di GIROLAMO DE MICHELE.
1. Del buon uso dello sciacquone (ovvero: se proprio devo, faccio prima a parlare coi miei)
Giovanni De Mauro [Sciacquone, in Internazionale, 19/25 luglio 2019, p. 3] ci ricorda uno studio condotto dall’università di Yale, nel quale è stato chiesto a un gruppo di studenti «di scrivere una spiegazione dettagliata del funzionamento di alcuni oggetti d’uso quotidiano, tra cui lo sciacquone del bagno», e di valutare il proprio livello di conoscenza: «lo sforzo di spiegare rivelava agli studenti quanto poco ne sapessero». In psicologia cognitiva, questo meccanismo si chiama “Illusione della profondità esplicativa”: pensando di sapere più di quello che effettivamente sappiamo, «ci sentiamo autorizzati a esprimere delle opinioni più o meno su ogni cosa». Laddove, conclude De Mauro, «non c’è nulla di male a dire “non lo so”: spesso è la posizione più onesta e corretta». Perché, in definitiva, «possiamo scegliere di accettare e diffondere bugie, voci e interpretazioni, oppure possiamo rifiutarci di farlo, e ammettere che spesso non sappiamo».
La rubrica di Giovanni De Mauro cade giusto al termine di una decade nella quale si è letto di tutto e di più sul Rapporto Invalsi 2019 [⇒ qui]. Le “grandi firme” dei “quotidiani nazionali” si sono scatenati nell’illustrare lo stato non della scuola, ma dei discorsi sulla scuola (una cosa molto à la Laclau-Mouffe – ma questa è un’altra storia). And the winner is Silvia Ronchey, Perché siamo tornati analfabeti, Repubblica, 11 luglio 2019, con questo attacco fulminante:
Il 35 per cento degli adolescenti che hanno appena affrontato la maturità, uscendo quindi da un più che decennale cursus studiorum, non riesce a comprendere un testo di media complessità: leggono, ma non capiscono.
Massimiliano Manganelli, che ha editato un’edizione annotata del papello di Ronchey, commenta:
Se ne deduce che sono in ottima compagnia, giacché evidentemente l’autrice non conosce la differenza tra la maturità (che peraltro non ha più questo nome soltanto da diciannove anni) e l’esame di Stato conclusivo del primo ciclo, che si affronta al termine del primo ciclo di istruzione, ossia dopo un percorso di istruzione obbligatoria di otto anni. Sono comunque dettagli insignificanti, perché ciò che conta è la straordinaria catena di pensieri che scaturisce da questo piccolo fraintendimento.
L’integrale del testo glossati lo lascio al lettore [⇒ qui], con l’avvertenza che si raggiungono vette di rara comicità (che è un buon modo per ricordare, con una lacrima sincera e un sorriso, Mattia Torre). Del genere comico, però involontario, è la risposta di Repubblica, qui a destra.
Due giorni dopo Corrado Augias non riesce a trattenersi, e interviene anche lui su Repubblica, con Il tramonto della scuola un disastro per i giovani, in risposta alla lettera di una lettrice amareggiata che si definisce “figlia di insegnante” (nota personale: io ne ho due, di genitori insegnanti: il mio parere varrà il doppio?). Dopo aver citato D’Annunzio, mettendo le mani avanti (si cita un reazionario per non apparire reazionari, mentre in realtà si è reazionari), Augias affonda il colpo: «Un professore mio amico mi diceva che alle medie non si studia più analisi logica e grammaticale che è l’abc per cominciare a capire un testo». Di nuovo cedo la parola al glossatore Manganelli:
L’autore è sicuramente più democratico di Ronchey: ha persino un amico professore, non si sa di quale ordine di scuola. L’amico professore è di grande utilità: è come una sorta di coccarda da appuntarsi al petto per mostrare la propria convinzione democratica (“eh, ma io ho un amico professore!”), può fornirti dati e notizie sulla scuola, a volte magari ti può anche tinteggiare casa, durante i mesi estivi, naturalmente. Questa affermazione fa pensare che l’amico professore – il professore è il migliore amico del giornalista, dice il detto popolare – lavori in un liceo. È davvero notevole l’uso delle fonti: si utilizzano giustamente anche quelle orali, soprattutto per un’affermazione così importante. Dati, statistiche, indicazioni nazionali, libri, convegni, anni e anni di lavoro di docenti ed esperti di didattica sintetizzati in una sola frase: “alle medie non si studia più analisi logica e grammaticale”. Davvero mirabile.
L’integrale glossato è ⇒ qui (valgono le stesse avvertenze del precedente).
Ringraziando Manganelli, passo a un terzo papello, che in ordine cronologico è primo: Daniele Manca, La priorità negata: studiare (davvero), sul Corriere della sera (di cui è vicedirettore, non l’addetto alle fotocopie) del 9 luglio [⇒ qui]. In apertura tre squilli di tromba:
[a] Quasi la metà dei maturandi è “analfabeta” in matematica. [b] Un bambino su due in Calabria fa fatica a comprendere un testo in italiano. [c] Solo il 35% dei ragazzi che frequentavano il quinto anno delle superiori ha superato pienamente la prova d’ascolto dell’inglese.
La conclusione, regolando vecchi conti, si abbatte sul nemico, identificandolo in chi ha criticato e boicottato i test Invalsi (anche questa è un’operazione molto à la Laclau: creazione escludente del nemico a partire dalla totalizzazione discorsiva parziale):
Boicottaggio che continua ancora oggi e che è il simbolo di quell’Italia che non ama il merito, che non capisce come una sana competizione e concorrenza siano vitali per la crescita. Che è pronta persino a non riconoscere e valorizzare le sue eccellenze pur di crogiolarsi nella sua continua fuga dalla realtà alla ricerca perenne di alibi per poter non agire.
Ho letto commenti entusiastici a questo papello. Poi sono andato a vedere cosa dice il Rapporto:
- [a] Solo il 20% dei maturandi si colloca al livello 1, il più basso. Il 60% raggiunge, o supera, il livello 3 «corrispondente a un adeguato raggiungimento dei traguardi delle Indicazioni Nazionali» (vedi grafico a p. 76 del Rapporto Invalsi 2019);
- [b] Il 49% cui Manca si riferisce sono gli studenti che, in uscita dalla secondaria di primo grado (la vecchia terza media), non raggiungono il livello 3. Di questi, solo del 20% circa può esser detto che faticano a comprendere un testo, conseguendo il livello più basso del punteggio (vedi grafico a p. 47 del Rapporto Invalsi 2019);
- [c] Il 35% dei ragazzi delle superiori cui si riferisce Manca ha superato non una generica prova d’ascolto (listening), ma ha raggiunto il livello B2; del restante 65%, il 40% ha raggiunto il livello B1. Nota bene: sul reading, il B2 è conseguito dal 51%, e quasi il 40% raggiunge il B1: ma citare questo dato avrebbe indebolito l’intento polemico di Manca, che nell’argomentare la propria tesi deve aver pensato “tanto peggio per i fatti”.
Per chi non li conoscesse, ecco a cosa corrispondono i livelli B1 e B2, conseguiti dal 75% (listening) e 90% (reading):
B1 – Comprende i punti chiave di argomenti familiari che riguardano la scuola, il tempo libero ecc. Sa muoversi con disinvoltura in situazioni che possono verificarsi mentre viaggia nel paese di cui parla la lingua. È in grado di produrre un testo semplice relativo ad argomenti che siano familiari o di interesse personale. È in grado di esprimere esperienze ed avvenimenti, sogni, speranze e ambizioni e di spiegare brevemente le ragioni delle sue opinioni e dei suoi progetti.
B2 – Comprende le idee principali di testi complessi su argomenti sia concreti che astratti, comprese le discussioni tecniche sul suo campo di specializzazione. È in grado di interagire con una certa scioltezza e spontaneità che rendono possibile una interazione naturale con i parlanti nativi senza sforzo per l’interlocutore. Sa produrre un testo chiaro e dettagliato su un’ampia gamma di argomenti e spiegare un punto di vista su un argomento fornendo i pro e i contro delle varie opzioni.
Insomma, fra un livello B1 e il non comprendere “the cat is on the table” c’è una bella differenza.
Non è chiaro se Manca appartenga alla categoria di quelli che pensano di sapere più di quello che effettivamente sanno, o a quel novero di analfabeti funzionali che faticano a comprendere un testo complesso nel quale ci sono contemporaneamente parole e grafici.
Rimane il fatto che Ronchey, Augias, Manca, nello loro ansia di rincorrere Galli Della Loggia, confermano la veridicità delle parole di Tullio De Mauro citate sul manifesto da Vanessa Roghi [La lingua italiana non è perduta, 20 luglio 2019, ⇒ qui], una che ha tardato a intervenire – essendo di formazione storica, è ancora convinta che si debba leggere e studiare ciò di cui si parla (cosa di cui era convinto anche Lenin, per dire):
Dobbiamo uscire dall’innocenza e farci capaci di una valutazione critica di tutta l’informazione. Dobbiamo tenere conto del fatto che in materia di scuola e di lingua molti intellettuali e politici, dato che sono andati a scuola e a scuola ci va la sorellina o la nipotina, e dato che parlano, si sentono autorizzati a sparare panzane a ruota libera. Come se, per il fatto di vivere nel sistema solare, ci sentissimo autorizzati a dare pareri di astrofisica o, causa raffreddore, in materia di batteriologia e virologia.
In ogni caso: viste le basi dei loro papelli, di che stiamo a parlare? Non c’è bisogno di essere laureati a Yale, e neanche di essere idraulici, per sapere almeno una cosa sulla funzione dello sciacquone.
2. L’ordine del discorso statistico
Spoiler: “puoi disinteressarti dei numeri, ma non sperare che loro si disinteressino di te” (Éric-Emmanuel Schmitt)
Chi ha letto finora potrebbe avere l’impressione che, in ogni caso, i Rapporti Invalsi abbiano solide fondamenta: insomma, non è colpa loro se c’è chi parla di cose che non conosce – ma i dati sono fondati su certezze matematiche, sono una fotografia, o forse un termometro – comunque sono numeri, e i numeri NON SONO INTERPRETABILI.
Davvero?
Faccio finta di credere che la statistica sia applicabile ai contesti dinamici (su questo rimando ad Angelique Del Rey, ⇒ qui), e mi limito al solo modello statistico adottato dall’Invalsi: il “modello di Rasch”, dal nome del matematico danese Georg Rasch. Questo modello ha un indubbio vantaggio: la sua oscurità. È stato definito “una scatola nera in una scatola nera”: però, col tempo (il modello è del 1977, anno che peraltro ha visto anche cose buone), qualcosa dalla black box è filtrato.
In primo luogo, come riassume David Lognoli su ROARS [⇒ qui]:
Il sistema di valutazione dell’INVALSI è realizzato seguendo il modello di Rasch, un modello di psicometria per il quale, necessariamente, 1/3 delle prove è sotto un valore “soglia”. Per alcuni aspetti è come il modello dei percentili, insomma necessariamente il 50% degli infanti sarà sotto il 50esimo percentile, proprio perché la definizione di percentile è quella del valore sotto cui vi è la percentuale indicata. Nel caso delle prove INVALSI le domande sono selezionate ed adattate in tutto il processo di pre-test in modo che appunto l’esito dei test segua questa distribuzione. Questa selezione è pure una procedura costosa, oltre 20 milioni di Euro secondo alcune fonti. Dunque poiché il sistema di valutazione INVALSI è costruito in questo modo, 1/3 degli studenti non può che avere i suddetti risultati. Si verifica ciò che ci si aspetta si debba verificare. Pertanto non vi è alcuno scoop.
Commentando l’articolo, Giuseppe De Nicolao (direttore di ROARS) spiega:
La prima cosa da tenere a mente è che 200 non è un valore assoluto ma convenzionale (“la media dell’Italia”) e che anche l’unità di misura dei punti non è assoluta ma è definita in modo che 40 punti corrispondano a una “deviazione standard”, ovvero è agganciata alla variabilità dei punteggi ottenuti dagli alunni. Avere agganciato l’unità di misura alla variabilità nella popolazione degli alunni significa che, se i punteggi si distribuiscono secondo una campana gaussiana, il 35% degli alunni è destinato a finire sotto 184 punti. Infatti, se X è una variabile casuale gaussiana con deviazione standard SD, si ha che Pr(X< MEDIA – 0.4 SD) = 0.35. Dato che MEDIA – 0.4 SD = 200 – 0.4×40 = 184, risulterà Pr(X<184)=0.35.
E infatti nel 2018 la “soglia di analfabetismo” corrisponde a 185. Conclude Lognoli:
Portando il sistema agli estremi, se applichiamo tutta la metodologia INVALSI a un corpo di studenti che sono tutti premi Nobel comunque 1/3 risulterà sotto soglia e similmente se l’applichiamo a un corpo di veri e propri “somari” 2/3 risulteranno sufficienti anche se, magari, sanno a malapena leggere un testo lungo tre pagine.
Scoop? Manco per niente! Sono anni che gli stessi statistici mettono in discussione l’utilizzabilità di questo modello. Ad esempio, David Spiegelhalter, professore a Cambridge e statistico di fama mondiale [⇒ qui]; ad esempio, un’ottantina di accademici firmatari dell’appello OECD and PISA tests are damaging education worldwide [⇒ qui]. Ad esempio, Svend Kreiner dell’Università di Copenhagen, allievo di Rasch, che ha studiato l’applicazione di questo modello nei test OCSE-PISA – non ci facciamo mancare niente. In effetti, chi ha buona memoria ricorderà che i test INVALSI furono “venduti” (lo affermava il Quaderno bianco sulla scuola pubblicato nel settembre 2007 dai ministri Padoa-Schioppa e Fioroni) come metodo alternativo ai test internazionali non «in grado di cogliere i particolari profili della scuola italiana» (ib. p. 147): però il metodo è lo stesso. Torniamo a Kreiner. Che ha dimostrato come i risultati dei test PISA, e le posizioni in classifica (ranking) che ne scaturiscono, dipendono dal tipo di domanda somministrata allo studente testato [⇒ qui]. Sbavature? Giuseppe De Nicolao, nella nota introduttiva al saggio di Enrico Rogora Il modello di Rasch, cui rimando [⇒ qui], spiega:
Kreiner ha provato a fare dei calcoli per quantificare gli effetti di queste “sbavature”: la posizione del Regno Unito nel “Reading Test” 2006 oscillerebbe tra 14 e 30, quella della Danimarca tra 5 e 37, quella del Canada tra 2 e 25 e quella del Giappone tra 8 e 40. Se si trattasse di un termometro, ci sarebbe il rischio di confondere una febbre da cavallo con un congelamento. “The best we can say about Pisa rankings is that they are useless” conclude Kreiner.
Con buona pace di chi sostiene che il modello di Rasch sarebbe in grado di rispettare – unico fra i modelli statistici – la “proprietà dell’invarianza della misurazione”, che rappresenterebbe «una forma di “misurazione oggettiva”» (Giuseppe Giampaglia, Il modello di Rasch: potenzialità e limiti per le prove INVALSI, ⇒ qui). Lascio a Enrico Rogora la conclusione:
Il protocollo utilizzato dall’INVALSI per costruire un test definisce la variabile che si intende misurare. In altre parole, e questo è necessaria conseguenza del modello di Rasch, l’abilità matematica testata dall’INVALSI è l’abilità di risolvere i test INVALSI. Non voglio entrare nel merito se questo sia giusto o sbagliato, voglio solo osservare che necessariamente questo non è modificabile.
Lo stesso Giuseppe Giampaglia, nella conferenza nazionale per il decennale delle prove INVALSI (le cui slide sono pubblicate sul sito dell’INVALSI) ammette che c’è un ulteriore limite (rispetto a quelli già esaminati, che bypassa con disinvoltura):
Contrariamente a quanto si verifica nelle indagini empiriche, nelle applicazioni col modello di Rasch un campione piccolo è preferibile a un campione grande. Con campioni molto grandi o popolazioni (è il caso dell’INVALSI) migliora la precisione della stima dei parametri, ma, proprio a causa di questa maggior precisione, peggiora la congruenza tra modello e dati. Di conseguenza, per stimare abilità e difficoltà occorrerebbe impiegare campioni con ampiezza piccola, compresa tra i 400 e gli 800 casi (regola empirica). E non è sostenibile la tesi secondo cui questo problema dipende dal tipo di software utilizzato. È l’architettura del modello che purtroppo mostra questo limite [sottolineato mio].
Di nuovo: se queste sono le basi oggettive non interpretabili, di che stiamo parlando?
3. Governo disciplinare dell’istruzione e uso governamentale dell’ignoranza: stiamo parlando di questo
A giusta ragione, Vanessa Roghi confuta la metafora della fotografia (a quella del termometro abbiamo già provveduto):
Invalsi usa questa metafora da anni: il rapporto fotografa. L’idea è che la fotografia sia uno strumento neutro di lettura della realtà, neutro e incontrovertibile: se invalsi disegna un paese diviso in due, il paese è diviso in due. Non tireremo in ballo la filosofia per denunciare la prima deformazione prospettica: la fotografia sceglie il punto di vista, lo stesso oggetto, la stessa persona, lo stesso evento storico possono essere rappresentati in modi diametralmente opposti. Prendere per buona la metafora della fotografia è il primo grande errore. Invalsi non fotografa bensì racconta e lo fa in base a criteri del tutto opinabili: come è stato messo in luce da Cristiano Corsini [⇒ qui] fra gli altri, pretendere di valutare un sistema di competenze a partire da un sistema di misurazione che si fonda sull’accumulo di informazioni è in sé sbagliato.
E sottolinea che, a focalizzare la differenza nord-sud, si perdono di vista altre, più sottili differenze che segmentano la scuola italiana: città-campagna, ad esempio. Aggiungo: piccoli centri urbani-grandi città; centro-periferia; indigeni-migranti. Cose che c’erano già in Gramsci, e su cui hanno lavorato Luciano Ferrari Bravo e Alessandro Serafini. Insomma, la narrazione che si spaccia per fotografia distorce e falsifica la rappresentazione della realtà, dunque distorce e falsifica la realtà stessa.
A che scopo? Beh, qualche indizio già lo abbiamo, fra le righe.
Commentando «il responso da nonno in ciabatte davanti al camino di Augias», il gruppo Laudes, in un testo di grande spessore, Di nuovo sulla decadenza della scuola italiana [⇒ qui], individua tre «caratteri prototipici del discorso sulla decadenza della scuola»:
- l’idealizzazione del passato e la convinzione di un’età dell’oro della scuola italiana
- l’idealizzazione del topos imperituro della disciplina impartita un tempo da docenti e famiglie
- l’idealizzazione della didattica tradizionale, vale a dire mnemotecnica grammaticale, nozionismo, tassonomie vetuste, categorie storiche con un certo sentore di colonialismo.
In sintesi, la costruzione di un passato immaginario cui fare ritorno, dal momento che l’ordine del discorso neo-liberale presuppone che all’attuale presente non c’è alternativa (There Is No Alternative): è il realismo capitalista di cui ha scritto Mark Fisher, che genera un uso del passato come nostalgia di un futuro perduto, e una generalizzata “retromania”, cioè lo sguardo rivolto a un passato nostalgico e retrò nell’immaginario sociale. In questo caso, c’è un passato remoto cui ritornare, oltrepassando all’indietro quel cattivo passato che viene incarnato dagli spettri (non per caso l’ontologia di Fisher si configura come Hauntology, spettrologia) di don Milani e Tullio De Mauro. Sia chiaro: non si tratta di fare l’apologia acritica di De Mauro e don Milani, che, come tutti, hanno anche detto e/o fatto cose non condivisibili (rimando all’intervento di Giovanni Carosotti Competenze e sinistra? Contro il facile gioco degli opposti estremismi, ⇒ qui). Ma di cogliere il cuore del loro ordine del discorso educativo: la democratizzazione della lingua e dell’istruzione, del loro apprendimento e del loro uso in favore di un tempo futuro, nel quale le condizioni materiali delle disuguaglianze e delle segmentazioni saranno abolite.
Di cosa stiamo parlando, allora? Di due immagini.
La prima è un – absit iniuria verbis – grafico [qui a destra], che dimostrerebbe il rapporto fra la proliferazione dei negozi IKEA e l’adozione dei cambi monetari fissi (non è uno scherzo, giuro: vedi ⇒ qui). Non serve almanaccare quante regole dell’analitica e del buon senso siano state infrante in questo disegnetto: serve ricordare che il suo autore è presidente della Commissione Bilancio, Tesoro e Programmazione della camera dei Deputati. C’è bisogno di spiegare il nesso fra il terrapiattismo pseudo-economico di cui l’autore è uno degli esponenti di punta, e il pluridecennale attacco al diritto all’istruzione?
La seconda, è l’immagine che ho posto in testa a questo intervento. Quello storytelling che dice non solo la condizione del bambino migrante sgomberato da una casa (ex scuola, fra l’altro) nella quale era probabilmente nato, e nella quale – lo attestano i libri che si porta dietro – pratiche sociali e solidali gli garantivano il diritto all’istruzione; che dice il nulla verso cui è diretto, senza una destinazione garantita, senza alcun impegno per la continuità scolastica. Nella Roma il cui ministro dell’interno è il leghista Salvini, la cui sindaca è la pentastellata Raggi, il cui presidente della regione è il piddino Zingaretti.
Se avete bisogno di aiuto per unite i puntini rappresentati da queste due immagini e il discorso del Raporto INVALSI 2019, vuol dire che siete parte del problema. E che, per quanto vi crediate assolti, siete lo stesso coinvolti.