di COLLETTIVO EURONOMADE. A Pechino, partito il chiassoso militante per l’autonomia strategica (dell’Europa) Emmanuel Macron, arriva oggi il presidente brasiliano Lula. Si tratta di una visita di alto profilo, rinviata di un paio di settimane per la polmonite che aveva colpito Lula ma apparentemente preparata in ogni dettaglio. La composizione della delegazione è significativa: oltre alla consueta coorte di ministri, governatori e “top manager”, viaggia con Lula il presidente del Senato, del PSD (Partido Social Democrático), a segnalare l’intenzione di raccogliere il più ampio consenso attorno a quella che viene evidentemente considerata una priorità strategica per la politica brasiliana. In discussione, a Pechino, saranno in primo luogo accordi di cooperazione economica. E se pure non dovesse essere siglato un formale memorandum di intesa nel quadro della “Belt and Road Initiative” (il grande progetto cinese di globalizzazione attraverso logistica e infrastrutture), il viaggio di Lula a Pechino segnerà un approfondimento dei rapporti non solo commerciali tra i due Paesi.
Per dare un’idea delle questioni su cui si concentreranno le discussioni dei prossimi giorni, si può ricordare il progetto CBERS-6, la sesta generazione di satelliti costruiti congiuntamente da Cina e Brasile, di cruciale importanza secondo il governo brasiliano per il monitoraggio dell’Amazonia (mentre la Cina è pronta a lanciare 13.000 satelliti per costruire nell’orbita bassa una rete contro lo Starlink di Elon Musk). Commercio, investimenti, finanza e infrastrutture saranno pure al centro dei colloqui, con la Cina che mostra un interesse particolare per l’agricoltura brasiliana (e con il rischio che questo interesse si traduca in accordi per la promozione di monocolture come la soia e dell’allevamento intensivo di bestiame). Tecnologia 6G, semiconduttori e intelligenza artificiale – con la Cina che proprio in questi giorni ha avviato, con Alibaba e Baidu, la sua sfida a Chat GPT – saranno certamente al centro dell’attenzione della delegazione brasiliana.
Ma non si parlerà solo di questo, a Pechino. Nel corso della sua visita a Washington nello scorso mese di febbraio, Lula ha segnalato con forza l’intenzione del Brasile di giocare un ruolo autonomo nello sviluppo di una politica di pace rispetto alla guerra in Ucraina. Su questo punto cruciale, il confronto con l’iniziativa assunta da Xi Jinping sarà senz’altro intenso. La costruzione di una geometria variabile di relazioni al di fuori del mondo occidentale, o per essere più precisi del mondo che ruota attorno alla NATO, è una condizione essenziale per imporre alla stessa Russia (con cui evidentemente né il Brasile né la Cina intrattengono un rapporto di alleanza militare) in primo luogo un cessate il fuoco, e poi una pace coerente con le architetture di un sistema internazionale in vorticosa trasformazione.
La forma assunta dal dialogo di questi giorni è quella, prediletta dalla Cina, del confronto bilaterale. La Cina stessa, tuttavia, pone l’accento sulla necessaria formazione di coalizioni dei “Paesi in via di sviluppo” o del “Sud globale”. Rilevante, da questo punto di vista, è certamente il cartello dei BRICS, il cui quindicesimo vertice si terrà in agosto a Durban, in Sudafrica. Non sfugga che la visita di Lula a Pechino coincide con l’inizio del mandato di Dilma Rousseff come presidentessa della “Nuova banca di sviluppo” che ha sede a Shanghai e che ha senz’altro tra i suoi obiettivi quello di contribuire al processo di de-dollarizzazione. Si vede qui un nesso essenziale tra il rapporto con la Cina e la politica latino-americana di Lula, che punta tra l’altro alla ripresa del progetto di moneta unica a livello regionale. Se da questo punto di vista l’interlocutore privilegiato sembra essere l’Argentina (piagata da un’inflazione sopra il 100% e ormai entrata in un cruciale anno elettorale), sotto il profilo della politica di pace in Ucraina sembra piuttosto rilevante l’asse con il presidente colombiano Petro e con quello messicano López Obrador (contestato vigorosamente dai movimenti in patria ma molto attivo su scala regionale).
La visita di Lula a Pechino finisce così per aprire una prospettiva originale sulla questione dell’integrazione in America Latina. La presenza della Cina nella regione è ormai un dato irreversibile (a dicembre del 2021, venti su ventiquattro Paesi dell’America Latina e dei Caraibi avevano firmato accordi nel quadro della “Belt and Road Initiative”), e non ignoriamo che contribuisce all’approfondimento di un modello “neo-estrattivista”. D’altro canto, questa presenza coincide con quella, di ben più lungo periodo, statunitense ed europea. Il punto non può essere certo, se non “tatticamente”, giocare l’una contro l’altra schierandosi con l’una o con l’altra parte in una per ora fortunatamente solo immaginaria “nuova guerra fredda”. Si tratta piuttosto, appoggiandosi alle lotte e ai movimenti che continuano a segnare e a ridefinire lo spazio latino-americano, di lavorare per porre le condizioni di processi politici di integrazione che puntino immediatamente alla riappropriazione e alla redistribuzione della ricchezza. Come notavano in questi giorni, sul quotidiano argentino Página 12, Jorge Alemán e Diego Kling, in America Latina è vivo un “mito fondativo” che iscrive la politica (e dunque la prospettiva dell’integrazione regionale) nell’orizzonte della rivoluzione e della trasformazione radicale. Per vie molto traverse, la storia di quel mito può forse passare anche per le strade di Pechino in questi giorni.