di CARLA PANICO. Che cos’è la colonialità? È ciò che resta dell’Impero quando l’Impero si dissolve, ciò che resta della colonia anche dopo che abbiamo smesso di chiamarla colonia. È un enorme apparato di sapere, oltre che di potere, grande quanto lo stesso globo terreste, che lo disegna e definisce secondo una geopolitica di dominazione e subalternità. È violenza epistemica, oltre che politica ed economica, in cui il sapere degno di essere chiamato tale è uno e uno solo: quello bianco, maschile, europeo.
L’opzione decoloniale nasce, non a caso, in Sudamerica, nella seconda metà del Novecento. Di quel secolo post-coloniale, in cui il prefisso post non può che avere una doppia valenza: quella della successione temporale – il «dopo» dei processi di decolonizzazione e, formalmente, la fine del dominio – e quella della permanenza, del perdurare di apparati di potere/sapere ancora pienamente coloniali – e quindi di razzismo e sfruttamento.

La pubblicazione in italiano di una prima raccolta di testi di Ramón Grosfoguel, curata da Gennaro Avallone, inserisce nel panorama nostrano un tassello di questa prospettiva di studi, ancora poco conosciuta in Europa. Rompere la colonialità. Razzismo, islamofobia, migrazioni nella prospettiva decoloniale (Mimesis, euro 18) non è l’esposizione di un sistema di pensiero: è, al contrario, uno sguardo che proviene da una parte specifica del globo e che si posa sul mondo in cui viviamo; una prospettiva di parte – a cui poco siamo abituati.

Situare il proprio punto di enunciazione diventa, infatti, un’operazione politica radicale, perché capace di smascherare il dispositivo coloniale della «neutralità» del sapere. Il cogito cartesiano – in quanto atto del pensare che risiede nella ragione, fuori dalle dimensioni del corpo e dello spazio – ha fondato un Io europeo universalizzato, il solo io capace di pensare gli universali.

Ciò ha definito i saperi altri come «folkloristici», esclusi inevitabilmente dalla possibilità di essere «razionali». In un multiverso possibile di saperi, il colonialismo ha imposto un universalismo violento: un’imparzialità che, in realtà, è espressione di una sola parte, quella di chi domina, e di un Io penso che non può che essere maschile e occidentale.
Proprio su questa dimensione epistemologicamente – e materialmente – distruttiva dell’esperienza coloniale si incentra una parte – che oggi ci pare fondamentale – del lavoro di Grosfuguel: lo sterminio di intere popolazioni, infatti, è andato di pari passo con l’eliminazione sistematica dei loro saperi.
Un genocidio/epistemicidio in quattro atti, fondativo dell’identità europea e del suo carattere universale: il genocidio di ebrei e musulmani durante la conquista di Al-Andalus; quello dei popoli indigeni del continente americano; la riduzione in schiavitù dei neri dell’Africa; e in ultimo, la soppressione sistematica del sapere delle donne in Europa, mediante i roghi delle streghe.

I primi tre punti ci sembrano fornire strumenti di comprensione del modo in cui si è strutturato il sistema capitalistico globale odierno, nel quale lo sfruttamento razzializzato della forza-lavoro implica un preciso modello di governo delle migrazioni e di accesso alla cittadinanza. Gli Indios delle Americhe – di pari passo con lo spostamento di massa dall’Africa di uomini e donne senz’anima che li avrebbero sostituiti nel lavoro schiavile – vennero messi nelle «encomiendas»: una forma di lavoro forzato – sperimentata per la prima volta contro moriscos e marranos in Andalusia – funzionale a «sorvegliare» la loro corretta «conversione» al cristianesimo. Il lavoro, se forse davvero non rende «liberi», per lo meno rendeva «cristiani», allora, o «cittadini», oggi.
Sull’ultimo punto, infine, la prospettiva decoloniale si intreccia con gli sviluppi più recenti del pensiero femminista.

Riprendendo di Silvia Federici, Grosfoguel vuole sottolineare che il razzismo epistemico, in quanto campo di accumulazione, non è scindibile dal suo correlato, violentissimo e necessario: il sessismo epistemico.
Non possiamo che pensare a quelli che, negli ultimi anni, sono stati gli straordinari movimenti politici in grado di scuotere il globo e «far tremare la terra»: da Blacks live matter a Ni una menos, passando per il rimettersi in cammino del popolo zapatista, si delinea una nuova cartografia di lotte che invertono la direzione univoca di emanazione del sapere eurocentrico, poiché proprio dai Sud del mondo spira il vento nuovo che sta travolgendo l’Occidente: saperi di lotta che emergono e decolonizzano il nostro modo di fare politica, di organizzarci ma anche di metterci in relazione e amare.

Alla geopolitica sanguinaria che attraversa come un filo rosso la storia dell’Occidente – fin dal giorno in cui un marinaio genovese mise il piede in un mondo che decise di definire «nuovo» – e che riemerge periodicamente, fino in questi tempi bui, è il momento di rispondere con una corpopolitica: una politica dei corpi dominati, messi in stato di minorità, soppressi e quindi parziali, situati: perché non è più tempo di dirsi «neutri», perché non è più tempo di sentirsi portatori di «universalità». Perché se le nostre lotte, sembra dirci Grosfoguel, non sono oggi indie, negre e donne, semplicemente non sono.

questo testo è stato pubblicato su il manifesto il 13 giugno 2016

 

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