di ELIANE BRUM.*
Pubblichiamo un articolo di Eliane Brum tradotto e introdotto da Stefano Rota e originariamente comparso su Transglobal.
Il 7 aprile 2018 si è verificato un fenomeno piuttosto raro: una esplicita richiesta da parte di un uomo in vita del riconoscimento di una sorta di trascendenza verso una dimensione non umana, verso una forma-mito. La richiesta è stata accolta da una larga parte della popolazione che lo sostiene, in ragione del ruolo importantissimo che ha svolto quest’uomo nella storia recente del proprio paese: si tratta di Luiz Inácio Lula da Silva e il paese è quindi il Brasile. Tutti noi che abbiamo visto nel laboratorio politico dell’America Latina dello scorso decennio una possibilità concreta di contrapposizione continentale al neoliberismo globale abbiamo messo post sui social network con foto che ritraevano Lula letteralmente sommerso dall’abbraccio del suo Popolo. Tutti noi che parliamo portoghese abbiamo seguito il discorso dell’ex presidente il giorno della sua consegna alla Polizia Federale – dopo aver assistito alla messa in suffragio della moglie – trasmesso in diretta anche dalla televisione portoghese. Forse molti, non tutti, sono rimasti un po’ colpiti dalla modalità discorsiva e dal linguaggio scelti da Lula. Nessuno, incluso il sottoscritto, ha sentito però il bisogno di rendere pubblico un certo disagio, perché il momento era drammatico: Lula andava difeso, punto e basta. Quella tragedia umana (umana!) che si apprestava a dispiegare la sua pagina più dolorosa, presentandogli un conto salatissimo e ingiustificato, è frutto di una macchinazione golpista orchestrata dai nemici politici che non gli avevano perdonato le misure sociali, economiche e politiche a favore dei ceti popolari e da sempre svantaggiati (ma non tutti!), come argine, molto parziale, invero, delle logiche sviluppiste e neoliberiste in cui è lanciato il paese; una macchinazione che lo aveva trascinato nel fango, tuttora senza prove concrete, dello scandalo di corruzione “Lava Jato”. Il 9 aprile, sull’edizione brasiliana di El Paìs esce questo articolo di Eliane Brum, che riportiamo qui tradotto. È un articolo lungo, ma vale la pena leggerlo tutto, perché di quella vicenda complessiva offre una lettura sobria, rotonda, facendo giustizia dei nostri imbarazzi e riportando al centro la caleidoscopica composizione e le contraddizioni di un paese, a cui Lula prima e soprattutto Dilma dopo, hanno offerto soluzioni a volte quanto meno imbarazzanti, creando delle fratture tra un Brasile e un altro, tra metropoli e Amazonia, tra sviluppo e diritti umani e non-umani, tra cittadini “sviluppabili” e lavoratori marginali, indigeni e negros delle favelas. E molto altro (Stefano Rota).
“Io non sono più un essere umano. Io sono un’idea”. La frase del discorso di L. I. Lula da Silva prima della prigione dal palco del sindacato dei metallurgici di São Bernardo do Campo, è già diventato celebre, come era programmato. Ma il simbolo di questo momento che passerà alla storia non è stato il discorso, ma piuttosto l’immagine presa dall’alto, in cui colui che aveva appena finito di proporsi non come candidato, ma come una leggenda, sembra mutuare la propria sostanza nella moltitudine che lo circonda. “Questo paese ha milioni e milioni di Lula”.
Il problema di colui che vuole essere un mito in vita è la vita stessa. La vita intralcia il mito. La vita ricorda al mito, giorno dopo giorno, che è umano, troppo umano. Questo è un pericolo per il mito. Consapevole di questo rischio, Getùlio Vargas (1882-1954) [politico progressista brasiliano della prima metà del secolo scorso] si suicidò, con l’accortezza di lasciare una lettera-testamento impeccabile dal punto di vista storico, in un ultimo slancio di genialità politica. Il Padre dei Poveri del Brasile del XX secolo sapeva che la vita ostacolava la leggenda.
Lula crede di poter essere un mito in vita, il corpo arrestato nella cella della Polizia Federale di Curitiba, mentre il mito attraversa il corpo della moltitudine. È in questa direzione che si sono rivolti gli sforzi principali di Lula, da quando la prigione si è manifestata come una possibilità sempre più concreta e vicina. Le frasi in questo senso sono state molte nelle ultime settimane; la più messianica è questa: “Loro si stano raffrontando con un essere umano differente: io non sono io, io solo l’incarnazione di un pezzetto di cellula di ognuno di voi.”
Il fatto che quella che è già diventata l’immagine storica del momento sia stata la foto scattata da sopra non è un dato qualunque. Da sopra c’è il mito, da sotto, nell’interno della moltitudine, ci sono le realtà e i sentimenti più umani. Ma la foto segna un punto importante, mostrando che Lula si intende di politica molto più di Sérgio Moro [giudice federale a capo dell’operazione Lava Jato], che scommetteva nella foto di Lula arrestato, sconfitto dall’operazione Lava Jato. Dovrà invece fare i conti con la foto di un mito tra le braccia del popolo. Non è un peso di poco conto per un uomo vanitoso come Moro, che aspira a un luogo di rispetto nella Storia. Nessuno vuole il posto di un Carlos Lacerda [politico brasiliano della metà del secolo scorso, conservatore e alleato delle forze interventiste dell’esercito, oppositore del candidato alle presidenziali nel 1950 per le forze progressiste Getùlio Vargas, ai cui danni orchestrò un attentato].
La storia, però, è un punto interrogativo, perché il passato è costruito nel futuro. Niente sembra più incerto del futuro del Brasile. La memoria di Lula è ancora oggetto di disputa.
Il futuro è imprevedibile anche nel modo in cui la memoria sarà costruita nel mondo che verrà. Non siamo ancora in grado di comprendere come internet ripercuote e cambia quello chiamiamo memoria. Il futuro del Lula storico no sarà determinato dai libri di storia scritti da accademici o da biografie fatte da giornalisti – o per lo meno non solo da loro – come accadde con Vargas e altre icone della traiettoria del Brasile. Questo rappresenta già un nuovo dato del momento. Solo più avanti sapremo se un martire di sinistra in carcere ha la forza che ebbe nel futuro del passato, quando internet non entrava nella costruzione delle narrazioni.
Lula è arrestato, non morto. Lula è ancora nel gioco del presente.
1. Il giorno più triste
Il 7 aprile 2018 è probabilmente il giorno più triste della storia recente. Per Lula, l’umano, e per tutti i brasiliani. Chiunque non avesse i neuroni infettati dall’odio – e una caratteristica dell’odio è quella di essere un idiota – è in grado di comprendere la gravità rappresentata da un politico che incarnava il progetto di per lo meno due generazioni di brasiliani, un progetto che assolutamente non appartiene solo a lui, essere accusato di corruzione passiva e riciclaggio di soldi. In più, essere arrestato per questo senza prove convincenti, nel momento in cui è al primo posto nelle intenzioni di voto per le elezioni 2018.
Qualunque brasiliano sarebbe in grado di comprendere l’abisso che questo rappresenta per il Brasile; la durezza di questo momento non per Lula, ma ciò che chiamiamo “noi”, che di fatto non esiste, o che esiste solo in alcuni momenti di sintesi.
Le pentole battute con forza alle finestre dei quartieri chic di São Paulo è il suono della nostra vergogna come paese, quella di coloro che hanno avuto il privilegio di studiare in un Brasile cosi diseguale e che non sono in grado di comprendere la gravità del momento storico. Questo odio mascherato di allegria è il volto contorto di una distorsione. Questo odio mascherato di allegria è osceno.
Ma queste sono le persone della parte alta, quelle che possono guardare e agire nel mondo senza uscire dalla loro finestra: il fatto che battano le pentole alla finestra, invece di scendere in piazza e lottare per lo Stato di Diritto, in un paese preso nella “eccezione come quotidiano” [è il titolo di un altro articolo della stessa Brum], è l’espressione del fallimento del progetto di riconciliazione che lo stesso Lula ha rappresentato, nonostante non fosse questo il progetto in cui credevano molti di coloro che lo avevano votato.
Abbiamo perso tanto il 7 aprile 2018, molto più del 7 a 1 [risultato di Germania – Brasile nella coppa del mondo del 2014]. Il modo in cui si è svolto il processo a Lula, molto più veloce degli altri, ha fatto sorgere dubbi sulla giustizia. Il giudizio dell’Habeas Corpus di Lula da parte del Tribunale Supremo Federale (TSF), votando un caso specifico invece di decidere sulla prigione dopo il giudizio di secondo grado, la chiara scissione del TSF durante il giudizio, la rapidità con cui Sérgio Moro ha decretato l’arresto, tutto questo ha fatto sorgere dubbi sulla giustizia.
Le istituzioni si sono sfasciate, non per l’interesse privato di alcuni, ma per ciò che dovrebbero rappresentare per la totalità dei brasiliani, al di là dei “sentimenti sociali”. Il TSF, affogato nella vanità e convertito in palco, si è rimpicciolito (ancora un po’ di più). La maledizione del protagonismo senza formazione politica, una delle piaghe dei nostri giorni che raggiunge anche giudici e procuratori, ha ridotto ancor più la sensazione di giustizia. E quello di cui il Brasile non aveva bisogno in un momento così delicato era un incremento di dubbio sulla giustizia.
2. Una replica al generale
L’intervento del generale Edoardo Villas Bôas, comandante dell’Esercito Brasiliano, alla vigilia del giudizio dell’habeas corpus, è stato un affronto alla democrazia. Ma essendo il governo che sta al potere un affronto alla democrazia per la sua stessa esistenza, il generale non ha ricevuto nessuna punizione. Così come il governo al potere è il risultato di un impeachment senza fondamento legale, della deposizione di una presidente pessima, ma legittimamente eletta, allo stesso modo il generale continua attivissimo. Così come il governo è capeggiato da un presidente, Michel Temer (PMDB), impantanato in denunce di corruzione, circondato da un ministero che in parte è una banda, altri militari minacciano la democrazia e non succede niente con loro. Di tutte le trasformazioni introdotte dai social network, nessuno poteva immaginare che il Brasile potesse essere infestato da “Generali di Twitter”. Nel suo palesarsi su Twitter alla vigilia del giudizio di un ex-presidente da parte della Corte Suprema, il generale ha affermato: “Assicuro la Nazione che l’Esercito Brasiliano intende condividere il desiderio di tutti i cittadini per bene per il ripudio dell’impunità e rispetto della Costituzione, pace sociale e Democrazia, così come si mantiene vigile alle sue funzioni istituzionali”.
Sì, generale, brasiliani come me rivendicano da decenni che i militari e agenti civili che assassinarono, sequestrarono e torturarono migliaia di persone in Brasile, inclusi bambini, al servizio dello Stato e durante la dittatura che durò 21 anni siano esaminati, denunciati, giudicati e responsabilizzati. Io e molti ripudiamo l’impunità degli assassini, sequestratori e torturatori del regime di eccezione che si è installato quando i militari hanno messi i carri armati nelle strade, appoggiati da una parte della società civile.
Ho scritto in questo spazio che la corrosione della democrazia attuale si deve in parte alla mancanza di memoria sulla dittatura. E la memoria si fa solo attraverso la responsabilizzazione. Con assassini, sequestratori e torturatori, in uniforme o in borghese, che circolano liberamente per la strada, il paese capisce che la vita umana vale molto poco. E questo è un dato storico del Brasile, fondato sui corpi degli indigeni e dei neri, accentuato dall’impunità dei criminali, con le conseguenze che stanno sotto gli occhi di tutti.
È già trascorsa da molto l’ora di chiudere con l’impunità per quegli agenti. Ma invece di questo, lei, generale, che ha appena ripudiato l’impunità su Twitter, ha chiesto una specie di amnistia preventiva per i militari che oggi prendono parte all’intervento federale a Rio de Janeiro, perché non siano responsabilizzati quando uccideranno civili: “I militari hanno bisogno di una garanzia di non trovarsi di fronte a una nuova Commissione per la Verità nei prossimi 30 anni, per quello che andiamo ad affrontare a Rio durante il nostro intervento”.
Quindi, generale, il nostro concetto di “cittadino per bene” è differente: non uccide, non tortura e non sequestra; non difende l’impunità di assassini, torturatori e sequestratori, in divisa o no, al servizio dello Stato o no. Il cittadino per bene non punta una baionetta alla gola del TSF. Lei è un funzionario pubblico, pagato dai cittadini e la Costituzione di ce che il suo intervento è stato indebito.
3. Quanto abbiamo tutti perso
Se la vita che viene potrà intralciare Lula nel suo proposito di trasformarsi in leggenda, il mito in cui Lula vuole trasformarsi intralcerà la vita dei brasiliani. Lula ha controllato l’iconografia della sua prigione. Così facendo, le contraddizioni del Lula umano sono state spente dal Lula mito. I suoi oppositori possono essere riusciti a impedirgli di candidarsi alle elezioni del 2018, in cui egli è in testa nelle intenzioni di voto, ma non sono riusciti a far sì che questo apparisse come un atto di giustizia per una parte significativa della popolazione, accentuando la crisi del paese e ostacolando ancor più la possibilità di dibattere, con la necessaria serietà, il multiplo e contradditorio lascito di Lula.
Ci sono molti che battono nelle pentole e vestono la maglietta della Seleção, ma molti no. E molti critici del governo di Lula e di Dilma Rousseff si sono sentiti nauseati per il modo in cui il processo è stato gestito dalle istituzioni. Se non si comprendono le contraddizioni di Lula al potere (e di Dilma, da lui scelta come erede) diventa difficile costruire un nuovo progetto della sinistra, capace di tenere insieme una parte del paese. E anche a destra, quella seria, si dovrebbe desiderare che esista un nuovo progetto della sinistra, perché essenziale per la democrazia.
Il Brasile governato da Lula ha avuto un aumento reale del salario minimo, una significativa riduzione della miseria, l’ampliamento dell’accesso all’università, miglioramenti importanti nel Sistema Sanitario, “quote etniche” (un’azione affermativa essenziale, ancorché timida), garanzie di credito per i più poveri. Non è poco, e si farà sentire in Brasile per molti decenni. Le principali voci odierne di resistenza dalle periferie urbane nascono da questa esperienza e da questo accesso a un mondo prima a loro barrato. La realtà di un operaio che occupa il potere attraverso il voto in un paese come il Brasile ebbe un impatto sulla vita dei brasiliani non misurabile, perché in gran parte soggettivo, ma certamente enorme. Questo fece Lula e nessun può toglierglielo.
Ma il Brasile governato da Lula, soprattutto nel secondo mandato e proseguito da Dilma, si è alleato con tutto ciò che c’era di peggiore nell’oligarchia brasiliana, ha indebolito i movimenti sociali, a ceduto davanti questioni come la de-criminalizzazione dell’aborto e legalizzazione delle droghe, ha avanzato in modo minimo (nel caso di Dilma, addirittura, retrocedette) nella regolarizzazione fondiaria e demarcazione delle terre indigene e aree di conservazione, la popolazione carceraria in condizioni di tortura è aumentata, nel mantenere la politica fallimentare di “guerra alla droga”, ha criminalizzato manifestanti e manifestazioni, e, in fine, ha fatto le gradi opere idroelettriche dell’Amazonia – Santo Antonio e Jirau sul fiume Madeira e Belo Monte sul Xingu – scatenando processi di grave violazione dei diritti umani, accentuando la deforestazione e la contaminazione dei grandi fiumi amazzonici. Inoltre, importante, nel suo progetto di riconciliazione, Lula non mise mano alle rendite dei più ricchi.
La visione di Lula per l’Amazonia non è diversa da quella della dittatura civile-militare (1964-1985). Una visione di colonizzazione e sfruttamento. Ha provocato una grande distruzione, tuttora in corso, dei popoli della foresta, di umani e non umani.
Lula è un uomo radicato nel XX secolo e sembra riuscire a vedere il mondo se non in termini di capitale-lavoro. Si è rivelato incapace di comprendere altre forme di vita, se non quelle mediate dal lavoro, né altre forme di felicità che non fosse fare il barbeque il fine settimana, birra al bar e una macchina in garage.
Come uomo dell’ABC Paulista [regione industriale dello stato di São Paulo,dove Lula si affermò come sindacalista], molto più che come ragazzino del semiarido nordest, fino agli ultimi discorsi difendeva le macchine nelle strade, invece del trasporto pubblico collettivo e di qualità. Il suo governo e soprattutto quello di Dilma hanno zittito le voci della foresta e il modo di vivere nella foresta, quello che c’era di più originale nei “Brasili”. Lula venne avvisato, ma non fu mai capace, o non ebbe mai la convenienza di ascoltare.
Ci sono diversi Lula, incluso il leader assoluto del partito che si è corrotto al potere, come altri partiti che l’hanno preceduto. Non è un dato di poco conto, perché il PT è stato appoggiato da almeno due generazioni di brasiliani per essersi impegnato a portare l’etica nella politica. Si è eletto dicendo che non poteva sbagliare. Ha sbagliato, e molto.
Con il diritto senza giustizia che ha segnato la sua prigione, le contraddizioni si spengono nello sforzo del mito. Ma non devono e non possono spegnersi. Non certo per una questione di vendetta, come vogliono tanti opportunisti, ma perché è urgente ricostruire un progetto per il paese e non si crea un progetto senza includere tutta la complessità di un’esperienza importante quale è stata quella del PT al potere.
Nel caso di Lula, il Brasile è sottomesso ai sentimenti. Chi odia Lula, come incarnazione di tutti i mali, evidenzia solo una parte. Chi ama Lula, anche come atto disperato per non vedersi di fronte alle rovine di un progetto che tanto ha amato, si dimostra incapace di vedere l’altra parte. È shoccante leggere analisi della sinistra che credono possibile scrivere del momento, negando la corruzione evidente del PT al potere e di ciò che Belo Monte ha causato per la vita dei più indifesi. Allo stesso modo, è shoccante vedere Lula demonizzato da persone che hanno beneficiato enormemente dal suo governo, un governo che non solo ha lasciato i poveri meno poveri, ma anche i ricchi più ricchi.
Con la sensazione che la prigione sia un’ingiustizia, la scissione tra “i Lula” continua e diventa sempre più difficile unire tutti i pezzi di questo rompicapo di questa esperienza di potere, incluse e specialmente le sue contraddizioni. Senza contare che per la parte della sinistra, sia che si è sentita tradita, sia quella che tardivamente ha cominciato a sentirsi limitata, la creazione di un martire può rappresentare il migliore dei risultati. Le domande difficili, quindi, vengono rinviate per, forse, un tempo che non verrà: sia quelle che ognuno deve fare a se stesso, sia quelle che devono essere fatte e dibattute in pubblica, come espressione collettiva. Questo costante rinvio delle domande difficili è una tragedia in più per un paese che vive di spasmi dal 2013. Senza quelle domande difficili, il Brasile continuerà girando a vuoto. Può essere un bene per il mito Lula, così come per altri candidati alla forma-mito e i loro ego giganteschi, ma è una rovina per il Brasile e per i brasiliani.
4. Ciò che desidererei per Lula e per il Brasile
Io crederei nella giustizia in Brasile se in primo luogo gli agenti di Stato che assassinarono, sequestrarono e torturarono durante dittatura civile-militare venissero giudicati e puniti. Se tutti quelli che sono responsabili per il genocidio quotidiano di giovani neri nelle periferie urbane, della polizia e non, venissero giudicati e puniti. Se gli assassini di Marielle Franco e Anderson Gomes fossero denunciati, giudicati e puniti. Se tutti i mandanti e sicari che uccidono ambientalisti e difensori dei diritti umani, piccoli agricoltori, indigeni, abitanti dei fiumi, quilombolas [nome dato agli ex schiavi che si rifugiavano in accampamenti nella foresta] nell’Amazonia, venissero investigati, denunciati, giudicati e puniti.
Crederei nella giustizia in Brasile se tutti i reclusi senza condanna venissero liberati e lo Stato pagasse un indennizzo per il periodo che furono imprigionati senza processo. Crederei nella giustizia se tutte le donne arrestate per aborto venissero liberate. Se nessuno venisse arrestato per aver piccole quantità di droga nelle favelas e nelle periferie e le azioni si concentrassero su chi realmente lucra con il mercato illegale di droga e armi.
Crederei nella giustizia se tutti i corrotti di tutti i partiti, a partire da quelli che stanno oggi al governo a al Congresso, venissero giudicati e arrestati. Se tutti i corrotti del settore privato venissero giudicati e arrestati, al pari di quegli imprenditori che hanno collaborato con l’assassinio, il sequestro e la tortura durante la dittatura civile-militare.
Crederei nella giustizia se la ministra rosa Weber venisse criticata per aver sospeso con un’ingiunzione, quattro giorni prima di Natale, gli effetti espansivi per la proibizione dell’amianto in Brasile. Lei, che tanto difende le decisioni collegiali, ha preso una decisione monocratica. Nel mentre, l’amianto, che ha ucciso migliaia di brasiliani nei decenni ed è proibito in Europa e in vari paesi del mondo, continua a essere prodotto e commercializzato negli stati in cui non è proibito: la maggioranza.
Crederei nella giustizia in Brasile se i brasiliani chiedessero a Lula e a Dilma per quale ragione non hanno mai portato avanti seriamente la messa al bando dell’amianto, che ha ucciso e fatto ammalare – e continua ancora oggi – lavoratori poveri dell’industria, lavoratori la cui vita, per lo meno Lula, dovrebbe conoscere.
Crederei nella giustizia in Brasile se Lula e Dilma fossero giudicati responsabili per la violazione dei diritti umani e non umani nella foresta amazzonica, soprattutto per la costruzione di Belo Monte. Ci crederei, se ai brasiliani importasse qualcosa di questo.
Vorrei che Lula si candidasse e che venisse sconfitto per quello che ha fatto nello Xingu e in altri fiumi amazzonici, per la Força Nacional mandata, dalla sua prescelta Dilma Rousseff, per reprimere gli operai in sciopero nel cantiere Belo Monte, per impedire il diritto di manifestazione degli indigeni e abitanti del fiume nel cantiere di Belo Monte. Per i piccoli agricoltori e poveri urbani che hanno firmato con un dito fogli che non erano capaci di leggere, affinché Belo Monte potesse essere costruita senza “ostacoli” umani. Per l’etnocidio indigeno causato da Belo Monte nella regione dello Xingu. Crederei nella giustizia in Brasile se Lula venisse sconfitto per aver realizzato Belo Monte nello Xingu e, con esso, aver prodotto poveri nella periferia di Altamira.
Se accadesse questo, una sconfitta al voto in nome dei diritti umani e dei popoli della foresta, il Brasile avanzerebbe. Ma questo non accade nel Brasile attuale.
Anche così, desidererei che Lula fosse candidato e disputasse le elezioni nel processo democratico. E probabilmente le vincerebbe, per la semplice e legittima ragione che la maggioranza cominci a rendersi conto che la vita era migliore con il suo governo: i brasiliani sono dei sopravvissuti, e molto pragmatici. Vorrei anche che Lula fosse candidato e fosse eletto per far sì che le persone debbano fare i conti con il fatto che poco gli interessa della corruzione, nel momento in cui la loro vita sia quantomeno accettabile. Ma soprattutto vorrei che fosse candidato per far sì che le persone siano obbligate a confrontarsi con una votazione ed elezione a presidente di chi ha reso possibile Belo Monte. Debbano quindi confrontarsi con la sua ipocrisia piena di verbi e buone intenzioni, protetti dalla distanza che li separa da quelli che muoiono vario modo nello Xingu e nell’Amazonia. Debbano quindi confrontarsi con il suo modo selettivo di intendere i diritti umani.
Il Diritto senza Giustizia ha però bloccato il processo dei desideri.
5. Intorno all’umano
La mistica che ha preceduto la prigione – messa + discorso – venne attentamente pianificata, affinché Lula ritornasse quello che adesso non è più. Il Lula che condusse gli scioperi all’ABC Paulista, fondò il PT, fece le Carovane della Cittadinanza. Il linguaggio, i gesti, il contenuto: ma quello che non è più, non può tornare a essere.
Ci sono, tra un Lula e l’altro, almeno 8 anni di potere diretto, come Presidente, più i cinque e mezzo di Dilma, senza contare la Lettera al Popolo Brasiliano, nelle elezioni del 2002. Il discorso risuonava, come accade da un po’ di tempo, di un’imitazione del Lula giovane da parte del Lula vecchio, ma in un mondo adesso differente. Come alcune stupidaggini sulle donne che appaiono imbarazzanti, le battute abituali per i sostenitori e una specie di conversione in Gesù. Questo è il Lula che era e che adesso non è, senza che questo impedisca che il discorso muova e commuova molta gente che vorrebbe che lui fosse quello che oggi non può più essere. In questo senso, quello di Lula è stato più un discorso di azzeramenti, il che è fondamentale per chi pretende uscire da lì come un mito, più che di costruzione. Per questo la foto assume quell’importanza. La domenica è trascorsa con vari messaggi di WhatsApp: “Questa è la foto ufficiale e Lula chiede che sia la più diffusa. Avranno la foto che tanto desiderano. Lula arrestato avrà il popolo”. Non si sa se fu lui a inviarla, ma è certo che Lula fu sempre un ottimo biografo di se stesso. È senza dubbio affascinante questa costruzione mitologica da vivo.
Come effetto immediato, l’atto più importante del discorso è stato quello di lanciare simbolicamente Guilherme Boulos (PSOL) e Manuela D’Ávila (PCdoB) come suoi eredi, sigillando un’unione delle sinistre in questo momento di soglia. Entrambi sono pre-candidati alle elezioni presidenziali del 2018. Boulos rappresenta una delle forze più potenti in questo momento: il movimento dei senza casa nelle città, che in una certa misura occupano lo spazio che era del Movimento Sem Terra di Lula. Manuela incarna la potenza del nuovo femminismo, mostrando nel vissuto della politica anche un’esperienza diversa di maternità. Sono i due profili più interessanti della nuova politica.
Il gesto marca anche l’abisso del PT [i due candidati appartengono a due partiti diversi da PT]. In buona parte a causa dell’onnipresenza di Lula, non c’è nessuno all’interno del partito che possa rappresentare il futuro e porsi come leader di un’alleanza a sinistra. Lula non permise la nascita di un nuovo Lula nel PT.
Ma è stato un gesto bello – se c’è una scena che merita in questo momento è quella di Guilherme Boutos e Manuela D’Ávita insieme. Ora devono dimostrarsi capaci di misurarsi con la foresta e gli altri modi di vivere dei “Brasili”.
Capire l’uomo Lula, così come l’esperienza del PT al potere, è più importante e urgente per il paese di costruire un mito. Se non si accolgono le contraddizioni, il Brasile proseguirà con “davanti un enorme passato”, nonostante tutto quello che ha rappresentato l’arrivo di un operaio al potere.
* Eliane Brum è scrittrice, reporter e documentarista, autrice di saggi e romanzi [Site: desacontecimentos.com; Email: elianebrum.coluna@gmail.com; Twitter: @brumelianebrum/ Facebook: @brumelianebrum]
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