di GISO AMENDOLA.*

1. Nella politica moderna, almeno nel suo filone maggioritario, quello nato attorno all’esperienza dello stato sovrano, rappresentanza, sovranità e popolo stanno insieme e muoiono insieme. Le regole del gioco le detta Thomas Hobbes in modo estremamente cogente e preciso: il popolo è costituito come unità politica solo attraverso la sovranità. Ricordare questo nodo indissolubile che stringe, nella modernità, popolo, sovranità e rappresentanza, può aiutare a districarci in qualche apparente paradosso che abita la nozione di populismo.

Un autore molto evocato in questi giorni, quale “padre” in qualche modo di una prospettiva possibile di “populismo di sinistra”, Ernesto Laclau, si è sempre soffermato proprio su questo elemento: il populismo oscilla tra destra e sinistra, sostiene Laclau, perché in realtà non è altro che l’espressione della logica politica moderna. Quella appunto, in fondo tutta hobbesiana, per la quale il popolo è una costruzione, che si ottiene articolando le differenze intorno a una linea di conflitto che divide in due il campo politico. Se la politica moderna è creazione del popolo attraverso il conflitto, allora la ragione populista non è un residuo irrazionale: ma è proprio l’anima, spiega Laclau, della politica. Il conflitto dà forma a “domande” politiche che altrimenti resterebbero inarticolate. Al dibattito politico italiano, questo approccio non apparirà sconosciuto: in una versione sofisticata e certo molto consapevole della complessità del tessuto sociale che occorre articolare, Laclau presenta convinzioni che, in Italia soprattutto, sono ben note: è la ben conosciuta autonomia del Politico. Il Politico costruisce il Popolo, che è forgiato dalla capacità di decidere (nella versione laclauiana: di piegare al proprio discorso l’oscillazione dei significanti fluttuanti). I “populisti” sono quelli che riattivano, contro la neutralizzazione liberista, questa eterna logica del politico. Ma può davvero questo classico richiamo alla decisione politica, a una forma politica sovrana che dovrebbe sottomettere l’”economico”, essere una via d’uscita rispetto all’egemonia neoliberale? In realtà, il neoliberalismo tutto è tranne che uno spazio informe, un mero risultato “in negativo” della distruzione dello Stato, del Popolo e della Sovranità. E’ una forma di comando politico, governamentale e reticolare in quanto regolazione dell’accumulazione flessibile. E, al tempo stesso, è una razionalità che tenta continuamente di produrre e riprodurre vite e soggettività, con dispositivi altamente differenziati.

In questo quadro, risvegliare l’ “energia” di un presunto Politico, vuoi attraverso il richiamo diretto a forme di sovranismo, sia attraverso la più articolata strategia populista à la Laclau, significa condannarsi a muoversi su un livello completamente astratto rispetto alla modalità di produzione contemporanea: e, soprattutto, così non si intercetta in nessun modo la trasformazione effettiva delle soggettività sociali contemporanee, riducendole, come del resto sempre fa l’autonomia del Politico, a semplici bisogni o domande, senza voce autonoma.

2. In altre versioni, la teorizzazione del populismo come ricetta politicamente praticabile per i poveri e gli sfruttati, più che avere a che fare, con il ritorno del Popolo e quindi del Politico, richiama piuttosto la presentazione sulla sfera politica degli esclusi, dei “senza parte”. La risposta populista può essere letta come il terreno di lotta per chi, negli anni della crisi, è scivolato radicalmente fuori dal capitalismo globale, di chi è diventato sempre più marginale? Il recente libro di Carlo Formenti, La variante populista, è appunto un tentativo di rispondere positivamente a questa domanda: la variante populista è il modo in cui si dà la lotta di classe oggi. E, infatti, con grande coerenza e precisione, Formenti rifiuta l’approccio di Laclau in quanto ne vede perfettamente l’esito assolutamente compatibile con la liberaldemocrazia rappresentativa. Perché, però, il populismo potrebbe diventare oggi un’arma del conflitto di classe? Punto centrale di questa posizione è che il capitale non funzionerebbe più come rapporto sociale di classe. Il capitale finanziario globale produce scarti, esclusi radicali, perdenti assoluti: la classe non è più davvero produttiva per il capitale finanziario, ma è soltanto depauperata, saccheggiata e buttata via. Ancora in perfetta coerenza, l’obiettivo polemico non sono soltanto l’operaismo, in quanto convinto che il capitale va attaccato nel punto più alto dello sviluppo, o il postoperaismo, che insiste sulla accresciuta capacità di autonomia e di autorganizzazione da parte della cooperazione sociale. Questo populismo degli “esclusi” deve rompere piuttosto con lo stesso concetto marxiano di relazione tra forze produttive e modo di produzione. Il capitalismo finanziario distrugge le forze produttive, che produttive lo sono sempre meno e che contano sempre meno nell’autoaccrescimento del capitale finanziario. L’unica cosa da fare, per i poveri, è difendersi dai flussi distruttivi: staccarsi, separarsi il più possibile, consolidare i rapporti sociali di gruppo contro l’individualismo diffuso, coltivare i luoghi rispetto ai flussi senza radici del cosmopolitismo globale. Pronti a sfruttare eventuali crisi del capitalismo finanziario, che non arriveranno certo per lo sviluppo delle forze produttive, ma piuttosto per l’impossibilità di quel capitalismo di stabilizzarsi. E’ un ragionamento sicuramente coerente: ma l’esito, del resto esplicitato, è che qui il populismo finisce con l’essere una riedizione di quell’altro paradigma ultraclassico che è il comunitarismo: la classe viene continuamente evocata, ma ha oramai tutti i tratti della comunità. Compresi i tratti più problematici: nessuna espansività e inclusività, prevalere assoluto della logica della separazione su quella della connessione, tendenziale concezione solo difensiva della conflittualità, che protegge dall’attacco del nemico esterno, ma difficilmente è produttiva di trasformazione del quadro sociale.

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3. Rinascita del Popolo, e quindi dell’autonomia del Politico. Rinascita delle plebi, e quindi elogio della comunità, dell’estraneità radicale alla produzione e allo sviluppo, della separazione difensiva. Ora, che nella tradizione marxista ci sia, troppo spesso, un’assunzione troppo lineare dello sviluppo, è difficile da negare, e infatti molti utilizzi di Marx, fuori dalla tradizione marxista, hanno tentato appunto di far saltare quella linearità. Marx è stato usato e trasformato per rendere conto delle nuove modalità di produzione, è stato “bagnato” nelle nuove soggettività emergenti dagli anni Sessanta, nella produttività diffusa delle metropoli, nella rivoluzione dei rapporti tra produzione e riproduzione provocata dal femminismo, nello spazio postcoloniale delle migrazioni globali. Dopo tutto questo, se l’obiettivo dei nuovi populismi o dei nuovi comunitarismi fosse solo di ricordarci che non c’è un’idea standard di produzione o di sviluppo, il minimo che si potrebbe dire è che arrivano abbondantemente tardi. Già l’ultimo Marx, come ricordano spesso i neopopulisti, spiegava che non occorreva affatto che la comune agricola dovesse essere distrutta dalla proprietà privata e dall’industrializzazione. Ma non lo diceva per fare l’elogio dell’arretratezza della comune agricola: piuttosto ne vedeva la potenzialità per la nuova organizzazione del lavoro. Oggi dovremmo avere la capacità di ragionare allo stesso modo sulla produttività contemporanea. La cooperazione sociale contemporanea è di sicuro attraversata da dispositivi potenti, che disciplinano il lavoro vivo, e spesso vengono insidiosamente internalizzati dai soggetti stessi; ma dipingere la società, pur estremamente impoverita dall’austerity, come oramai incapace di autonomia produttiva, divisa tra vincenti radicali che sono finiti al servizio del capitale ed esclusi altrettanto radicali ai margini della produzione, è un’immagine molto ideologica. Le vite che subiscono duramente la crisi non per questo sono diventate meno connesse, meno mobili, meno ricche di risorse linguistiche e cognitive: povere, ma non escluse, non relegate in un fantomatico “fuori” assoluto dal rapporto di capitale. Duramente sottoposte a comando e a disciplinamento, ma non meno centrali nella produzione contemporanea. La Comunità o il Popolo sono invece forme politiche unificate dal leggere le soggettività sempre come “mancanti”, mai autonome, sempre bisognose d’essere incorporate in soggetti collettivi trascendenti. Ma queste soggettività seguono altre strade: la produzione di nuova e altra istituzionalità, l’autorganizzazione, l’elaborazione di programmi per nuove connessioni. Le esperienze neomunicipali hanno poco la forma della comunità locale o localistica, e molto quella del campo di sperimentazione di una diffusione del potere, di una moltiplicazione dei suoi luoghi. Gli esperimenti di autorganizzazione sociale e sindacale tutto cercano tranne una forma “politica” che li rappresenti nel segno dell’unificazione forzosa: coalizione tra differenti, più che soggetto collettivo omogeneo e centralizzatore. Come nell’esempio dato oggi dal femminismo: movimenti globali, non nazionali; composizione tra differenze e singolarità, non tra omogenei; risonanza, più che articolazione verticale; maree, non popoli o comunità.

*pubblicato il 10 dicembre 2016 su alfabeta2.

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