di SANDRO MEZZADRA.

La congiuntura politica globale non è certo favorevole alla nostra parte. Gli anni successivi alla crisi finanziaria del 2007/8 sono stati caratterizzati dallo sviluppo di significative lotte (il ciclo delle occupazioni delle piazze, lo scontro attorno all’austerity in Europa, per fare solo due esempi che ci riguardano da vicino). Non è certo che manchino le lotte e i movimenti, oggi. Ma indubbiamente, in molte parti del mondo, siamo di fronte a tentativi di imporre una stabilizzazione conservatrice, che spesso mobilita nazionalismo e autoritarismo per determinare una continuità e al tempo stesso una torsione disciplinare delle politiche neoliberali. Dalla Russia agli Stati Uniti, dalla Cina all’America Latina, dalla Turchia all’Egitto è facile trovare esempi di questa tendenza, che pare configurare un ciclo politico globale. La situazione europea contemporanea va collocata all’interno di questo quadro, certo prestando attenzione alle specifiche situazioni di aree e Paesi ma sottolineando al contempo i condizionamenti di un progetto di stabilizzazione conservatrice anche qui del tutto evidente su scala continentale. Questo progetto ha certo immediatamente i volti di Rajoy e Macron, nonché la sostanza della große Koalition, ma assume il suo carattere peculiare attraverso il rapporto di reciproca alimentazione che intrattiene con il “populismo di destra”.

Come interpretare questa congiuntura globale? È bene ripetere che l’analisi dovrebbe insistere sulle specificità delle diverse situazioni. Ma possiamo qui intanto avanzare una ipotesi molto generale, e cioè che la crisi del 2007/8 abbia determinato un esaurimento delle forme classiche di governo neoliberale che avevamo conosciuto fin dall’inizio degli anni Novanta dello scorso secolo. Le figure dell’auto-imprenditorialità, le partnership tra pubblico e privato, l’enfasi sulla concorrenza non vengono certo azzerate, sono tuttavia ricombinate all’interno di retoriche politiche e processi di governo che insistono su una riorganizzazione dei rapporti sociali attorno a forme di disciplina e a criteri di autorità in ultima istanza assai tradizionali. Il neoliberalismo assume così tratti marcatamente autoritari e, in particolare in Paesi che ambiscono a porsi al centro di blocchi regionali e continentali, nazionalistici. La tendenza globale verso un allargamento plateale della disuguaglianza trova in questo schema un dispositivo di contenimento e – appunto – di governabilità.

Non mi pare (come invece sembrano credere molti sostenitori del “populismo di sinistra”) che sia possibile agire all’interno di questo dispositivo per guadagnare spazi per la rappresentanza dei “ceti popolari” e per politiche sociali “progressiste”. Anche al di là della critica di ogni forma di nazionalismo, che rimane un compito politicamente essenziale, quella che ho sinteticamente indicato come combinazione di neoliberalismo e nazione si determina oggi, in forme molteplici e variabili, all’interno dei limiti radicali che sono posti dalle forme assunte dalla valorizzazione e dall’accumulazione del capitale. Da ormai molti decenni insistiamo sulla rottura di paradigma che si è determinata rispetto all’epoca del fordismo e del capitalismo industriale in genere (mentre mi sembra che buona parte della sinistra, in particolare in Europa, continui a immaginare sulla base dei parametri di quell’epoca tanto il soggetto della trasformazione, la “classe”, quanto le alternative, siano esse “riformiste” o “rivoluzionarie”). Ma oggi appare evidente il ruolo svolto, nell’assetto complessivo del capitalismo, da processi di valorizzazione del capitale (nella finanza come nella logistica, per limitarmi a due esempi particolarmente importanti) che estraggono direttamente valore dalla cooperazione sociale – saltando ogni mediazione. Sono questi processi, in primo luogo, a porre limiti precisi alle combinazioni emergenti di neoliberalismo e nazionalismo – e al ruolo svolto dallo Stato all’interno di queste combinazioni.

Qualunque sia la forma specifica che assume, la stabilizzazione conservatrice determina una radicale compressione degli spazi di libertà e di uguaglianza, consolida lo status quo e i rapporti di forza esistenti, erode ulteriormente la democrazia riducendola a un simulacro formale. Si tratta dunque di individuare i modi più efficaci per spezzarla, lavorando all’interno di situazioni specifiche ma scommettendo al tempo stesso sul fatto che singole rotture nella trama della stabilizzazione conservatrice possano dare luogo a concatenazioni globali e aprire una nuova congiuntura. In questione è ancora una volta il soggetto in grado di determinare questa rottura. Possiamo chiamare “classe” questo soggetto? Sono convinto che sia possibile e perfino necessario. Ma per fare questo dobbiamo prendere congedo dall’immagine tradizionale della classe, costruita in buona sostanza sulla base dell’esperienza della fabbrica e del movimento operaio. L’esperienza contemporanea dello sfruttamento è ben più larga e diversificata, ricomprende certo figure classicamente “operaie” ma attraversa anche reti complesse di cooperazione sociale, mette in discussione i confini tra produzione e riproduzione, lavoro manuale e lavoro intellettuale, lavoro produttivo e lavoro improduttivo. Certo, sarebbe necessaria un’analisi ben più precisa per meglio determinare il campo degli sfruttati e delle sfruttate: ma intanto possiamo dire che è dall’interno di questo campo profondamente eterogeneo che possono sorgere le sfide vincenti alla stabilizzazione conservatrice.

In Europa come altrove nel mondo vi sono oggi in particolare due movimenti particolarmente significativi in questo senso: i movimenti delle donne e i movimenti dei e delle migranti. Una sinistra che voglia essere all’altezza delle sfide del presente dovrebbe ripensare a partire da queste esperienze la propria azione e il proprio programma – non certo perché siano le uniche esperienze di lotta e conflitto oggi, ma perché i movimenti delle donne e i movimenti dei migranti pongono in modo immediato il problema della apertura che necessariamente deve caratterizzare oggi una politica che personalmente continuo a chiamare di classe. Sono movimenti che si collocano immediatamente sul terreno del “farsi” della classe e della cooperazione sociale, nella misura in cui da una parte investono il rapporto tra produzione e riproduzione mentre dall’altra interpretano in termini conflittuali l’esperienza della mobilità (che significa anche mobilità dei confini della cooperazione e del lavoro sociale). Riproduzione e mobilità sono terreni strategici, evidentemente, anche per il capitale contemporaneo: la stabilizzazione conservatrice agisce in modo violentemente disciplinare in particolare su questi due terreni. E qui incontra rifiuto e rivolta: una base materiale a partire dalla quale pensare nuove coalizioni e nuovi programmi per la trasformazione radicale dell’esistente.

* in corso di pubblicazione in tedesco in Prager Frühling Magazin

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