di Fant Servile. Un tempo, quando volevo erudirmi leggevo “il corriere mercantile”, organo ufficiale dei lamentevoli del “degrado” e del “magna magna” in una Genova asfittica e arancione (più per i fumi dell’Italsider che per il principesco sindaco). Il capitale ha fatto giustizia del foglio e quindi ora il mio apprendimento culturale è garantito da “il fatto quotidiano”.

Oggi.

Smunto e trafitto da un’ora di coda per arrivare al tornio cognitivo, nemmeno faccio tempo ad aprire il giornale e subito la frenesia bolscevica del quotidiano mi pervade dalla prima pagina: “banche ora gli espropri facili”. Minchia, penso: sono mai stati difficili? Il giornalista è furioso, si duole addirittura (con che piglio rivoluzionario, poi) della violazione, attraverso il recepimento di una direttiva CEE, del codice civile (quello comunistissimo, per intenderci, firmato Mussolini – Grandi). Da quanto è dato comprendere, la norma (molto ammericana, nel dispiegarsi delle procedure di espropriazione immobiliare) consentirebbe al mutuante di liberare l’immobile senza le “pastoie” del ricorso al giudice. Adesso in parlamento c’è una mezza sollevazione, chiosa il giornalista (ritengo che il Capitale Collettivo tremi al solo pensiero).

Le lagnanze risultano a mio modestissimo (e precario) avviso (a) infondate dal punto di vista giuridico; (b) si inseriscono, piane piane, in processo che trova avvio (almeno per quanto a mia conoscenza) già nel 1885 (ma lì il discorso era reso complesso e forse interessante dall’intrecciarsi di mutualismo, cooperazione e lotta allo sfruttamento) e procede dal testo unico fondiario (1905, in vigore, salvo ritocchi sino al 31.12.2013), per passare al D. Lgs. 385/93, all’attività creativa di qualche tribunale (fine anni ’90), alla “riformina” del processo esecutivo (2006) il tutto letto con il filtro della crisi del sistema capitalistico improduttivo (c) ma soprattutto irrilevanti dal (mio) punto di vista” politico”.

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a) che delle garanzie che assistono il processo ordinario di cognizione non vi sia alcuna necessità nell’espropriazione è principio consolidato e ricorrente tanto nella giurisprudenza della Corte Costituzionale che della Cassazione. Invero, chi agisce esecutivamente è già dotato di titolo, cosicché il debitore non può pretendere alcunché, se non che l’espropriazione non trascenda, evidenziandosi (i) vizi formali (ii) contestandosi il diritto del creditore a procedere ad esecuzione forzata; in fondo l’espropriazione coattiva è prevista proprio per il caso di inadempienza all’ordine giudiziale, o a titolo esecutivo di formazione stragiudiziale, come è il mutuo (e allora perché non prendersela con l’art. 474 c.p.c?)

Entrambe le tutele non paiono toccate dalla supponenda normativa.

La possibilità per il mutuante di procedere direttamente all’alienazione del cespite cauzionale -per il caso di morosità nei termini, peraltro, già attuali ex TUB- è di per sé irrilevante, in quanto le attuali “lentezze” (che tali non sono per inerzia della magistratura o dei legali degli istituti di credito ma per difficoltà nelle vendite) costituiscono eventuale “sollievo” (precarissimo e dolente) per il mutuatario moroso non certo salvezza o liberazione dal giogo del debito; tantopiù che la legge già consente che il Giudice dell’Esecuzione disponga lo sgombero immediato (intendo ante alienazione) dell’immobile onde favorire un maggior ricavo dalla vendita coattiva.

Il problema, forse, è materia per tecnici del diritto potendosi affermare un’assimilazione del contratto siccome innovato al leasing (e anche del leasing “prima casa” in effetti si parla) ovvero (per i più retrò) alla vendita con riserva della proprietà; ma i tecnici del diritto sono tecnici o al più giuristi e quanto pensano non porta giovamento agli sfruttati (né mai lo portò).

Quello che resta da dire, una volta di più, è della completa erosione del diritto di proprietà e dell’ininfluenza dello stesso a tutelare il debitore/proprietario (ma anche il creditore, che si trova nel possesso di immobili che, allo stato, non valgono nulla, almeno per sé) che, per tale sola sua condizione (soggettiva poiché personale, oggettiva perché comune a moltitudini di poveri), cessa di essere soggetto di diritto -espropriato nell’esistenza- risultando il rapporto intercorrente tra creditore e cosa (liberamente dal primo agita). Ma di questo dirò di seguito.

(ii)  prendiamo questa prima definizione: “ Il diritto è un insieme di regole della condotta umana stabilite dal potere statuale in quanto potere della classe che domina la società, nonché delle consuetudini e delle regole di convivenza sanzionate dal potere statuale e attuate coercitivamente con l’ausilio dell’apparato statuale al fine di tutelare, consolidare e sviluppare i rapporti e l’ordinamento vantaggiosi e favorevoli alla classe dominante” e ora apriamo il testo unico finanziario sub art. 5 “finalità e destinatari della vigilanza”: la vigilanza .. ha per obbiettivi: a) la salvaguardia della fiducia nel sistema finanziario; b) la tutela degli investitori c) la stabilità e il buon funzionamento del sistema finanziario, d) la competitività del sistema finanziario, f) l’osservanze delle disposizioni in materia finanziaria (lettera aggiunta nel 2007, si badi, il testo originale è del 1998). L’articolo va coordinato con l’art 1) lett. W ter)  secondo cui il mercato regolamentato è sistema multilaterale che consente o facilita l’incontro (vieni c’è una casa nel bosco) al suo interno e in base a regole non discrezionali di interessi multipli di acquisto e vendita a terzi relativi a servizi finanziari, ammessi alla negoziazione conformemente alle regole del mercato stesso, in modo da dare luogo a contratti, e che è gestito da una società di gestione è autorizzato e funziona regolarmente.

La dittatura del mercato, invece della (finta) dittatura del proletariato di Vysinskij? Magari!, con quelle povere e scarne parole si è dato il riconoscimento del mercato quale fonte (unica) del diritto (alla faccia di Crisafulli e di chi, tapino, ha letto le sue vacuità).

E’ come se il potere costituente del capitale si fosse inventato un metodo per istituzionalizzarsi restando fiume in piena, marosi che tempestano la vita e irridono il diritto.

La disciplina del 1905 era di estremo favore per l’istituto di credito fondiario (la banca, ricordiamo non era generalista) sia dal punto di vista processuale che sostanziale (i) era irrilevante il cambio di proprietà del bene; (ii) le rendite erano rimesse direttamente al mutuante, cosiccome il pagamento del prezzo; (iii) l’opposizione non sospendeva l’espropriazione (iv) era consentito l’anatocismo e la richiesta di pagamento non provocava la risoluzione del contratto persistendo l’obbligo del pagamento di corrispondente tutte le rate (composte da quota capitale e quota interessi) gravate di interessi di mora dal “dovuto al saldo” e altre meraviglie. Questo perché l’istituto, per procurarsi la provvista emetteva obbligazioni che doveva rimborsare; l’obbligo restitutorio era gravemente compromesso dalla morosità ovvero dalla lentezza delle procedura espropriativa; il ritardo era considerato dannoso per l’intero sistema; veniva così assunto ogni mezzo idoneo a ridurre i tempi di esecuzione (e questo è il punto cruciale, mi pare, per comprendere gli attuali propositi del governo, laddove evidente l’analogia tra le cartelle fondiarie e le obbligazioni delle società di cartolarizzazione).

La disciplina, ferma per anni, insensibile alle modifiche che intervenivano nella composizione dell’Italia del dopoguerra e del fordismo maturo (si pensi ai tassi di mora previsti per legge o per DM in misura per i tempi correnti spropositata) conobbe “crepe” soltanto all’inizio della finanziarizzazione, sotto le mentite spoglie di tutela del consumatore (invero per favorirla); il consumatore che era legislativamente posto come garantito non in sé ma quale assoggettato ad un mercato “ottimizzato”.

Il capitale cercava una nuova legge del valore, un metro di misura e sfruttamento; lo trovò negli immobili ipotecati; le cartolarizzazioni fioccarono e l’urgenza di pervenire a sollecita liberazione del bene accrebbe, pur per differente e speculativa ragione. Da un lato la giurisprudenza che tentava di tutelare il debitore “a monte” dall’altro la giurisprudenza “a valle” che strutturava le esecuzioni in modo sempre più veloce ed indipendente dalle esigenze del debitore stesso, in ossequio a legislazione molto spesso anticipata negli effetti (esemplare la prassi instaurata dal Tribunale di Monza che riuscì a ridurre i tempi dell’esecuzione in modo assai rilevante tanto da essere cristallizzata nella legge, peraltro innestando un carrozzone di tecnici, delegati ed ausiliari che hanno fatto lievitare i costi, al contempo generando un nuovo ceto di professionisti in continua espansione, divenuti oggi i professionisti del concordato preventivo).

Per dare omogeneità al discorso non è inutile ricordare che le società di cartolarizzazione, quando si voleva pervenire all’incanto in termini brevi o a sollecita attribuzione del ricavato -(dalla vendita alla distribuzione passavano i alcuni tribunali anche quattro anni, posso dire per scienza personale di fallimenti trentennali)- assumevano una similitudine tra la vecchia legge fondiaria e quindi a favore del soggetto che emetteva le “cartelle” e la nuova disciplina della cartolarizzazione, improntata, apparentemente, agli stessi fini e principi.

Tutti sanno come andò a finire, la velocità -valore legislativamente assunto, anche ai fini del D’Alemiano “giusto processo”- urtò contro la crisi del 2008, non si vendette più una mazza cosicché pervenire all’incanto in tempi solleciti fu ragione di costi assurdi e di nessun vantaggio per le banche.

E siamo all’oggi: patrimoni enormi nella quantità, risibili nella qualità, sottratti al mercato edilizio in quanto a garanzia di finanziamenti non performing poiché concessi a società insolventi ab origine, erogati solo per amicizia, clientela ma soprattutto per perpetuare l’idea di una produttività del sistema capitalistico (misurabile ovviamente solo in mattoni perché misurare la dismisura della capacità produttiva del precariato urta con l’essere capitale) ormai decotto. Ma dalla decozione può nascere un fiore, che non è il garofano rosso di Vittorini, ma il nero mantello dell’ennesima ristrutturazione.

Capiamoci: non è che la banca goda di riempirsi di immobili in vece di ottenere il denaro pattuito, la banca non è un’immobiliare né uno speculatore del ramo; ben più lesta e redditizia la creazione di denaro dal nulla, la messa sul mercato di una possibilità di profitto (rendita?) improbabile. Se ciò si fa è solo perché non esiste alternativa e soprattutto perché occorre -per vincere la riottosità del ceto precario- ricominciare a produrre, ripartendo dal mattone; occorre inondare il mercato di case a prezzi ridicoli non più per assicurare al consumatore (concetto desueto se mai concretamente esistito) la possibilità di ricomprarsi una casa che un suo simile ha appena perduto e ciò non in ossequio alla proverbiale parsimonia dell’italiano-brava-gente ma a rafforzamento dell’impresa edilizia che è ulteriore fonte di precariato e sfruttamento atroce.

Case brutte per brutta gente, da abbruttire con una vita di resistenza e soffocamento. Case bella per bella gente. Comunque case da ristrutturare per fare ri-partire l’edilizia e con essa altri mutui, altri debiti, altra creazione di denaro dal debito. Quello che si dimentica è che i crediti attivabili con la norma (inesistente, allo stato) opposta sono inesigibili, non ci sono i soldi, le imprese sono morte, i consumatori estinti. Keynes è andato la sua musica esaurita, come la possibilità di ridare slancio all’economia attraverso l’attività pubblica, che, al contrario, sta in piedi solo perché le banche accettano di sostenerlo (lo stato si è estinto ma non nella vittoria del proletariato, nella sua, spero non definitiva, sconfitta).

c) concludiamo la minestra: perché dicevo che attaccare quella norma è inutile e, forse dannoso?

perché non è invocando la tutela offerta dal divieto di patto commissorio (divieto che mai, mi pare abbia evitato l’usura, l’estorsione, lo sloggio) che si attivano difese contro il capitale finanziario (o per semplificare à la M5S, molto meglio del resto gli MC5, le banche): occorre partire dal principio che il denaro, in oggi, si da per due vie: (i) la creazione dal nulla per mezzo del debito (ii) l’espropriazione dell’attività produttiva delle moltitudini (di cui la prima è una delle tante modalità/espressioni).

Ebbene, credo che la mobilitazione dovrebbe riguardare più il secondo aspetto che il primo, cercando di ottenere ilcommissorio3 riconoscimento della naturale produttività del lavoro precario e della partecipazione dei precari (indipendente dal loro inquadramento e addirittura dal loro effettivo “impiego” al momento). La potenza del precario deve guardare oltre le lagnanze da piccolo borghese che ha perso quanto investito in capitale di rischio (da investitore a “investito” da un tram chiamato desiderio – abbiamo una banca diceva un tale) e generare modalità di valorizzazione soggettiva estranea alla battaglia tra cosche che investe il capitale tra pro e contro le banche. Non pare possibile attivare i principi della proprietà privata a favore dei debitori, l’espropriazione dei quali sarà sempre possibile sino a quanto non avremo il riconoscimento del fatto che il precario, prima di essere debitore è anche e soprattutto creditore di vita, costante fornitore di linfa per il capitale; agire questa contraddizione, portarla alla cognizione di ciascuno, “invertire la rotta” del senso comune che vuole il rispetto dei patti, istituire non più difese ma “modelli produttivi” di attacco attraverso l’impresa moltitudinaria cancellando l’idea di “imprenditore” quale perno del regime politico neoliberale mettendolo al servizio del comune.

In fondo anche l’imprenditore capitalistico (quello oggetto di ogni tutela e beneficio) appare completamente inserito nel modo di produzione del comune, cosicché non può non dipendere dallo stesso: e qui si ritorna al concetto di mercato che deve essere assunto non più come “direzione” ma quale determinato dalla moltitudine. La contestazione di questa e di ogni altro tentativo di ristrutturazione capitalistica non deve procedere dal primo, ma anticiparlo e puntare sulla potenza della cooperazione produttiva.

 

 

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