Di SANDRO MEZZADRA
I mercati finanziari sono spesso assurti a vera e propria icona della globalizzazione. Le immagini di Wall Street, o l’edificio della HSBC nella Statue Square a Hong Kong, sembrano rimandare senza soluzione di continuità a centinaia di centri finanziari sparsi nelle città del globo. Le architetture imponenti e lisce, l’umanità seriale che le popola, la frenesia senza oggetto apparente che la contraddistingue producono l’effetto di un modello replicabile indipendentemente dai contesti, senza variazioni significative. L’omogeneità è certo un carattere costitutivo delle operazioni finanziarie: e tuttavia, come hanno mostrato negli ultimi anni soprattutto i lavori di etnografi e antropologi, nel momento in cui la finanza “tocca terra” i suoi mercati si organizzano in modo di volta in volta peculiare. La stessa funzione di guida e comando del capitale finanziario nel capitalismo contemporaneo ne risulta condizionata e orientata.
All’interno della corrente di studi indicata si inserisce il bel libro di Giulia Dal Maso, Risky Expertise in Chinese Financialization. Returned Labor and State-Finance Nexus (palgrave macmillan, pp. 225). Da tempo impegnata in studi sul campo in Cina, Dal Maso affronta il problema della finanziarizzazione con caratteristiche cinesi all’interno di una più generale riflessione sulle specificità della “modernità” cinese. Il volume è in particolare caratterizzato da un’attenzione per i processi di traduzione che, tanto storicamente quanto nel presente, caratterizzano il rapporto della Cina con l’Occidente: lungi dall’assumere, ad esempio, il “neoliberalismo” come cornice generale di analisi della finanziarizzazione, Dal Maso sottolinea il diverso significato che assumono in Cina concetti come “privatizzazione”, “liberalizzazione” e “mercato”. E invita a guardare piuttosto al modo in cui alcuni tratti neoliberali sono selettivamente combinati all’interno di uno specifico paradigma di governo della società e dell’economia.
Al centro del libro sono gli haigui, le “tartarughe di mare” che dopo un periodo di formazione nelle “Business Schools” occidentali ritornano in Cina per avviarsi a una carriera nel mondo della finanza. La ricerca etnografica è stata condotta a Shanghai, da sempre “un’area di confine tra la Cina e il resto del mondo” e dunque in qualche modo affine a soggetti sociali come gli haigui, anch’essi sospesi tra due mondi. Del resto, siamo qui di fronte a una figura emblematica, considerata la grande importanza attribuita dal governo cinese alla formazione all’estero dei giovani di talento, per favorire l’importazione (la traduzione in senso letterale, si potrebbe dire) di saperi occidentali in Cina. Questo specifico circuito migratorio è infatti completamente costruito e controllato dallo Stato.
Si diceva delle peculiarità dei mercati finanziari cinesi, al cui interno gli haigui aspirano a inserirsi. Conviene in primo luogo segnalare una diversa origine dei processi di finanziarizzazione, che certo anche in Cina sono oggi un tratto costitutivo del capitalismo. Mentre in Occidente la finanziarizzazione che conosciamo oggi prese avvio sul finire degli anni Settanta (il cosiddetto “Volcker schock” del 1979) per aprire nuove opportunità di valorizzazione a fronte di un drastico declino dei profitti industriali, in Cina è stata proprio l’esplosione del capitale industriale dopo le riforme di Deng Xiaoping a creare le condizioni per la finanziarizzazione. In secondo luogo, il ruolo dello Stato nel governo dei processi di finanziarizzazione è in Cina decisamente diverso rispetto all’Occidente, per quanto Dal Maso metta brillantemente in evidenza come lo Stato stesso finisca essere coinvolto e trasformato dalla razionalità e dalle logiche della finanza.
L’aspetto forse più interessante del libro consiste in ogni caso nell’analisi dei limiti del modello finanziario cinese e delle potenziali linee di frattura e conflitto che ne emergono. Gli haigui, di ritorno in Cina, trovano infatti crescenti difficoltà a trovare occupazioni soddisfacenti, e fanno esperienza di una sostanziale sproporzione tra le conoscenze acquisite e la possibilità di metterle a valore sul mercato. Più in generale, si trovano a muoversi in un mercato del lavoro profondamente cambiato negli ultimi anni e caratterizzato dalla fine del lavoro salariato “libero” come standard.
È un punto molto importante, sottolineato ad esempio nei suoi scritti recenti dall’antropologo Xiang Biao: ed è un sintomo delle radicali trasformazioni che la Cina sta attraversando dopo la fine dell’epoca in cui si era posta come la “fabbrica del mondo”. Gli haigui si trovano così a contatto, nonostante la loro formazione di élite, con quelli che Wang Hui chiama i “nuovi lavoratori”, soggetti mobili che passano da un’occupazione all’altra e che costituiscono un elemento fondamentale della composizione di classe metropolitana. Inoltre, gli haigui finiscono per accostarsi a un’altra figura chiave della finanziarizzazione con caratteristiche cinesi, ovvero i sanhu, la “moltitudine eterogenea” di piccoli e piccolissimi investitori le cui operazioni finanziarie sono state incoraggiate dallo Stato “come reazione a un mercato del lavoro sempre più precarizzato e al ridimensionamento dei servizi di welfare”.
La riflessione sulle implicazioni politiche di questi sviluppi attraversa l’intero libro di Dal Maso. Più in generale, la sua tesi è che “attraverso il processo di finanziarizzazione la Cina stia costruendo un nuovo modo, o una nuova forma di capitalismo”. A me pare che Risky Expertise in Chinese Financialization sia un libro davvero importante, perché consente di riflettere sui conflitti e sulle tensioni che attraversano la Cina nella tumultuosa fase di transizione che sta attraversando. E mai come oggi possiamo dire che la Cina è vicina.
Questo articolo è stato pubblicato su il manifesto il 22 luglio 2021.