Di GIORGIO PASSERONE
L’ultima libro di Camillo Arcuri – L’SOS non salva più. In fuga dai mali d’Africa. Migliaia di migranti annegano senza soccorsi. L’UE consenziente, Castelvecchi, 124 pp., 2022 – conclude l’itinerario di uno scrittore irriducibile perfino all’ideale ormai troppo latitante del giornalismo investigativo, un itinerario iniziato con la «storia vera» di un’inchiesta a suo tempo censurata e pubblicata nel 2007 – il fallito colpo di Stato di Valerio Borghese, sfociato inesorabilmente nella stagione delle stragi. Dalle stragi italiche alle stragi in fondo al mare. Ma quest’ultimo libro non è un semplice testamento, e nemmeno soltanto un rigoroso lavoro di contro-informazione nei nostri tristi tempi elettorali, con la banda Meloni-Salvini a far campagna agitando decreti sicurezza e il piano di un blocco navale delinquenziale, un orrore per la gente di mare. No, questo SOS è uno strumento che diviene appello per le nostre pratiche militanti. E sta a noi trovarlo nella terza parte che Arcuri non ha scritto ma che attraversa il suo libro in quanto tensione critica, perché bisogna prima farla, metterla in atto, questa parte, qui sulle coste europee e in Africa.
Due parti, dunque. La prima è un’implacabile denuncia delle politiche europee e italiane nel mancato soccorso agli oltre trentamila migranti finiti in fondo al Mediterraneo: sequestro delle navi ONG; soppressione del programma Mare nostrum (Arcuri insiste sul voltafaccia di Matteo Renzi, allora premier, favorevole e poi liquidatore nel novembre 2014, ben prima delle gesticolazioni di Salvini, del programma di soccorso); creazione dell’operazione Triton lanciata, poi continuata da Frontex, agenzia dell’Ue per le emergenze migratorie, gestite dalla Polonia (!)[1]: di fatto un controllo delle frontiere come respingimento, complici gli accordi criminali italo-libici, con i lager per i rifugiati in fuga sui barconi degli scafisti (conniventi) stoppati dalle guardie costiere. Arcuri lo dimostra nel secondo capitolo («Tace la Corte dell’Aia») avvalendosi del rapporto dei giuristi Juan Branco et Omer Shatz, 200 pagine depositate da anni negli scaffali di una Corte penale internazionale impotente a dare un seguito giuridico legale a crimini gravissimi. Eppure quello di Branco e Shatz è un atto d’accusa ampiamente documentato contro la politica economica UE che mira a contenere i flussi migratori verso l’Europa con ogni mezzo, compreso l’omicidio di migliaia di civili in esodo dalle zone di guerra. È un’accusa implacabile della complicità degli Stati europei «in espulsione, omicidio, detenzione, asservimento, tortura, stupro, persecuzione e altri atti disumani commessi nei campi di detenzione e nei centri di tortura libici». L’intervista a Branco e a Fabio Marcelli, dirigente dell’Istituto di studi giuridici internazionali del CNR che completa il capitolo, argomenta nei dettagli un dossier che, come dice Branco, «vuole fare tremare» questi assassini.
Seconda parte. Alla questione dirimente «qual è la causa di questa migrazione di giovani, donne, bambini fuori dall’Africa con il suo corteo di stragi ?» Camillo Arcuri risponde: la tragedia non avviene per il loro tentativo di venire in Europa, ma perché l’Europa e la Francia sono già da tempo in Africa meno in quanto ambasciatori dei diritti umani ahimé, che come taglieggiatori in doppio petto. Si pensi ai 14 paesi africani sub-sahariani che, dopo l’indipendenza, hanno continuato a versare un colossale «debito coloniale» alla Francia che ha imposto il mantenimento del franco CFA, fonte di una sudditanza politico-economica devastante come l’ex presidente Nicolas Sarkozy si lasciò scappare («voce dal sen fuggita») : «Non possiamo permettere che le nostre ex colonie creino la loro propria moneta per avere il controllo totale sulla loro banca centrale. Se ciò si producesse, sarebbe una catastrofe per il Tesoro pubblico che potrebbe far precipitare la Francia al livello di ventesima potenza economica mondiale» (p. 83). Arcuri racconta la storia delle ingerenze e del dominio di fatto occidentale in Africa, dalla Guinea al Togo, al Bourkina Faso, dal Congo Belga alla Liberia (pied à terre statunitense per il greggio), alla Libia balcanizzata da Sarkozy e co. È una storia di corruzioni, commercio d’armi, saccheggio di materie prime[2], dai risvolti violenti e sanguinari (22 capi di Stato morti ammazzati), e soprattutto la storia delle vite spezzate di quei leader – l’antesignano Lumumba in Congo, Olympio in Togo e Sankara in Bourkina Faso – che osarono, pagando con la propria vita, resistere ai Diktat del Belgio e della Françafrique. Ed è la figura grandiosa di Thomas Sankara, Il Che africano, che Arcuri ci invita a rifar vivere : il « comandante » che non aveva niente del militare e che seppe costruire nel Bourkina un laboratorio di emancipazione per un’economia autonoma – la parola d’ordine: «un dovere non pagare il debito»[3]–, per la liberazione delle donne, per l’educazione, per un’ecologia del rimboscamento contro la desertificazione. Funzionò tre anni, finché una sventagliata di mitra non fermò questo visionario con i piedi ben piantati per terra. In appendice, il libro riproduce il testo del suo discorso storico tenuto, in nome di tutte le ex colonie francesi, davanti all’assemblea delle Nazioni Unite il 4 ottobre 1984. È un grido che spetta a noi, qui e ora, coniugare con le vite umiliate e offese dei migranti in fuga.
È quanto ci vien da pensare leggendo gli interventi e l’intervista rilasciata ad Arcuri da Mohamed Konaré, leader panafricanista maliano che dopo aver vissuto insieme al suo popolo il peso del giogo postcoloniale si è impegnato a far conoscere in Italia la schiavitù finanziaria che esso impone. Il suo motto: liberare l’Africa, creare gli Stati Uniti dell’Africa. Poi aggiunge: «È l’unico modo per fermare l’immigrazione. Soltanto allora i giovani potranno lavorare e avere un futuro in casa propria. Un presente che li vede far la questua qui agli angoli delle strade è umiliante, non solo per loro. E’ uno schiaffo alla dignità di tutti». Arcuri registra questa posizione, ma mantiene nei confronti di Konaré un atteggiamento circospetto. Perché per Camillo Arcuri la «solidarietà», l’affetto, l’accoglienza dei migranti è il primo passo, il «minimo» e certamente non il «contrario» della lotta per l’emancipazione dell’Africa. E lui che dà ampio spazio alla straordinaria avventura di Mimmo Lucano a Riace, pagata col prezzo che sappiamo, avventura che andava ben al di là dell’accoglienza mirando a costruire una reciprocità tra autoctoni e rifugiati, rifiuta recisamente di fare del soccorso in mare, nell’Italia dell’«SOS che non salva più», un problema marginale come dice, di fatto, Konaré. Non a caso la destra sovranista leghista e fascista, e i rossobruni che di rosso non hanno niente tentano oggi di fare man bassa delle ipotesi di alcuni panafricanisti evidentemente sprovveduti se non in malafede. Gli uni sono impazienti di riprendere servizio dalle sale del Viminale, gli altri (i Fusaro di turno) scimmiottano nei talk-show le tesi marxiane dell’esercito industriale di riserva utile solo a contenere il costo del lavoro e a mettere in conflitto sfruttati del terzo mondo e subalterni italici. Il risultato di queste manipolazioni non è altro che un Marx e un marxismo ridotti a supporto osceno del bavaglio messo allo sporco lavoro di cui Salvini e Meloni sono complici nel Mare nostrum e in Libia. Ciò che resta della posizione di Konaré e che si ritrova nei toni fermissimi dei più autorevoli economisti africani (tra loro, Mamadou Koulibaly, ex aspirante candidato all’elezione presidenziale del 2020 in Costa d’ Avorio, non un « pericoloso sovversivo » ma un intransigente fustigatore del franco capestro CFA[4]) è dunque la problematica della ricchezza dell’Africa impoverita dall’Europa financial compact, non certo l’attacco assurdo a quella che Konaré &co definiscono una retorica dei soccorsi. Perché in quei barconi c’è ben più di una fuga passiva dal disastro, ben più di una «deportazione», ben più dell’aspirazione al «benessere» occidentale. Chi potrebbe avere oggi l’impudenza di pensare che nei drammatici percorsi dei rifugiati che riescono ad arrivare sulle nostre coste non ci sia anche, e sempre meno inconsapevolmente, un desiderio di ribaltare l’ordine dell’Europa in Africa, in nome dell’Africa dei Lumumba, degli Olympio, dei Sankara? L’internazionalismo a venire non rima per niente con la Sovranità. Il Sogno di una cosa cresce oggi sottotraccia nei réseaux dove il precario e l’esule, che venga dal terzo mondo o dall’oriente americanizzato (Iran, Irak, Afhganistan…), si incontrano senza più un «ruolo». Nella Francia macronista ci saranno anche loro, i rifugiati, sans papiers o meno, a lottare in quello che sarà un «caldo» autunno…
Questa terza parte a venire del libro di Arcuri scaturisce dalla sua analisi delle cause dei mali d’Africa e dall’urgenza che avvertiva vivissima di trasformare l’indignazione in progetto politico. Camillo Arcuri ci ha lasciato il 22 agosto a 92 anni dopo aver finito L’SOS non salva più e con la scrivania ingombra d’altri progetti. Ultimamente aveva sottoscritto un appello molto concreto perché a Genova, il 23 aprile, una fantomatica «festa della bandiera di San Giorgio», istituita da una giunta che ha rinnegato financo l’antifascismo, non venisse ad oscurare il 25 aprile. Chi lo ha conosciuto può dire fino a che punto l’idea che i respingimenti in mare e i blocchi navali potessero tornare in un futuro prossimo fosse per lui un’ossessione, uno spauracchio da combattere implacabilmente, passo a passo. Chiunque legga questo libro, il giorno malaugurato in cui gli eredi dei Dumini e dei Farinacci dovessero riprendere servizio, non potrà dire che non sapeva.
[1] «Fondata nel 2004 con un budget di pochi miliardi e un personale di centocinquanta addetti, Frontex ha visto lievitare ben presto finanziamenti e organici UE, tanto da arrivare a un bilancio di venti miliardi di euro e ventimila addetti» (p. 13).
[2] Il meraviglioso Niger filmato da Jean Rouch è uranio senza elettricità nelle case, la Costa d’Avorio è cacao senza cioccolato, …. così come Cuba fu un tempo barbabietola senza zucchero.
[3] Arcuri riporta l’ultimo discorso prima del suo assassinio, il 29 luglio 1987 davanti all’organizzazione dell’Unità africana, riunita ad Addis Abeba. «Le sue parole “da incidere nella pietra” diventeranno presto un testamento umano e politico per tutti gli africani non conciliati “…il debito è ancora neo colonialismo, con i colonizzatori trasformati in assistenti tecnici: anzi dovremmo chiamarli assassini tecnici”» (p. 52). Il processo del traditore, al soldo della Françafrique, Blaise Campoaré, che falcidiò coi suoi sicari Sankara e 12 suoi collaboratori, si è concluso in un Burkina Faso disgregato e in rovina quest’aprile con varie condanne all’ergastolo. Quella di Campaoré, per contumacia!
[4] «È legittimo domandarsi se questo franco non sia altro che uno strumento politico geostrategico piuttosto che un mezzo di sviluppo per gli africani» (p. 86).