’emersione di forme alternative alla coscienza giuridica postunitaria, Milano, Giuffrè, 1977. 

  16. Wesley N. Hohfeld, Some Fundamental Legal Conceptions as Applied in Judicial Reasoning, 23 Yale L.J. 16 (1913). 

  17. Thomas C. Grey, The Disintegration of Property, in Liberty, Property and the Law, edited with introductions by Richard A. Epstein, 2000 e Du. Kennedy, Property as Fetish and Toolhttp://www.geo.coop/story/property-fetish-and-tool, ultima visita 11.04.2016. 

  18. Questa idea, ci ricorda Toni Negri (Il diritto del comune, cit., 147 s.), è già limpidamente presente in Pasukanis. 

  19. Il che non vuol dire rendersi subalterni alla logica neoliberale, come intende invece, equivocando, C. Formenti, Utopie letali. Contro la politica postmoderna, Jaca Book, 2013, spec. 136 s.; tutto il contrario, come si è ampiamente spiegato. 

  20. Cfr. J. Boyle, The Second Enclosure Movement and the Construction of the Public Domain, Law and Contemporary Problems, Vol. 66, pp. 33-74, Winter-Spring 2003. 

  21. Così C. Lévi Strauss (Tristi tropici, Milano, Il Saggiatore, 1965) citato da A. Petrillo, Ombre del comune: l’urbano fra produzione collettiva e spossessamento, in Oltre il pubblico e il privato, cit., 203. 

  22. Cfr. M. Hardt e A. Negri, Commonwealth, Harvard University Press, Cambridge, Mass., 2009, 249 ss. 

  23. Cfr. D. Harvey, Il capitalismo contro il diritto alla città, ombre corte, Verona, 2012. 

  24. Si consenta però il rinvio a M.R. Marella, Introduzione. La difesa dell’urban commons, in M.R. Marella (cur.), Oltre il pubblico, cit., 185; F. Treggiari, Bene comune: la città medievale, ibidem, 222. 

  25. Sheila Foster, Collective Action and the Urban Commons, 87 Notre Dame L.R. 57 (2011). 

  26. Antonio Negri, Dalla fabbrica alla metropoli. Saggi politici, Datanews, 2008; M. Hardt & A. Negri, Commonwealth, cit. 

  27. Giorgio Agamben, La città e la metropoli, in “Posse”, 2007. Cfr. anche A. Cavalletti, La città biopolitica. Mitologie della sicurezza, Bruno Mondadori, Milano, 2005; Roma disambientata, La metropoli come dispositivo, in M.R. Marella (cur.), Oltre il pubblico, cit., 242. 

  28. D. Harvey, Rebel Cities. From the Right to the Cities to the Urban Revolution, London New York, Verso, 2012. 

  29. A. Negri, opp. citt. alla nota 26. 

  30. Per un approfondimento rinvio a M.R. Marella, op.ult.cit. ; Ead., Exploring the Limits of Property’s Sociability, in corso di pubblicazione. 

  31. V. note 16 e 17. 

  32. In tema di recente A. Quarta, La polvere sotto il tappeto. Rendita fondiaria e accesso ai beni comuni dopo trent’anni di silenzio, in Rivista critica del diritto privato, 2013, 253. 

  33. Questo almeno in principio. Le cose possono poi andare diversamente com’è avvenuto per il Municipio dei Beni comuni istituito presso l’ex Colorificio Toscano nel cuore di Pisa(cfr. Progetto Rebeldia (cur.), Rebelpainting. Beni comuni e spazi sociali: una creazione collettiva, !Rebeldia edizioni, s.d.), un caso di delocalizzazione di un’attività industriale, dismissione della fabbrica e abbandono del complesso immobiliare che si è tuttavia risolto nella tutela penale della proprietà. Sulla vicenda v. I giuristi per il colorificiohttp://www.comunemente.unipg.it/index.php/materiali.html, ultima visita 11.04.2016. 

  34. S. Rodotà, Postfazione. Beni comuni: una strategia globale contro lo human divide, in M.R. Marella (cur.), Oltre il pubblico, cit., 311. 

  35. S. Foster, op.cit.