di SAVERIO ANSALDI.
Che dire, Macronland è ormai il migliore dei mondi possibili, nel mezzo di un’Europa che si dibatte fra spinte indipendentiste e isolazioniste, risorgimenti parafascisti, politiche migratorie criminali e ritorni di scheletri imbellettati dall’oltretomba. Sono trascorsi sei mesi da quando il suo fondatore, Macron I, ha preso saldamente le redini del regno, dopo aver sbaragliato, senza troppa difficoltà, le mal organizzate compagini nemiche, riducendole di fatto in polvere. Una di esse, quella che porta la rosa sul vessillo, è stata perfino costretta a vendere la sua roccaforte della rue Solférino per onorare i debiti di guerra, degna fine da armata Brancaleone per una combriccola di mercenari che per trent’anni ha svenduto i suoi servigi al miglior offerente. Le altre cercano di ricompattare i ranghi, dibattendosi fra i tradimenti dei vecchi pretoriani e le mire dei giovani ribaldi. Ma fra il sangue che scorre nei corridoi dei palazzi parigini e le ferite che ancor bruciano per la dura sconfitta, il loro futuro rimane incerto, per non dire plumbeo. L’unico che sembra ancora divertirsi è il buffone di corte, Mélanchon, al quale viene ogni tanto concessa la grazia di dire qualche verità, proprio come nei drammi shakespeariani, perché tanto a quelle parole ormai non crede più nessuno. Anzi, fanno perfino ridere lor signori.
Da questo punto di vista, per il nuovo sovrano le prospettive sono rosee. I feudatari che l’hanno lanciato nell’agone, dai fidi compari della Rothschild fino al principe delle nuove tecnologie, Xavier Niel, passando per il fitto stuolo dei thinks tankers che condividono il credo secondo il quale «il liberalismo è un valore di sinistra», si fregano la mani1. La trasformazione della Repubblica in Macronland procede a ritmo spedito. L’Assemblea nazionale è solo più un consiglio d’amministrazione che si limita a registrare e a vidimare le decisoni prese dall’Eliseo, con la benedizione del governo. Per la prima volta nella storia della Quinta Repubblica, i deputati eletti nelle legislative del giugno scorso provengono direttamente e a stragrande maggioranza dal mondo delle imprese e dell’impreditoria, senza mai aver esercitato in precedenza una sola funzione politica, fosse anche solo quella di sindaco di un piccolo comune. Questo spiega non solo la loro docile abnegazione ai diktats di Macron I ma anche la loro totale incapacità ad ammettere e a riconoscere l’esistenza di un’opposizione, anche in sede parlamentare. Qualunque opinione divergente da quella del loro partito, En Marche, viene subito bollata come un’inutile perdita di tempo: bisogna fare in fretta, agire con efficienza, senza badare alle quisquiglie politiche che rallentano la corsa sfrenata della riforme neoliberali volute dal sovrano.
È così che la nuova legge sul lavoro, ancora più dura di quella proposta dal governo socialista guidato da Emmanuel Valls, che provocò le grandi manifestazioni della primavera del 2016 e alimentò i movimenti sfociati in Nuit debout, è stata approvata in poche settimane a colpi di voti di fiducia. La nuova legge prevede licenziamenti più facili, riduzione delle garanzie sociali legate al sussidio di dissocupazione e abbassamento drastico delle imposte sui capitali (mobiliari e immobiliari). L’argomento è lapalissiano: bisogna puntare sulla generosità dei capitalisti, sulla loro innata benevolenza ad investire in attività produttive, foriere di benessere per tutti. Non è più possibile continuare a sostenere il lavoro, soprattutto con retribuzioni decenti. La ricchezza discenderà ormai dal cielo, o meglio ancora, dai paradisi, soprattutto se fiscali.
Con la stessa celerità è stata approvata la modificazione della Costituzione che permette di rendere legali le misure giudiziarie e poliziesche adottate con lo stato d’emergenza entrato in vigore dopo gli attentati del 2015. L’emergenza è quindi diventa normalità di legge, iscritta a chiare lettere negli articoli della Costituzione. Il tutto condito da una salsa mediatica che non ha precedenti. A differenza dei governi di Fillon e di Valls, quello guidato dal fedele scudiero Édouard Philippe è consigliato da veri specialisti della comunicazione digitale, a cominciare dal mago dei social, Ismaël Emelien, e dal guru dei Big Data, Guillaume Liegey, formatisi entrambi nelle grandi agenzie parigine di pubblicità. Sono loro che orchestrano con sagacia la comunicazione politica di Macron I, riempiendo ogni interstizio della mediasfera. Un vero e proprio «agire comunicativo» che non lascia scampo. Fino a trasformare la scomparsa dell’idolo canoro nazionale, Johnny Halliday, in una nausebonda cerimonia mistico-teologica della durata di una settimana. È mancata solo la sua resurrezione; che comunque, siatene certi, non tarderà.
Tutto sembra quindi procedere per il meglio per il nostro Wunderkind2. Per la prima volta nella sua storia, il Paese fa finalmente i conti con un vero liberalismo, quello che né Hollande né tantomeno Sarkozy erano stato in grado di offrirgli. I grandi feudatari si erano d’altronde decisamente stancati di queste pallide e tremebonde figure, incapaci di modernizzare e di riformare la Repubblica. Ci voleva un vero capitano coraggioso, che con piglio intrepido difendesse i loro capitali. Adesso è cosa fatta. Ma nello stesso tempo, verrebbe voglia di dire: «nessun dorma… dilegua, o notte! ». La Francia è sempre stata il paese delle sorprese e degli eventi imprevedibili. Non deve mai essere sottovalutata la capacità dei francesi ad opporsi, con strategie di lotta e di cambiamento, a derive troppo autoritarie, anche quando sono orchestrate dai sapienti insiders dell’economia 2.0. È evidente che Macron I ha saputo vincere le elezioni giocando sull’appoggio massiccio dei capitali finanziari legati ai grandi gruppi mediatici e sulla volontà politica dell’imprenditoria digitale diffusa, che ha sostenuto con determinazione la sua candidatura. Ma c’è sempre un’altra Francia che non si riconosce in Macronland. Che per ora tace ma forse non dorme del tutto. È quella che è scesa in piazza, in forme organizzative senza dubbio confuse ed embrionali, nei movimenti del 2016. È quella delle banlieues, di cui gli zelanti portaborse del sovrano non parlano mai. È quella di tutti coloro, precari, studenti, dissocupati, che rivendicano reddito garantito, nuove istituzioni e nuovi diritti. È quella Francia che forse si risveglierà, dopo l’anno zero, per ricordare all’enfant prodige che alla fine bisogna sempre fare i conti con lei.
L’affermazione «il liberalismo è un valore di sinistra» fu pronunciata da E. Macron il 27 settembre 2015 nel corso di un dibattito organizzato dal quotidiano Le Monde, di cui Xavier Niel è co-azionario dal 2010. ↩
È la definizione che i media tedeschi hanno attribuito a Macron in occasione del suo primo viaggio in Germania, subito dopo la sua elezione nel maggio scorso. ↩