di BENEDETTO VECCHI.
È una curiosità rinnovata, dopo aver seguito e partecipato per anni alla diffusione dell’attitudine hacker, il modo migliore per avvicinarsi al saggio di Sébastien Broca sull’Utopia del software libero (Mimesis). Sul free software è stato scritto ed elaborato molto; così come si è ampiamente dibattuto sulle differenze tra come viene prodotto il software libero – presentato come potenzialmente alternativo al modo di produzione capitalistico – e l’open source, distribuito invece come manufatto digitale compatibile con la produzione dominante della ricchezza.
È noto che ha vinto l’open source e che si è consolidato un sistema misto tra software proprietario e programmi informatici open source, che ha garantito un flusso più o meno continuo di innovazione produttiva e sociale. Il merito di Broca sta nel cercare di seguire il fiume carsico del software libero e di come continui a essere un elemento perturbante, potenzialmente conflittuale con i rapporti sociali capitalistici.
Tutto parte dal concetto di hackability, che indica la generica capacità dei singoli di modificare, intervenire dentro la scatola nera della tecnologia senza essere necessariamente esperti. Altro elemento fondamentale è la tendenza degli «smanettoni» a cooperare e condividere le informazioni. Questo è il nucleo d’acciaio del software libero che ha avuto la capacità virale di diffondersi in tutta l’economia della Rete. Può sembrare un azzardo, ma il software libero ha vinto, dissolvendosi e perdendo però le sue capacità sovversive. Antonio Gramsci parlerebbe di rivoluzione passiva operata dal capitale. Più pacatamente, racconta la sconfitta di un movimento sociale sì, ma fortemente circoscritto a un tecnicismo che ne ha impedito l’incontro e la contaminazione con altri movimenti sociali. Di tutto ciò ci sono ampie tracce di ricerca nel libro. Anzi la seconda parte del volume ha come perno questo tema, mentre la prima è una particolareggiata ricostruzione storica del software libero (ne scrive Marco Liberatore qui).
Molti potrebbero rimanere colpiti nell’apprendere che la rivoluzione del silicio non sarebbe stata possibile senza l’attitudine hacker e gli «smanettoni» che hanno prodotto i programmi che fanno funzionare la rete e i computer usati nel mondo. Scontrandosi con colossi come Microsoft, Apple, la vecchia Ibm. Così come Google, Apple, Microsoft, Amazon, Facebook sono diventati gli oligopoli attuali espropriando il software libero prodotto fuori e contro di loro.
Di questa violenza i libri di storia non ne fanno quasi menzione; o quando lo fanno lo presentano come un fatto naturale, al pari della pioggia o del vento. Merito di Broca invece ricordarla. Manca, ma questo è ancora oggetto della ricerca militante, un’analisi su come l’espropriazione della ricchezza sia governata dalle imprese capitalistiche attraverso i meccanismo impersonali e «astratti» degli algoritmi e dei software spesso open source.
La seconda parte del libro merita qualche riflessione in più.
Il sociologo francese si confronta con tesi abbastanza diffuse sullo sviluppo capitalistico. Vengono esaminate le riflessioni sul capitalismo estrattivo (David Harvey, Saskia Sassen, i latinoamericani); quelle di Boltanski e Chiappello sul «nuovo spirito del capitalismo», quelle di Dardot e Laval sulla «nuova ragione neoliberista del mondo», quelle, implicite nel testo di Broca, sui beni comuni del premio Nobel per l’economia Olinor Ostrom, E, infine, quelle del postoperaismo sul Comune e sul capitalismo di cattura.
Sébastien Broca si addentra in questo labirinto consapevole del rischio di smarrimento. Prende più appunti, segna mappe, si dilunga su vicende del passato (i conflitti attorno alle leggi sulla proprietà intellettuale) e alla fine ne esce fuori. Salva la pelle e l’anima, con qualche escoriazione. La più evidente è che non riesce a mettere in tensione produttiva il fiume carsico del software libero con i mutamenti profondi nella composizione sociale del lavoro vivo. Non vede che molte caratteristiche dell’attitudine hacker sono diventate i vincoli e le caratteristiche del lavoro vivo: condivisione, la conoscenza come principale forza produttiva, la cooperazione come condizione necessaria al processo lavorativo. Il tutto sempre all’interno del regime del lavoro salariato, la gabbia che il software libero non è riuscito a rompere. Ma questo vale anche per il resto del lavoro vivo.
Dunque cosa fare? Sviluppare una teoria dello sfruttamento adeguato? Ovviamente. Autorganizzare corsi di autodifesa digitale rispetto la pervasività della Rete? È l’indispensabile riduzione del danno senza la quale è tutto più difficile. C’è però un di più che ancora non è entrato nelle agende politiche dei movimenti sociali, proprio quando la precarietà è la norma dominante nei rapporti tra capitale e lavoro vivo. Si tratta di definire, narrare i bacini del lavoro vivo, le loro stratificazioni e gerarchie, il loro mutare al ritmo delle differenze di mansioni, di razza, di sesso, di specializzazione. Non per cercare coalizioni, termine che assegna alle differenze un carattere definitivo e invariante nel tempo.
La storia del recente capitalismo dice invece il contrario: è questo l’arcano da svelare della moltitudine, per usare un termine che nella seconda parte del libro ricorre spesso. Si tratta di organizzare i bacini della forza lavoro, facendo leva sulla irriducibilità a sintesi definite da un esterno (il partito avanguardia o il sindacato generalista), ma mettendo in relazione politica le differenze e contaminando. In fondo, è questa la sfida che ci consegna ancora oggi l’attitudine hacker.
questo testo è stato pubbicato sul manifesto il 27 ottobre 2018l