Posto quasi al centro dei Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, il quinto capitolo del libro II (“Che la variazione delle sètte e delle lingue, insieme con l’accidente de’ diluvii o della peste, spegne le memorie delle cose”) costituisce, soprattutto nella seconda parte, una radicale cesura rispetto a ogni concezione teleologica o metafisica della natura. La natura non è interna ad alcun disegno divino che veda al centro l’essere umano, né ha per scopo l’umano: la crisi, la catastrofe sono interne al sistema-natura, ne sono un prodotto “naturale”, non un’eccezione o un’anomalia, men che meno il prodotto di un intervento provvidenziale. La ferita che Copernico prima, e Darwin poi infliggeranno al narcisismo umano è, in fondo, già qui. Al tempo stesso, l’essere umano è natura, ne è materialmente costituito, sia nella propria sostanza fisica che nei suoi concatenamenti [“Tutte le azioni nostre imitano la natura”, II, 3]. Da cui una “spaventevole contraddizione”, di cui scriverà un altro grande materialista italiano Leopardi. Nondimeno, in questo quadro di grande pessimismo è insita l’esperienza della libertà: come commenta Toni Negri, «in questo capitolo soffia un grande vento dell’essere e della distruzione, che pone su uno sfondo assolutamente negativo la possibilità di libertà e di costituzione. Se non vi fosse quest’orlo di distruzione non esisterebbe la possibilità di dire la libertà come assolutezza, Isolato, ma non meno rilevante, questo capitolo metafisico offre la dimensione di quello che è in gioco» (Antonio Negri, Il potere costituente, manifestolibri 2002, pp. 95-96). L’approccio materialista alla natura e all’ecologia ci insegna che il divenire dell’umano non è la realizzazione di una natura benigna già presente – non è l’Era dell’Acquario, e neanche, ça va sans dire, l’Apocalisse – né un fine disegnato da un qualche dio: è progettualità, concatenamento, costituzione moltitudinaria. Lo stesso rapporto dell’umano con la natura è un concatenamento (e l’evento che viviamo in questi giorni ce lo mostra). Liberata dalle ipoteche teologiche e teleologiche, la natura si mostra come il campo della libertà nel/dal quale l’umano è costituito.
A quegli filosofi che hanno voluto che il mondo sia stato eterno, credo che si potesse replicare che, se tanta antichità fusse vera, e’ sarebbe ragionevole che ci fussi memoria di più che cinquemila anni; quando e’ non si vedesse come queste memorie de’ tempi per diverse cagioni si spengano: delle quali, parte vengono dagli uomini, parte dal cielo. Quelle che vengono dagli uomini sono le variazioni delle sètte e delle lingue. Perché, quando e’ surge una setta nuova, cioè una religione nuova, il primo studio suo è, per darsi riputazione, estinguere la vecchia; e, quando gli occorre che gli ordinatori della nuova setta siano di lingua diversa, la spengono facilmente. La quale cosa si conosce considerando e’ modi che ha tenuti la setta Cristiana contro alla Gentile; la quale ha cancellati tutti gli ordini, tutte le cerimonie di quella, e spenta ogni memoria di quella antica teologia. Vero è che non gli è riuscito spegnere in tutto la notizia delle cose fatte dagli uomini eccellenti di quella: il che è nato per avere quella mantenuta la lingua latina; il che feciono forzatamente, avendo a scrivere questa legge nuova con essa. Perché, se l’avessono potuta scrivere con nuova lingua, considerato le altre persecuzioni gli feciono, non ci sarebbe ricordo alcuno delle cose passate. E chi legge i modi tenuti da San Gregorio, e dagli altri capi della religione cristiana, vedrà con quanta ostinazione e’ perseguitarono tutte le memorie antiche, ardendo le opere de’ poeti e degli istorici, ruinando le imagini e guastando ogni altra cosa che rendesse alcun segno della antichità. Talché, se a questa persecuzione egli avessono aggiunto una nuova lingua, si sarebbe veduto in brevissimo tempo ogni cosa dimenticare. È da credere, pertanto, che quello che ha voluto fare la setta Cristiana contro alla setta Gentile, la Gentile abbia fatto contro a quella che era innanzi a lei. E perché queste sètte in cinque o in seimila anni variano due o tre volte, si perde la memoria delle cose fatte innanzi a quel tempo; e se pure ne resta alcun segno, si considera come cosa favolosa, e non è prestato loro fede: come interviene alla istoria di Diodoro Siculo, che, benché e’ renda ragione di quaranta o cinquantamila anni, nondimeno è riputato, come io credo, che sia cosa mendace.
Quanto alle cause che vengono dal cielo, sono quelle che spengono la umana generazione, e riducano a pochi gli abitatori di parte del mondo. E questo viene o per peste o per fame o per una inondazione d’acque: e la più importante è questa ultima, sì perché la è più universale, sì perché quegli che si salvono sono uomini tutti montanari e rozzi, i quali, non avendo notizia di alcuna antichità, non la possono lasciare a’ posteri. E se infra loro si salvasse alcuno che ne avessi notizia, per farsi riputazione e nome, la nasconde, e la perverte a suo modo; talché ne resta solo a’ successori quanto ei ne ha voluto scrivere, e non altro. E che queste inondazioni, peste e fami venghino, non credo sia da dubitarne; sì perché ne sono piene tutte le istorie, sì perché si vede questo effetto della oblivione delle cose, sì perché e’ pare ragionevole ch’e’ sia: perché la natura, come ne’ corpi semplici, quando e’ vi è ragunato assai materia superflua, muove per sé medesima molte volte, e fa una purgazione, la quale è salute di quel corpo; così interviene in questo corpo misto della umana generazione, che, quando tutte le provincie sono ripiene di abitatori, in modo che non possono vivervi, né possono andare altrove, per essere occupati e ripieni tutti i luoghi; e quando la astuzia e la malignità umana è venuta dove la può venire, conviene di necessità che il mondo si purghi per uno de’ tre modi; acciocché gli uomini, sendo divenuti pochi e battuti, vivino più comodamente, e diventino migliori. Era dunque, come di sopra è detto, già la Toscana potente, piena di religione e di virtù, aveva i suoi costumi e la sua lingua patria: il che tutto è suto spento dalla potenza romana. Talché, come si è detto, di lei ne rimane solo la memoria del nome.