Nel rapporto di lavoro e nel mercato, un catalogo di diritti uguali per tutti: appunti per la discussione

a cura di CLAP – Camere del Lavoro Autonomo e Precario (Roma)

Riprendiamo un intervento delle Clap di Roma che ci sembra molto importante. Nasce come contributo al  dibattito attorno alla “Carta dei diritti e dei principi del lavoro autonomo e indipendente”, ma pone problemi di carattere ancor più generale. E’ possibile oggi, contro la frammentazione degli statuti lavorativi, elaborare una nuova “teoria monistica”, un modo complessivo di leggere “tutto” il lavoro, il lavoro sans phrase? Cosa significa oggi “universalismo” per un nuovo modello di diritto del lavoro e per un nuovo welfare? Ci sembrano domande essenziali per discutere dell’effettivo superamento delle trappole corporative, dello sviluppo delle nuove forme di sindacalizzazione, del rapporto tra la scrittura collettiva delle “carte dei diritti” e i processi di “politicizzazione del sociale” che i nuovi esperimenti di coalizione stanno producendo.  (EN)

…………………………………..

Quello che segue è un contributo alla discussione della “Coalizione 27 febbraio” ma non solo. Un tentativo di pensare le pretese del lavoro autonomo dentro la radicale trasformazione del mercato del lavoro e delle sue norme, in Italia come in Europa. Senza questo sguardo d’insieme, infatti, si rischia di non afferrare compiutamente le istanze universalistiche necessarie per una mobilitazione capace di incidere. Le spinte alla frammentazione giuridica che animano il legislatore, soprattutto in Italia, sono del tutto funzionali alla frattura corporativa del lavoro, dei suoi interessi e delle sue lotte. Ma, dove vige la frammentazione, lì prevale la competizione, lì la solidarietà scompare.

 

1. Breve premessa, ovvia quanto importante: non siamo il think tank di Confindustria né la Commissione Lavoro della Camera. Quindi, qualunque nostra idea, proposta, desiderio non ha alcuna chance di divenire reale se non attraverso il conflitto – collettivo – che riusciremo a mettere in atto. L’articolato finale che completa le nostre riflessioni – che chiaramente vogliono sollecitare e rafforzare l’implementazione della Carta dei diritti e dei principi del lavoro autonomo e indipendente della “Coalizione 27 febbraio” – non potrà che vivere ed essere verificato nelle mobilitazioni reali, nel rapporto di forza che queste saranno in grado di conquistare. Non si tratta, perché sarebbe sbagliato oltre che poco ambizioso, di stilare una lista della spesa, da mettere in gioco in un negoziato fragile con la controparte istituzionale. Si tratta, piuttosto, di comprendere come e dove si colloca il lavoro autonomo nello “sfondamento” neoliberale messo in atto dal Governo Renzi (e Poletti). Di lì, avviare l’offensiva.

 

 

Assumiamo come (fin troppo) noto quanto accaduto in epoca fordista: primato della subordinazione, del regime del salario, diretto e differito, della contrattazione collettiva. Al di fuori di questo recinto, segnato dalla forza delle lotte operaie, il professionismo liberale e il lavoro autonomo di artigiani e commercianti. Questa fase, come ormai altrettanto noto, è stata seguita dal cosiddetto postfordismo, che ha animato la stagione del «diritto del lavoro dell’emergenza». Il lavoro subordinato prosegue formalmente identico, eppure comincia l’erosione del suo primato: l’introduzione di tecnologie flessibili, il decentramento produttivo e la globalizzazione, la moltiplicazione delle tipologie contrattuali, la disoccupazione come fenomeno strutturale. In questo processo, si afferma un lavoro autonomo di nuova generazione (come indicato, in modo puntuale e pionieristico, da Sergio Bologna nei primi anni Novanta), fortemente connesso al ciclo espansivo della New Economy e del capitalismo cognitivo/informazionale. Soprattutto in Italia, dove gli investimenti in innovazione e ricerca sono bassissimi, la grande industria si volatilizza, sostituita dalla piccola e media impresa, il bacino del lavoro autonomo, del professionismo atipico come di quello ordinista, è segnato, fin da subito, da un significativo impoverimento: redditi bassi e una vera e propria esclusione dal welfare e dalle protezioni sociali. Contemporaneamente, ma con maggiore forza dall’inizio della Grande Depressione nel 2008, questo scenario viene ulteriormente aggravato da una massiccia precarizzazione del lavoro subordinato, dal punto di vista della regolamentazione normativa e retributiva.

 

Con il governo Renzi – anche simbolicamente – si chiude la transizione. Venuta meno ogni capacità di resistenza del lavoro dipendente, la subordinazione è totalmente svuotata del catalogo di diritti che ne caratterizzava la tipologia contrattuale. Da una parte, con il Decreto Poletti (maggio 2014), si liberalizza il contratto a tempo determinato; dall’altra, con il contratto a tutele crescenti (Jobs Act, marzo 2015), scompare il lavoro stabile, viene abrogato l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, sostituito da una risibile indennità economica a fronte di licenziamento illegittimo. Viene definitivamente mortificato l’apprendistato, indebolendo ulteriormente le misure volte a garantire la certezza della formazione e si liberalizza la somministrazione. Contemporaneamente, il portato gerarchico e disciplinare proprio del lavoro subordinato si rafforza oltre misura: si pensi all’introduzione del diritto (datoriale) di unilaterale demansionamento e la possibilità di utilizzo illimitato del controllo a distanza tramite gli strumenti di lavoro quali tablet e cellulari. Allo svuotamento dei diritti soggettivi del lavoratore si accompagna l’attacco a quelli collettivi. Il lavoro sporco, al momento, è lasciato all’accordo tra le parti sociali, ma, visti i magri risultati fin qui raggiunti, è imminente l’intervento legislativo. Delrio lo ricorda quotidianamente. Obiettivo: neutralizzare il diritto di sciopero, consentendone il ricorso solo qualora vi sia «un’unica posizione dei lavoratori, incarnata da un unico sindacato che sarà l’unico a poter legittimamente proclamare agitazioni e scioperi». Ancora: ampiamente rilanciati i contratti di lavoro cosiddetti parasubordinati. Ad esempio si sopprime il progetto, che costituiva un meccanismo anti-fraudolento all’abuso delle collaborazioni coordinate e continuative, e si allargano a dismisura le maglie per il ricorso ai voucher. Di conseguenza, come chiarisce Luca Ricolfi, editorialista di punta del Sole 24 ore, nonostante i 12 miliardi spesi dalle tasche pubbliche per garantire alle imprese la decontribuzione per le assunzioni o trasformazioni con contratti a tutele crescenti, crescono i lavoratori precari (tempo determinato, voucher, parasubordinati).

 

La violenza di tali misure innalza il livello di ricatto cui è sottoposto il lavoro vivo, rendendo i diritti esistenti non solo residuali, ma anche inesigibili di fatto. E la conseguenza di tutto ciò è sicuramente un rafforzamento dei dispositivi di controllo e disciplina sulla forza-lavoro, e un impoverimento della stessa con pochi precedenti. Tale svuotamento delle guarentigie conduce a un processo di parziale ri-subordinazione:

 

* sostanzialmente nel lavoro autenticamente autonomo. Il Ddl Concorrenza, ad esempio, attualmente in discussione alle camere, impone alla più tradizionalmente autonoma delle professioni ordiniste, quella forense, una pesante prospettiva di ri-subordinazione tramite l’ingresso dei capitali negli studi. Dopo l’abrogazione dei minimi tariffari, si chiude il cerchio del declassamento degli avvocati, che divengono mano d’opera a basso costo dei contraenti forti (imprese, banche e assicurazioni);

 

* e anche formalmente nel “falso” lavoro autonomo, con il comma 1 dell’art. 2 del Decreto Legislativo n. 81/2015, che così recita: «a far data dal 1° gennaio 2016, si applica la disciplina del rapporto di lavoro subordinato anche ai rapporti di collaborazione che si concretano in prestazioni di lavoro esclusivamente personali, continuative e le cui modalità di esecuzione sono organizzate dal committente anche con riferimento ai tempi e al luogo di lavoro»;

 

allegribronzini2

 

Volendo riassumere, i mutamenti in atto ci consegnano il seguente scenario:

 

* eliminazione e/o neutralizzazione dei diritti, sia individuali che collettivi, del lavoro subordinato;

* espansione dei contratti precari (a termine, co.co.co., in somministrazione, voucher, ecc.);

* declassamento e impoverimento del lavoro autonomo, sia del professionismo atipico che di quello ordinista.

 

Ma non basta ancora. Vale la pena ricordare la diffusione smisurata del lavoro gratuito. Non solo EXPO, e lo scempio reso possibile dalla complicità di CGIL-CISL-UIL: tanto nel lavoro cognitivo quanto in quello di servizio, di cura, affettivo, si infittiscono senza posa le prestazioni non pagate. Così come, spesso e volentieri anche quando i contratti ci sono, i datori non pagano, siano essi committenti pubblici o privati. E di lavoro non retribuito, o scarsamente retribuito, si innervano le grandi istituzioni formative, dalla scuola all’università: gratuita, quasi sempre, la prestazione di chi fa ricerca; gratuito il lavoro di chi rimbalza da un stage all’altro.

 

2. La vulgata mediatica, utilizzata a piene mani per legittimare le misure che hanno condotto allo scenario di cui sopra, muove dalla sacrosanta e improcrastinabile necessità di assegnare diritti al lavoro parasubordinato e a quello autonomo impoveriti. Soggetti esclusi per oltre un ventennio – occorre ricordarlo – dai diritti, dal welfare e dalla rappresentanza/difesa sindacale. Nel rispondere al problema, però, il Governo fa della questione generazionale un’arma contro le tutele di tutti, contrapponendo la miseria (attuale e futura) dei giovani alla presunta abbondanza (di garanzie) riservata agli over 50. Fin dall’autunno del 2014, Renzi promuove uno scambio: far fuori lo Statuto dei lavoratori del 1970 per estendere gli ammortizzatori sociali (Naspi) alle partite Iva. Lo diciamo subito: a nostro avviso tale scambio era ed è assolutamente sbagliato, da contrastare. In ogni caso, a oggi si è solamente tolto, e forse prossimamente qualcosa si darà al lavoro autonomo, ma sicuramente si tratta di misure assai insufficienti.

 

L’unico intervento previsto dal Governo dopo l’erosione dei diritti operato nel perimetro della subordinazione è il Ddl N. 2233, estensore il Professor Del Conte, ora presidente dell’ANPAL (L’Agenzia Nazionale per le Politiche Attive del Lavoro). Come dice il titolo, il Ddl dovrebbe introdurre «Misure per la tutela del lavoro autonomo non imprenditoriale». Occorre, in primo luogo, dare atto che la proposta legislativa del Governo entra finalmente nel merito di alcune questioni sollevate dai movimenti dei freelance e dalle associazioni professionali che, da anni, si battono per l’introduzione di un catalogo di tutele per il lavoro genuinamente autonomo. Partendo dalla corretta distinzione, operata nell’articolo 1, tra lavoro professionale e impresa, facciamo specifico riferimento alle norme che prevedono:

 

* l’introduzione di interessi moratori in caso di mancato pagamento e di contrasto alle pratiche abusive dei committenti, ciò attraverso il richiamo del Dl 231/2002;

* la deducibilità, nella misura del 100% (fino a un tetto di 10.000 euro l’anno), delle spese di formazione;

* l’accesso ai Fondi europei.

 

Per il resto ci pare che le misure proposte, quando non sono marginali (ad esempio l’accesso alle informazioni), appaiono ridondanti, fotografano cioè una situazione già esistente. È un errore, invece, la modifica al sistema di tutela della maternità. Quest’ultima (evidentemente applicabile ai soli rapporti di lavoro continuativi e caratterizzati da una pluralità di prestazioni successive) consiste nel rendere facoltativa l’astensione dal lavoro per il periodo attualmente coperto dall’istituto del congedo obbligatorio (5 mesi a cavallo del parto, che possono essere utilizzati o 2 mesi prima e 3 dopo, o 1 mese prima e 4 dopo, a seconda della scelta della donna e delle sue condizioni di salute). Il Ddl, infatti, interviene sul Testo Unico sulla maternità (Legge 151/2001) in modo da consentire, per le lavoratrici iscritte alla Gestione separata INPS, la possibilità di usufruire dell’indennità per il suddetto periodo «a prescindere […] dalla effettiva astensione dall’attività lavorativa», ovvero anche se continuano a lavorare. Questa novità modifica in forma sostanziale, nella tutela della maternità, il rapporto tra tutela economica (indennità di maternità) e tutela della salute psicofisica della lavoratrice (astensione obbligatoria), segnando anche una netta diversità rispetto alle lavoratrici dipendenti per cui l’opzionalità del ricorso all’astensione non è consentita. È nostra convinzione, infatti, che la non obbligatorietà dell’astensione determinerà condizioni di maggiore ricattabilità per tutte coloro che lavorano in mono o ridotta committenza e con bassi compensi, dal momento in cui, per loro, è oltremodo difficile, se non impossibile a volte, autodeterminare tanto le condizioni di lavoro quanto i tempi delle proprie prestazioni. In assenza di qualsiasi tutela rispetto al recesso contrattuale privo di giusta causa, tra l’altro, il peso del ricatto non può che farsi schiacciante proprio perché l’astensione, facoltativa o obbligatoria che sia, espone al rischio di ritorsiva risoluzione del contratto. A ciò si aggiunga che, in caso di malattia o infortunio, non si prevede alcuna prestazione, ma la sola sospensione dell’esecuzione del contratto. Anche in questo caso è evidente che, mancando qualsivoglia tutela contro il recesso ritorsivo, l’esercizio della sospensione sarà davvero di difficile attuazione.

 

Dunque le misure proposte dal Ddl appaiono insufficienti rispetto alle tante aspettative ingenerate dal Governo, e soprattutto rispetto alle necessità urgenti di tutela del lavoro autonomo. E, a fronte di questa insufficienza, nel testo in esame viene reiterato lo scambio nefasto tanto caro a Renzi. Si inserisce nel secondo Titolo la disciplina del «lavoro agile», l’ennesima misura di precarizzazione del lavoro dipendente introdotta in via pattizia, ovvero tramite l’apposizione di specifiche clausole al rapporto subordinato in essere (cosa molto “agevole”, vista la massima debolezza contrattuale di lavoratrici e lavoratori). Tali misure “mimano” la disciplina del telelavoro, già da tempo esistente, limitandosi a prevedere che la prestazione possa svolgersi in parte nei locali aziendali e in parte all’esterno. A fronte di tale circostanza minima e generalizzabile, il datore di lavoro acquista la facoltà di licenziare la lavoratrice o il lavoratore ad nutum, senza il ricorrere di alcun tipo di causale o ragione, dovendo solo darne preavviso trenta giorni prima. Nessuna sanzione dunque è immaginabile in caso di licenziamento illegittimo, perché il licenziamento è sempre e comunque previsto liberamente. Quindi, con il Jobs Act, il contratto di lavoro subordinato a tutele crescenti elimina l’art. 18 dello Statuto dei lavoratori, prevedendo una somma di denaro risibile in caso di licenziamento illegittimo, ma chiaramente tale disciplina si applica solo alle nuove assunzioni. Per i rapporti di lavoro accesi prima del disastro renziano? Ora finalmente, in via pattizia, si potrà licenziare con “agilità” senza alcuna tutela in caso di recesso illegittimo. Esattamente come si può recedere liberamente da un rapporto di lavoro autonomo.

 

Non contento, il Governo fa di più, un Ddl dedicato ai poveri. Si estende a livello nazionale il Sostegno di Inclusione Attiva, sperimentato finora in 12 città. Una caritatevole (750 milioni per il 2016, 1 miliardo per il 2017) misura di workfare, rivolta esclusivamente alle famiglie che versano in condizioni di povertà assoluta. Mentre si riducono radicalmente le risorse per gli ammortizzatori sociali (Naspi, Asdi, DIS-COLL). Alla faccia dell’estensione universalistica delle tutele presentata da Renzi nell’autunno del 2014.

 

3. Un piccolo passo in avanti, per farne diversi indietro. Ma allora occorre rovesciare la nostra debolezza, la debolezza del lavoro precario, intermittente, autonomo, facendone una forza d’attacco e, soprattutto, ricompositiva. Dobbiamo, in primo luogo, percorrere la strada opposta a quella percorsa in questi ultimi venti anni dai sindacati tradizionali. Il dualismo del mercato del lavoro, tanto caro a Confindustria e alle centrali confederali, è stato ormai fatto saltare… dall’alto! Se nei fatti si moltiplicano le figure del lavoro e dello sfruttamento, sul piano dei redditi e dei diritti si afferma un vero (drammatico) terreno comune: povertà e assenza di tutele. Conquistare i diritti universali del lavoro sans phrase, dentro il rapporto lavorativo e nel mercato, è l’orizzonte di lotta all’interno del quale far vivere pratiche e rivendicazioni plurali.

 

Dal punto di vista del diritto del lavoro, oggi più che mai è importante tornare a una concezione monistica del lavoro, riprendendo le migliori elaborazioni degli anni Novanta (Ghezzi, D’Antona, Alleva, ecc.) e in aperta ostilità con la frammentazione normativa imposta dal legislatore. Tale necessità muove dall’esigenza di imporre, con il conflitto, un catalogo di diritti (se non uguale) uniforme, capace di non abbandonare tipologie contrattuali in una sorta di no man’s land, in balia dell’abuso strategico da parte del Capitale (la cattura del desiderio di libertà per promuovere lavoro autonomo senza diritti o, viceversa, l’utilizzo della diffusa ricerca di garanzie e stabilità per costringere alla subordinazione con tutele inesigibili).

 

Appare quindi fondamentale affermare una robusta unificazione sia delle lotte che degli strumenti giuridici destinati a regolare l’insieme delle prestazioni di lavoro e le condizioni professionali di chi le compie. Individuare dunque il lavoro senza aggettivi quale centro gravitazionale, cui poi far seguire, attraverso lo snodo di differenti processi di qualificazione, un’articolazione da genus a species, associandovi una correlativa modulazione dell’intensità e della specificità dei diritti secondo un’architettura che è stata felicemente immaginata per «cerchi concentrici»: il perimetro più ampio, deve prevedere tutele universalistiche e delwelfare; quello immediatamente più interno, tutele specifiche per il lavoro autonomo debole ed economicamente dipendente; infine, il più ristretto, per i rapporti d’opera in connessione funzionale con l’organizzazione del datore di lavoro (le collaborazioni coordinate e continuative) e i rapporti di lavoro subordinato intesi in senso proprio. Quanto a tale cerchio più ristretto la nostra proposta non potrà che essere l’equiparazione dei diritti a eccezione degli istituti incompatibili con le collaborazioni coordinate e continuative (orario, potere disciplinare e ius variandi).

Occorrerà dunque delineare un catalogo di tutele comuni, che si andranno arricchendo mediante un patto aggiuntivo con il maggiore inserimento del lavoratore nell’organizzazione dell’impresa, ovvero introducendo il contratto di lavoro con patto di inserimento nell’organico di impresa. Ovviamente appare ancora più essenziale ridare piena efficacia al catalogo dei diritti che ne (al contratto) conseguono. Sarà fondamentale una rilettura dello stesso (catalogo), capace di affrontare la contemporaneità e le istanze di liberazione che la animano. Quindi è necessario mettere radicalmente in discussione anche gli istituti tipici della “catena di comando”, insita nel sinallagma contrattuale subordinato, come ad esempio le modalità di esercizio della supremazia gerarchica di controllo disciplinare, o introdurre misure in grado di garantire la flessibilità del lavoro in favore della lavoratrice e del lavoratore.

 

Per quanto attiene al cerchio immediatamente più esterno, che come visto non attiene ai co.co.co., è decisivo introdurre una efficace regolazione delle forme di genuino lavoro autonomo caratterizzate dalla «dipendenza economica» del prestatore. Ciò nell’ottica di dare dignità e diritti a tutte le forme di «lavoro personale» e, segnatamente, sottrarre il lavoratore autonomo impoverito, contrattualmente debole e in condizione di committenza “ristretta” o monocommittenza, dalla pura e semplice regolazione attraverso il mercato. Quando ci riferiamo al lavoratore autonomo in condizioni di dipendenza economica ovviamente facciamo riferimento a forme di lavoro veramente autonome, la cui definizione richiama parametri relativi alla dimensione del prestatore sul mercato e alla dipendenza contrattuale (e quindi, come sopra detto, alla totale o prevalente monocommittenza). Quindi ci riferiamo a un soggetto che predispone la propria attività lavorativa secondo criteri organizzativi non eterodiretti, che detiene i mezzi di produzione, assume su di sé responsabilità e rischio, dove il risultato della prestazione non appartiene immediatamente al committente, ma è il prodotto dell’attività professionale del lavoratore indipendente. Dunque intendiamo muoverci dentro il chiaro perimetro della locatio operis. Una locatio operis “minore”, gravata da vincoli socio-economici che non garantiscono al prestatore di agire nel mercato in libertà. Dentro tale perimetro contrattuale, spesso, vi sono rapporti di lavoro continuativi, caratterizzati da una pluralità di prestazioni successive. Tale ambito di intervento è evidente, ha un senso se riferito a professioni sia ordiniste che atipiche (va da sé che è quindi necessario intervenire sia sui regolamenti ordinisti che sulla normativa IVA).

carta1

 

Chiarito il campo, è possibile entrare nel merito del catalogo, utile a completare e implementare, come abbiamo chiarito fin dall’inizio, la Carta elaborata dalla “Coalizione 27 febbraio”. Partiamo dunque dalla distinzione dei:

 

a) diritti nel rapporto di lavoro/condizioni contrattuali;

b) diritti nel mercato/welfare;

c) diritti collettivi.

 

a) Diritti nel rapporto di lavoro

 

* Il contratto. È necessario introdurre una tipicizzazione del contratto di lavoro autonomo, imponendo la formalizzazione di alcuni elementi essenziali. Al fine di fornire al prestatore di lavoro un programma negoziale definito ex ante, garanzia affinché si realizzi un migliore equilibrio contrattuale:

 

a) una descrizione dettagliata e specifica dell’opera o servizio richiesto dal committente;

b) la data di inizio del rapporto, la durata del contratto e/o i tempi di consegna dell’opera o del servizio;

c) il corrispettivo pattuito, indicando se sono compresi o esclusi l’IVA, gli oneri previdenziali, gli eventuali rimborsi spese e la loro quantificazione;

d) i tempi e le modalità di pagamento;

e) i termini di preavviso e le causali di recesso.

 

Da ultimo, pare davvero opportuno associare un eventuale termine del contratto alla sussistenza di causali oggettive e preesistenti che ne legittimino l’apposizione.

 

* Equo compenso ed estensione del salario minimo legale alle collaborazioni autonome. Tale ratioestensiva trova precisa giustificazione (anche sul piano dei valori costituzionali, ex art. 35 e 36 della Costituzione) in ragione della particolare situazione di dipendenza economica del collaboratore. Stabilire, dunque, un compenso proporzionato alla quantità e qualità del lavoro svolto. Là dove la previsione del salario minimo legale non trovasse traduzione, o trovasse applicazione quella forma di salario miserabile previsto dal Jobs Act e attualmente rimasto inattuato, sarà necessario prevedere, anche in mancanza di contrattazione collettiva specifica (pur auspicabile), che il compenso del collaboratore non possa comunque essere inferiore, a parità di estensione temporale dell’attività oggetto della prestazione, alle retribuzioni minime previste dai contratti collettivi nazionali di categoria, applicati nel settore di riferimento alle figure professionali il cui profilo di competenza ed esperienza sia analogo a quello del collaboratore.

 

* Introdurre meccanismi di garanzia dei pagamenti. È necessario immaginare la costituzione di fondi di garanzia cui poter attingere in caso di mancato pagamento e incapienza/irreperibilità del committente. Occorre andare oltre la previsione degli interessi moratori prevista dal Ddl Del Conte, introducendo penali ex lege per la mora credendi, ricalcando la disciplina sui ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali: un termine unico di trenta giorni. Da ultimo, è necessario prevedere il privilegio dei crediti da lavoro autonomo allo stato passivo di un eventuale fallimento dell’azienda/committente.

 

* Limitare il recesso alla sussistenza della giusta causa o del giustificato motivo nei rapporti di lavoro continuativi. In caso di recesso ingiustificato il committente dovrebbe corrispondere al collaboratore autonomo un’indennità che, coerentemente con quanto disposto dall’art. 2227 C.C. in tema di recesso dal contratto d’opera, copra il corrispettivo per l’attività svolta, le spese e il mancato guadagno, oltre che un’indennità di importo uguale ai compensi percepiti (o che si dovrebbero percepire) sino al momento del recesso a titolo di risarcimento del danno.

 

* Introduzione di norme a tutela della parità e della non discriminazione in conformità con la Direttiva 2002/73 CEE, la quale estende a tutti coloro che svolgono un’attività professionale la possibilità, per gli Stati membri, di mantenere o adottare «misure che prevedano vantaggi specifici diretti a facilitare l’esercizio di un’attività professionale da parte del sesso sottorappresentato ovvero a evitare o compensare svantaggi nelle carriere professionali». La medesima Direttiva, inoltre, prevede che il principio di parità di trattamento si applichi anche all’occupazione e alle condizioni di lavoro e ciò in quanto la stessa Corte di Giustizia si riferisce alla «condizioni di lavoro e retributive» riguardo alle attività indipendenti.

* Applicazione delle norme di tutela contro gli infortuni e malattie. Oltre la sospensione del rapporto contrattuale a causa di malattia, infortunio e gravidanza previsto dal Ddl Del Conte, occorre applicare al lavoro autonomo la piena disciplina in materia di salute e sicurezza sul lavoro, che ha la sua origine proprio nel rapporto di dipendenza economica e, quindi, di debolezza contrattuale, e che implica una sorta di integrazione funzionale con l’organizzazione del committente. Occorre, infine, prevedere l’erogazione delle indennità previdenziali a tutela delle predette causali di sospensione del rapporto di lavoro.

 

b) Diritti nel mercato

 

Rinviamo interamente alle proposte elaborate dalla Carta della “Coalizione 27 febbraio” in materia di:

 

* estensione universalistica delle tutele e reddito minimo garantito;

* correttivi solidaristici al sistema previdenziale contributivo e pensione minima di cittadinanza;

* estensione degli ammortizzatori sociali (DIS-COLL);

no tax area;

 

Aggiungiamo:

 

* assegni formativi individuali;

* prestazioni previdenziali in caso di sospensione dell’attività. Malattia, gravidanza, maternità, paternità, infortunio, cura e assistenza famigliari.

 

c) Diritti collettivi

 

Diritti sindacali. Ovviamente ciò implica la necessità di introdurre norme democratiche di rappresentanza e regole di contrattazione;

Diritto di sciopero. Tema decisivo, essendo, per il lavoro autonomo o parasubordinato, in generale precario, molto complicato pensare e praticare forme efficaci di sciopero. Ulteriormente decisivo, perché ultimo e definitivo bersaglio del Governo Renzi e di Confindustria.

Download this article as an e-book