Di ALBERTO DE NICOLA
Con la nomina di Mario Draghi si compie un processo, se non scontato, quantomeno ampiamente preparato. Di fronte agli incalcolabili effetti della crisi e alle crescenti aspettative di cambiamento, la scommessa che si raccoglie attorno al nome dell’ex governatore della Banca Centrale Europea è quella di stabilizzare la discontinuità introdotta dalla pandemia e di sottrarre alla sfera pubblica la contesa sull’uso politico delle risorse.
I fatti sono noti, così com’era in fondo prevedibile fin dall’inizio l’esito di questa crisi di governo. Al netto delle esternazioni strumentali sui punti programmatici “irrinunciabili” ora magicamente scomparsi, la tattica di Renzi, preparata e sostenuta di fatto da un crescendo di corsivi sui maggiori giornali italiani, ha raggiunto l’unico obiettivo che si era prefissato, quello di fare a pezzi l’asse che si era venuto a costituire tra Pd, 5 Stelle e Leu e di spostare nuovamente la geometria del governo italiano verso un assetto centrista.
Se otterrà la fiducia del parlamento con un consenso bipartisan, il governo capitanato da Mario Draghi sarà l’unico nel contesto europeo ad avere queste caratteristiche.
Seppure la scena che sembra dischiudersi davanti ai nostri occhi sembra avere la trama di un film che abbiamo già visto – quando solo 10 anni fa un altro Mario veniva a risolvere un’altra crisi con la riproposizione di un governo tecnico ed istituzionale – la nomina dell’ex governatore della Bce si iscrive oggettivamente in una situazione completamente differente. E questo non solo perché Draghi è un politico più intelligente e ambizioso di Monti, ma soprattutto perché il suo eventuale incarico segue lo stravolgimento sociale prodotto dalla pandemia e la svolta all’interno della governance neoliberista europea.
Quel cambio di passo in merito al ri-orientamento delle politiche monetarie e fiscali europee, fu annunciato proprio da Draghi in un famoso articolo sul “Financial Times” nel marzo del 2020, appena all’inizio della prima ondata pandemica. In quell’intervento Draghi esortava a «un cambiamento di mentalità, al pari di quello operato in tempo di guerra», e suggeriva la necessità di coniugare le politiche monetarie espansive (da lui stesso introdotte quando era a capo della Bce) con politiche fiscali altrettanto espansive.
Le misure straordinarie adottate successivamente dall’Unione Europea – con l’approvazione del Recovery Fund e del pacchetto Next Generation Eu – hanno seguito quelle indicazioni.
Ciò sta a significare che questo ennesima soluzione tecnico-istituzionale si misurerà con obiettivi e carte da gioco completamente differenti rispetto al 2011, quando si trattò di attuare un programma politico segnato unilateralmente dalla compressione dei livelli della spesa e del debito pubblico. La figura di “alto profilo” dovrà questa volta invece bilanciare interventi di aumento e di riduzione della spesa, modificandone la direzione e la funzione con interventi selettivi, e finalizzando il tutto a ricostituire le condizioni di possibilità di un mercato capitalistico e del lavoro straziato dalla attuale e futura recessione; riprogettare il funzionamento complessivo di un sistema istituzionale e sociale centrato sulla forma-impresa, passato però per una inedita e immane distruzione di capitale sociale e umano.
Foto di Giorgio Minga da WikiCommons
Ma non è solo il contesto macro-economico a segnare una distanza siderale dal 2011, è soprattutto la pandemia come “fatto sociale totale” a modificare radicalmente le cose. L’esperienza pandemica ha, nell’immediato, innescato effetti i cui esiti sono ancora difficili da decifrare. Quell’evento ha reso a tutti visibile la struttura delle diseguaglianze su cui sono basate le nostre società, distribuendo i “mali” (tanto sanitari quanto economici) in modo differenziato. In secondo luogo, ha innescato una crisi di governabilità a tutti i livelli istituzionali: l’incapacità di gestire l’emergenza sanitaria nell’immediato e nel medio periodo, ha a sua volta reso palese l’esito nefasto di un quarantennio di politiche neoliberiste che hanno indebolito i sistemi sanitari, educativi e sociali a tal punto da non disporre più di risorse e strumenti per proteggere la popolazione.
Il raddoppio in Italia del numero dei decessi della seconda ondata rispetto alla prima (tendenza non dissimile a quella di altri paesi europei), è la dimostrazione più drammatica e lampante del fallimento delle misure di contenimento del virus.
L’insieme di questi effetti ha generato nell’opinione pubblica aspettative diffuse di mutamento, ampliando il margine di un possibile consenso a politiche di redistribuzione della ricchezza, di ripensamento del “pubblico” nella direzione di una sua radicale democratizzazione e di uno sviluppo delle istituzioni del Welfare e della cura come basi fondamentali del vivere comune, oltre le logiche fallimentari del management neoliberista.
La debolezza del dimissionario governo Conte è stata quella di non aver neanche lontanamente recepito e dato forza a queste istanze. Si è limitato, nella vertigine dell’emergenza, a interventi di contenimento della crisi, con misure di sostegno temporanee e frammentarie, capaci di “prendere tempo” senza approfittare dei nuovi margini di bilancio per riorganizzare il sistema della protezione sociale.
Eppure, questo è bastato a determinare la mobilitazione dei gruppi di potere italiani – dalla Confindustria alle grandi testate giornalistiche – per scongiurare anche solo la minaccia che un dibattito pubblico in Italia potesse essere animato dal lessico del cambiamento. Matteo Renzi si è fatto interprete di queste istanze conservative, sperando di candidarsi alla loro rappresentanza.
Con lo scioglimento del broglio della crisi di governo e la nomina di Mario Draghi, si compie dunque un processo lungamente atteso e invocato. Questo processo va interpretato per quello che è: dietro il commissariamento del parlamento vi è un tentativo di ricomporre il blocco di potere della classe dirigente che, dalla finanza ai grandi gruppi editoriali fino ad arrivare alla grande impresa, in Italia è enormemente vasto, radicato, trasversale e soprattutto incontrastato.
Foto dal Flickr di Palazzo Chigi
Ora, se si riesce a chiudere la partita sul nome di Draghi, questo blocco può ribadire a sé stesso la sua operatività politica e la sua malcelata aspirazione ad essere autonomo dalla società e dai giochi della rappresentanza parlamentare. Mentre gli istinti conservativi esistono in tutti i paesi, reagendo a una qualche spinta progressiva proveniente dalla società o dalla sfera politica, quello che c’è di veramente singolare in Italia è che le classi dirigenti si mobilitano preventivamente, con spirito combattivo e in modo convergente, anche in assenza di alcun movimento che minacci concretamente la stabilità del sistema economico e politico.
È del resto questa una vecchia tradizione incardinata nella nostra storia istituzionale, quella stessa che aveva spinto Antonio Gramsci a vedere nell’Italia un laboratorio permanente per le rivoluzioni passive.
Al netto delle differenze che segneranno il contenuto delle politiche di un eventuale governo Draghi, l’unico elemento di vera continuità è rappresentato dunque da questa spinta a sottrarre al dibattito pubblico e alla contendibilità politica le alternative in campo in merito a questioni di vitale importanza come il ruolo dello Stato, la direzione della spesa e la funzione del pubblico.
Nonostante sappiamo bene che non esistano governi “tecnici”, la nomina di Draghi ha il senso profondo di tentare una stabilizzazione conservatrice del sistema nazionale più a rischio in Europa, sotto però la promessa di una sostanziale depoliticizzazione dell’azione di governo. Non c’è qui solo la necessità di mettere al sicuro la ripartizione delle risorse mobilitate dai programmi europei tra i differenti gruppi d’interesse, c’è piuttosto l’esigenza di scongiurare che in un momento di grave incertezza, emergano impreviste domande sociali sull’uso della spesa pubblica. L’asse Pd, 5 Stelle e Leu, era troppo vulnerabile a future ed eventuali pressioni in questo senso.
La mossa d’anticipo è servita a chiudere il campo da gioco, si tratta ora di capire come riaprirlo. Pensare di ripercorrere le strade già battute quando tutto nel frattempo è cambiato, porterebbe dritti dentro un vicolo cieco.
Quello che sappiamo, è che i tentativi di stabilizzazione politica non coincidono necessariamente con la pacificazione sociale. Gli incalcolabili effetti della recessione economica e della crisi occupazionale non si sono ancora pienamente dispiegati, e lo spazio che separa le aspettative per il piano di “ricostruzione” e la sua realizzazione e operatività sarà tutt’altro che uno spazio liscio. Tra gli uni e gli altri, esiste una dismisura che nessuna figura politica, per quanto “autorevole”, potrà facilmente cancellare.
Benché embrionali e frammentate, le dinamiche di politicizzazione della società che abbiamo visto attraversare l’Italia in questi ultimi tempi dovranno collocarsi dentro questo spazio. Quello che è certo, è che sarà tutto un altro film.
Questo articolo è stato pubblicato su DinamoPress il 4 febbraio 2021.