Di ALISA DEL RE
La grande crisi finanziaria e politica dei movimenti, tra il 2007 e il 2008, ha contribuito alla necessità di ripensare i termini che definivano l’orizzonte del cambiamento: la parola «patriarcato» è fra questi. Bisognava indagare il vecchio ordine del discorso, mettendo dei punti fermi per poter costruire qualcosa di inedito: una specie di critica del presente, senza domandarsi come sarebbe stato il futuro, cosa inventarsi nel vuoto. Il disegno di una alternativa, per la verità, c’era già, ed era imposto dalle lotte delle donne, che comportavano il vivere altrimenti.
Valeva e vale lo stesso per l’uso di tutte le parole chiave che si sono via via trasformate in gabbie, e che nella loro ripetitività sono diventate nocive? Vale per tutti gli orizzonti? Anche volendo uscire da luoghi non più comuni, che è giusto aggiornare, bisogna farlo freddamente, nella consapevolezza del fatto che questo porta con sé un implicito giudizio politico negativo sui movimenti. Le revisioni si fanno quando la situazione è stabile, quando tutto è calmo e sentiamo la necessità di ripartire. Oggi, invece, l’impressione è che si tratti, più che di una rimessa in discussione, di un’esigenza di catarsi da parte di chi è escluso da quei processi messi in atto dai movimenti femministi.
DUNQUE: COSA C’È DI FERMO e «freddo» nella questione del patriarcato? Il terreno su cui esso impera non è in crisi: c’è un conflitto permanente, sotterraneo e pubblico, che vede alcuni soggetti in lotta. Ridiscuterne adesso i termini sarebbe come rimettere in discussione il concetto di «rivoluzione» nella Francia del 1789. Non possiamo dire alle donne argentine, alle donne iraniane, alle donne afgane, a tutte le donne che lottano nel mondo, in quanto nuova classe operaia della riproduzione, che il patriarcato è un concetto obsoleto, da rivedere.
Contenitore di tutti i luoghi percorsi che vanno dai movimenti alle lotte per una trasformazione sociale, dalla guerra al salario all’aspirazione alla piena occupazione, il patriarcato appare come lo sfondo (potremmo dire l’Impero?) dentro e contro cui si coagulano tutte le aspirazioni al cambiamento. C’è chi dice, e fra loro Massimo Cacciari, che il patriarcato è finito perché non c’è più la figura del pater familias, e che questo tipo di gerarchia è in crisi già dall’inizio dell’età moderna. Sappiamo che la famiglia patriarcale è un prodotto storico. Il cambiamento è l’esito di sommovimenti sociali, di lotte, di modificazioni personali e collettive dello stare al mondo.
Ma alcuni cambiamenti sono molto recenti: tanto per fare una cronologia domestica, in Italia solo con il nuovo diritto di famiglia (1975) il padre-padrone ha smesso di avere il diritto di punire anche fisicamente moglie e figli; solo nel 1981 è stato abolito il delitto d’onore e solo nel 1996 entrava in vigore la legge contro la violenza sessuale, stabilendo che lo stupro è un reato contro la persona, e non contro la morale. La Corte europea dei diritti umani ha condannato già sette volte lo Stato italiano per non aver protetto le donne vittime di violenza e i loro figli. E questo per quanto riguarda la famiglia, in cui effettivamente è cambiato con drammatica rapidità il ruolo maschile, senza che questo abbia ridotto o eliminato l’esercizio diffuso della violenza.
ANCORANDO IL TERMINE «patriarcato» alla famiglia, se ne usa tuttavia un’accezione ristretta, mentre esso si è sviluppato come sistema di comando-controllo su tutta la società. È un sistema di potere che va letto in chiave intersezionale. Si fa una confusione riduttiva se si considera solo l’istituto famigliare: il patriarcato è pervasivo e va visto come costruzione del dominio maschile nei rapporti sociali, con valori attribuibili all’«uomo forte».
Vi sono inoltre (e sono molto diffusi) tentativi di individualizzare i comportamenti di dominio e di spiegare come le tragedie cui assistiamo quotidianamente siano frutto di maschilità deboli, che nulla condividerebbero con il patriarcato. Ed è proprio qui il paradosso: è il patriarcato che costruisce stereotipi di maschilità e femminilità irrealistici a fronte dei quali i singoli individui, a qualunque genere appartengano, non possono che sentirsi inadeguati. Se il femminismo ha portato a una consapevolezza maggiormente diffusa tra le donne di questo risvolto e dell’ampiezza dei possibili diversi modelli femminili, manca il raggiungimento di altrettanta consapevolezza tra gli uomini, ancora alle prese con un modello di maschilità che non lascia margini legittimi quando ci si trovi in condizioni di fragilità e difficoltà.
Secondo questa linea interpretativa, la cultura maschilista, figlia naturale dell’ideologia del patriarcato, non sarebbe più in una posizione dominante. E questo avverrebbe così, per caso, grazie allo sviluppo lineare della società, bypassando il femminismo e le lotte mondiali delle donne. Massimo Recalcati ha individuato due aspetti: l’odio sessuofobico, per esempio diffuso nella società iraniana, dov’è palese il tentativo di cancellazione del corpo femminile; e un legame procrastinato sine die con la madre, che renderebbe i figli maschi deboli, fragili insicuri. Fattori che rimettono al centro una responsabilità negativa femminile, sia che si tratti di avere un corpo che disturba, sia che si enfatizzi un «materno» affettivamente limitante. In ogni caso, sono tentativi di distinguere i comportamenti di dominio, analizzando i fatti individuali in maniera impolitica, senza cogliere l’opera in corso della rivoluzione femminista.
ANCHE ALCUNE ANALISI FEMMINISTE hanno affermato la fine del patriarcato, ma solo dal punto di vista dell’impatto prodotto dai cambiamenti determinati dalle lotte delle donne, con la consapevolezza che la profondità della trasformazione richiederà tempo e forse farà paura. È un mutamento che misuriamo oggi con l’astensione dal lavoro riproduttivo che le donne di tutto il mondo, o quasi, hanno finalmente attivato, partendo dal controllo del proprio corpo rispetto alla maternità: ciò ha comportato una rottura del patto riproduttivo, che fondava la loro collocazione subalterna all’interno della famiglia e nella società (e tuttavia, ancora oggi, sono molte le donne con figli costrette ad abbandonare il lavoro salariato). Ridisegnando la sfera della riproduzione, le lotte hanno esteso l’idea di lavoro a tutto quello che serve per vivere, e così i soggetti in campo, un campo di battaglia scelto e non imposto dai rapporti di forza precedenti, hanno bisogno di venire ridefiniti.
Il patriarcato implica che tutte le istituzioni importanti della società siano gestite attraverso la profilazione del potere maschile, la cui gestione si materializza nel tempo con caratteristiche facilmente individuabili: dai comportamenti maschilisti alla guerra, dalla divisione del lavoro alle differenze di retribuzione, dalla ferocia dei femminicidi alla privatizzazione dei servizi sociali. Lungi dall’essere il residuo di epoche passate, il patriarcato ha capacità trasformative e apparentemente inclusive che possono ingannare, per esempio la glorificazione delle donne madri (che ha attraversato tutte le ideologie conservatrici, in particolare i fascismi del ‘900).
TUTTE LE FORME DI DOMINIO che pervadono oggi la società sono annidate nel patriarcato, che è in sodalizio con il capitale, e può contare sul lavoro riproduttivo gratuito e sui differenziali salariali, garantiti dalle fratrie nel potere; sulla violenza delle guerre e su una costruzione piramidale della società che nega una struttura orizzontale delle relazioni. Le giovani donne si sentono oggi più a rischio, proprio perché sono più libere: hanno un orizzonte più complesso di quello che apparteneva alle ondate femministe precedenti, e l’uso che fanno del termine patriarcato è incluso in battaglie che si espandono a raggiera contro di esso, a partire dalle loro condizioni sociali e esistenziali. Ci metteremo a ridefinire cos’è oggi il patriarcato solo in un domani in cui il cambiamento sociale in atto grazie al femminismo avrà trovato compimento.
Questo articolo è stato pubblicato su il manifesto il 29 dicembre 2023.